RAGIONEVOLE DURATA DEL PROCESSO: PROBLEMI APPLICATIVI IN ORDINE ALL’INDENNIZZABILITA’
La sentenza in commento (Sezione prima, sentenza n. 18162/08; depositata il 2 luglio) ravviva il dibattito interpretativo sulla legge n. 89 del 2001, legge “Pinto”, con la quale il legislatore italiano, in risposta alle continue sollecitazioni provenienti dalla Comunità Europea, ha introdotto nel nostro ordinamento giuridico uno strumento idoneo a consentire un’equa riparazione a coloro che abbiano subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto della violazione dell’articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali. La pronuncia n. 18162 del luglio 2008 appare rilevante, per la netta presa di posizione in ordine ad alcuni aspetti interpretativi tuttora controversi.
Questo il caso. La Corte di appello di Roma con decreto 3 ottobre 2005, decidendo sulla domanda di equa riparazione per un processo in materia previdenziale, respingeva la richiesta proposta dal ricorrente, basandosi sulla circostanza che la domanda dell’assistito aveva ad oggetto importi di denaro, per interessi e rivalutazioni sulle somme corrisposte in ritardo dall’Ente previdenziale di modesta entità. Talché la scarsa rilevanza della posta in gioco escludeva il danno non patrimoniale. Avverso tale pronuncia ricorreva la parte soccombente.
LA C.D. LEGGE PINTO: LA VIOLAZIONE DEL PRINCIPIO DELLA RAGIONEVOLE DURATA DEL PROCESSO E IL DIRITTO ALL’EQUA RIPARAZIONE
Il principio della ragionevole durata del processo è finalizzato al buon andamento della giustizia (nel senso di efficienza e di economia) e, soprattutto, rappresenta un canone obbiettivo e indefettibile del “giusto processo”.
Con la legge 24 marzo 2001 n. 89, rubricata “Equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’art. 375 del codice di procedura civile” (c.d. “legge Pinto”), il legislatore ha voluto creare uno strumento rivolto alla tutela del diritto al risarcimento dei danni subiti a causa dell’eccessiva durata dei processi.
Più precisamente, si tratta del risarcimento del danno conseguente alla lesione del diritto fondamentale previsto dall’art. 6, par. 1, della Convenzione europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo stipulata a Roma il 4 novembre 1950 e ratificata in Italia con la l. 4 agosto 1955, n. 848.
In particolare l’art. 2 della legge di cui in parola prevede il diritto all’equa riparazione a “chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto della violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali,” sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole.
Con la definizione equa riparazione si intende l’equa soddisfazione affermata dall’art. 41 della Convenzione (satisfaction équitable nel testo francese, just satisfaction nel testo inglese) ovvero un corrispettivo previsto dalla legge per fatti che producono lesioni non solo nel patrimonio del soggetto passivo, ma anche sui suoi diritti fondamentali”.
Con la c.d. Legge Pinto viene così sancito nel nostro ordinamento il principio, affermato dall’art. 6 della Convenzione, per cui “ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata imparzialmente, pubblicamente e in tempo ragionevole, da parte di un tribunale indipendente ed imparziale.” (comma 1).
Questa disposizione, ha dato quindi luogo a quel complesso di principi che comunemente viene definito del giusto processo.
Ma la ragionevole durata del processo rappresenta una garanzia oggettiva o un diritto dell’individuo? A detto interrogativo non è stata data una risposta unanime.
A tal proposito secondo l’orientamento maggioritario la ragionevole durata del processo va intesa come garanzia obiettiva della giurisdizione, svincolata dai diritti delle parti. Al contrario taluni hanno affermato che la formula della ragionevolezza dei tempi processuali rileverebbe invece la sua natura soggettiva, quale diritto fondamentale dell’individuo. Questa seconda interpretazione è avvalorata in particolare dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani.
A mio avviso entrambe le posizioni presentano elementi di verità.
Va da sé la considerazione che la legge 24 marzo 2001 n. 89 tutela quindi il diritto al risarcimento dei danni da durata irragionevole del processo.
La volontà del legislatore è stata quindi quella di indennizzare il pregiudizio sofferto a causa dell’eccessiva durata di qualsiasi procedimento giudiziario.
Problema interpretativo di immediata evidenza è, secondo lo scrivente, nella definizione stessa di “ragionevole durata” di un processo, la possibilità di reperire un parametro quantitativo oltre che qualitativo da utilizzare per stabilire quali siano i tempi ragionevoli di un procedimento giurisdizionale, e l’individuazione del criterio legale di liquidazione.
Ed invero non è stato normato quale sia il termine oltre il quale si può ritenere che sia stato violato il principio della ragionevole durata del processo.
La Convenzione europea elenca, a titolo esemplificativo, dei fattori per così dire significativi per valutare se vi sia o meno violazione della durata naturale di un dato processo, tra cui la complessità del caso e il comportamento tenuto dalle parti e dagli altri soggetti coinvolti, ma non offre una definizione del concetto di “ragionevole durata”.
La prassi giurisprudenziale tende ad operare una distinzione tra “conclusione della causa in tempi ragionevoli” e “tempo necessario per la trattazione della singola controversia”, facendo in particolare assurgere il primo dei due concetti a valore da perseguire imprescindibilmente ed il secondo a parametro di riferimento che non conduca ad una giustizia sbrigativa e sommaria giacché una simile impostazione lo renderebbe non giusto secondo il disposto dell’art. 111 Cost.
Ebbene, la Cassazione e la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo (c.d. CEDU) chiariscono che si è in presenza di un tempo irragionevole tutte le volte in cui il processo superi una durata complessiva di cinque anni.
Poiché nel caso di cui in commento il giudizio è durato sette anni, la Cassazione ha riconosciuto che si è verificata una durata irragionevole del processo, commisurando il quantum da liquidare esclusivamente a tale periodo, e non come da orientamento della CEDU in relazione all’intera durata del processo.
I CRITERI DI VALUTAZIONI DI DURATA IRRAGIONEVOLE
Atteso quando detto, giova ora individuare i criteri in base ai quali si possa determinare l’equa riparazione per irragionevole durata del processo.
In realtà non esiste una disposizione che determina in modo pedissequo i tipi di processo che possono fondare il risarcimento del danno. Difatti la disposizione dell’art. 2 co. 1 legge 24 marzo 2001 n. 89 è molto generica limitandosi a far riferimento solo alla violazione dell’art. 6 Convenzione per mancato rispetto del termine ragionevole.
Ai fini della valutazione dei criteri idonei alla valutazione circa il pregiudizio subito da irragionevole durata del processo va menzionato in primo luogo il comportamento delle parti e del giudice e quello di ogni altra autorità chiamata a concorrervi.
In proposito secondo la Corte europea il principio della ragionevole durata del processo viene violato qualora la parte dimostri di aver tenuto un atteggiamento “diligente” nell’esercizio dei propri poteri processuali. Rilevano, ad esempio, le continue ed ingiustificate richieste di rinvio, i frequenti cambiamenti di domicilio, la tardiva produzione di documenti ovvero la proposizione dei mezzi di impugnazione a scopo puramente dilatorio.
La parte non deve pertanto far ricorso a tecniche dilatorie ed è tenuta ad utilizzare gli istituti offerti dall’ordinamento interno per abbreviare il processo.
Ne consegue che sussiste responsabilità dello Stato ad esempio qualora il giudice non risolva prontamente questioni procedurali semplici ovvero quando emerga che il suo comportamento è stato negligente nella direzione del processo ovvero vi sia un’erronea organizzazione del sistema giudiziario e soprattutto da una carenza di risorse umane e dalla mancanza di misure
Un altro criterio attiene alla complessità del caso ovvero ad esempio agli aspetti della procedura, di fatto e di diritto.
In detta ipotesi il legislatore affida al giudice il compito di determinare caso per caso quella che dovrebbe essere stata la durata ragionevole del processo.
In particolare tale organo giudiziario prenderà in considerazione, ad esempio, il numero delle parti processuali e dei testimoni, la difficoltà ad ottenere determinate prove, l’incertezza giurisprudenziale su un punto di diritto.
Per vero non sussisterà invece la responsabilità dello Stato qualora l’eccessiva durata del processo sia una diretta conseguenza della complessità del caso.
Un ulteriore parametro introdotto dalla nostra giurisprudenza interna ai fini dei criteri per la valutazione circa il pregiudizio subito per l’irragionevole durata del processo è rappresentato dalla “posta in gioco”, ovvero della rilevanza degli interessi che costituiscono l’oggetto del giudizio, affermando che ai fini della determinazione dell’equa riparazione la sofferenza e l’ansia derivanti dalla eccessiva durata del processo devono essere rapportate anche, appunto, alla posta in gioco.
Ed invero detto parametro trova giustificazione nell’osservanza del principio espresso dall’art. 3 Cost. che vieta l’irragionevole uguaglianza di trattamento in presenza di fattispecie diverse.
A fortori ne deriva che una causa, avente oggettivamente e apparentemente contenuto modesto, in concreto, con riferimento a quella singola persona parte del processo, potrebbe, invece, avere un significato enorme di principio, in rapporto alla sua personalità, ai valori sposati essendo, ad esempio, collegata a personali motivi affettivi, alimentando stress e turbamento.
L’EQUA RIPARAZIONE E IL RISARCIMENTO DEL DANNO NON PATRIMONIALE
Parte della giurisprudenza ha affermato che ai fini delle valutazioni da compiere allo scopo di individuare l’ambito dei danni risarcibili che si rendano ricollegabili a un dato evento, possano meccanicisticamente ricondursi, a conseguenza di esso (e perciò a danno risarcibile) tutti indistintamente quegli accadimenti che abbiano comunque finito per inserirsi nella sequenza causale di quell’evento.
Pertanto possano ritenersi “causa” di un evento solo quegli accadimenti che ne siano il fattore efficiente immediato e diretto.
Ci si chiede però in che misura compete l’equa riparazione del danno atto ad indennizzare un pregiudizio che sia conseguenza immediata e diretta della violazione del diritto della parte alla ragionevole durata del processo.
L’art. 2 della Legge Pinto prevede espressamente la riparazione del danno sia patrimoniale inteso sotto il profilo del danno emergente e del lucro cessante che il danno non patrimoniale.
In relazione al danno patrimoniale il ricorrente dovrà fornire idonea prova del pregiudizio patrimoniale a causa della prolungata durata del processo. Per quanto attiene invece al danno non patrimoniale oltre al danno alla salute può rilevare il danno morale rappresentato dalla sofferenza, l’angoscia, l’ansia e il turbamento derivanti dall’irragionevole lungaggine del procedimento che, possono giustificare una posta risarcitoria più significativa in rapporto all’entità degli interessi in gioco.
Stesso discorso vale per il danno esistenziale, quale ulteriore e distinta voce di danno risarcibile per cui si può affermare che pur essendo voce di danno distinta e autonoma, con un proprio specifico contenuto, sembra comunque collegato al turbamento e alla sofferenza psichica che caratterizzano il pregiudizio morale.
In sostanza è difficile ipotizzare un danno esistenziale svincolato dalla sofferenza che identifica il danno morale.
La sentenza in commento appare interessante anche sotto questo profilo dal momento che affronta altresì la problematica circa la determinazione degli eventuali danni non patrimoniali subiti dal ricorrente.
Al riguardo, nella motivazione la Cassazione afferma esplicitamente la necessità di procedere secondo i principi e gli standard elaborati dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo.
Già con la sentenza n. 1340/2004 delle Sezioni Unite la Cassazione aveva affermato che “il danno non patrimoniale conseguente alla durata non ragionevole di un processo deve essere obbligatoriamente riconosciuto alla vittima della violazione, senza bisogno che la sua sussistenza sia provata” una volta che sia stata data prova della violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali sub specie di mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo.
Ma un aspetto peculiare correlato alla determinazione dell’equa riparazione attiene alla sua natura di risarcimento ovvero di indennizzo.
A ben vedere a sostegno della natura indennitaria dell’equa riparazione si può osservare quanto segue. In primo luogo si osservi che determinati termini utilizzati dal legislatore richiamano il fenomeno normativo di compensazioni patrimoniali rispondenti a prevalenti criteri di equità, al di fuori della disciplina dei fatti illeciti. In secondo luogo la natura indennitaria si desume espressamente dalla circostanza per cui la sussistenza dell’illecito extracontrattuale viene esclusa trattandosi di attività lecita.
Tuttavia dette argomentazioni non appaiono sostanzialmente decisive. Ed invero e da un lato il legislatore ha fatto riferimento a termini quali “riparazioni e indennizzo” d’altra parte questi ha fatto riferimento a una norma generale compresa nella disciplina generale del fatto illecito.
Si consideri oltretutto che la legge Pinto prevede il risarcimento sia del danno patrimoniale che non patrimoniale. Mentre un concetto di indennizzo equitativo potrebbe rilevare nel caso di danno psicologico, morale, esistenziale, ciò, non appare pertinente con riferimento ai danni patrimoniali e alla salute.
La legge Pinto inoltre richiama la disciplina codicistica del risarcimento del danno extracontrattuale. Il danno patrimoniale, soprattutto sotto il profilo del danno emergente, deve essere adeguatamente provato.
Al contrario, nella legge che disciplina l’indennizzo per l’ingiusta detenzione (artt. 314 e 315 cpp e 102 disp. att. cpp) non vi è alcun riferimento a norme e principi contenuti nella disciplina dell’illecito extracontrattuale.
Per quanto attiene quelle posizioni per cui la natura indennitaria si desumerebbe dal presupposto che trattasi di indennizzò da attività lecita occorre rilevare che nell’ambito della disciplina dell’illecito extracontrattuale è prevista nel nostro codice civile all’art. 2050 una figura di illecito derivante da attività assolutamente lecite e socialmente rilevanti, seppur potenzialmente pericolose.
L’unica differenza con l’art. 2043 c.c. è rappresentata dalla prova liberatoria più rigorosa in capo a chi svolge attività pericolosa.
Analogamente, nella disciplina predisposta dalla legge Pinto, pur trattandosi di attività lecita, ciò che caratterizza il diritto ad agire è l’illecito, il pregiudizio arrecato con riferimento a un diritto soggettivo perfetto: il diritto alla ragionevole durata del processo quale diritto fondamentale dell’uomo.
Dalle considerazioni suesposte e preso atto della natura discussa della riparazione del danno ne deriva che ai sensi dell’art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89 la durata irragionevole del processo arreca normalmente alle parti sofferenze di carattere psicologico sufficienti a giustificare la liquidazione di un danno non patrimoniale e, pertanto, accertata la stessa, il giudice deve ritenere tale danno esistente, sempre che non ricorrano, nel caso concreto circostanze particolari le quali facciano positivamente escludere che un pregiudizio sia stato subito dal ricorrente.
Tanto detto come puntualmente statuito dalla pronuncia in commento il riconoscimento del danno non patrimoniale non può essere impedito dall’entità della posta in gioco nel processo nel quale si è verificato il mancato rispetto del termine ragionevole.
Ebbene ove la posta in gioco sia esigua, se tale aspetto può avere un effetto riduttivo dell’entità del risarcimento non è tuttavia idoneo ad escludere l’esistenza del danno.
ALCUNI SPUNTI CRITICI
La legge 89/2001 trae infatti origine dalla ripetuta e oramai consolidata prassi della giustizia italiana di coinvolgere i soggetti processuali oltre tempi ritenuti ragionevoli, e dai relativi moniti provenienti dalla Comunità Europea la quale ha più volte esortato lo Stato italiano a prevedere idonee misure, a monte – per ridurre i tempi dei processi, a valle – consentendo al singolo di proporre domanda di accertamento e di condanna al risarcimento del danno davanti alla Corte d’appello (che decide applicando il rito camerale e con decreto immediatamente esecutivo ed impugnabile in Cassazione).
Si sono conseguentemente ridotti i ricorsi alla Corte di Strasburgo, e privilegiati invece i ricorsi interni.
Resta intatto però l’intreccio e la duplicità di apporti, anche e soprattutto interpretativi, del legislatore nazionale da una parte e di quello sovranazionale dall’altra.
Dirompente in tal senso è stata la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione (n. 1339/2004), laddove ha stabilito che il giudice italiano, nell’applicare la legge Pinto, può anche abbracciare un’interpretazione non conforme a quella della Corte di Strasburgo. Decisione peraltro che solleva qualche dubbio; basti pensare che un soggetto il quale non abbia ricevuto adeguata tutela in sede nazionale, a causa del discostamento del giudicante dal corrispondente modus decidendi della Corte Europea, potrebbe successivamente azionare i propri diritti davanti a quest’ultima, con evidente aggravio in termini di costi e tempi e dunque in aperto contrasto con la ratio della stessa legge Pinto.
Ebbene da una parte tale sentenza ha indubbiamente il pregio di prendere posizione in merito al riconoscimento del peso e dell’autorevolezza delle interpretazioni provenienti dagli organi giurisdizionali italiani in ambiti in cui il legislatore comunitario è intervenuto e interviene sempre più con forza, dall’altra sembra porsi come una “occasione mancata” laddove il tema esigeva forse un maggiore approfondimento e una motivazione più ampia, che non liquidasse la questione in poco più di un pagina, ma al contrario contribuisse a rafforzare quella cultura del “giusto processo” che in particolare all’indomani della riforma dell’art. 111 comma 1 e 2 Cost. si impone nello svolgimento dell’attività giurisdizionale.
Il “nuovo” art. 111 Cost. enuncia espressamente, tra gli altri, il principio della ragionevole durata del processo (“Ogni processo si svolge nel contraddittorio delle parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”), ponendosi nel solco di uno dei capisaldi del nostro ordinamento giuridico: il diritto alla tutela giurisdizionale e il diritto di difesa ex art. 24 Cost.
Il diritto, fondamentale ed inviolabile, ad un giusto processo è strettamente connesso con l’attuazione della giurisdizione, che, secondo l’interessante posizione di Meloncelli, si identifica con “quell’attività statale consistente nella determinazione neutrale del diritto vigente volta a conferire certezza ai rapporti giuridici dedotti in giudizio e ad assicurare l’imparziale tutela degli interessi delle parti”.
Manifestazione immediata di tale supremo principio e strumento di realizzazione concreta dello stesso è, appunto, la previsione della garanzia di una “ragionevole durata” dell’azione intrapresa a salvaguardia delle proprie ragioni e pretese; assunto che finisce per condizionare, e non potrebbe essere altrimenti, la stessa struttura del processo, influendo sulla regolamentazione del suo svolgimento e sull’organizzazione giudiziaria, l’una e l’altra dovendo approntare quegli strumenti necessari a conferire effettività a tali dettami costituzionali. La tutela giurisdizionale è effettiva solo se tempestiva e solo se la dilatazione temporale connaturale alla dinamica del procedimento giurisdizionale viene contenuta nei limiti strettamente necessari.
D’altro canto occorre considerare che mentre l’art. 34 CEDU e la Legge Pinto si risolvono nel riconoscimento di una situazione giuridica soggettiva che il singolo può far valere mediante ricorso individuale, l’art. 111, comma 2 Cost. delinea una garanzia oggettiva, piuttosto che meramente soggettiva, in grado appunto di incidere sul sistema nella sua interezza.
Tanto premesso, orbene, al fine di beneficiare di un processo giusto, l’unico rimedio opportuno è evitare le lungaggini del processo, ed invero sul punto sono numerosi gli interventi del legislatore sia nazionale (si veda la Legge Pinto in materia di indennizzi e risarcimenti in caso di processi di eccessiva lunga durata) che comunitario, anche se l’obiezione che si può muovere è dettata dalla circostanza che gli interventi normativi sinora attuati sono di natura esclusivamente settoriale.
Si citano, a titolo di esempio, alcune delle riforme processuali attuate negli ultimi anni dal nostro legislatore, quali la limitazione delle ipotesi di sospensione del processo, al fine di scoraggiare gli abusi connessi ad un atteggiamento e ad iniziative processuali volte esclusivamente a dilazionare i tempi (si veda sul punto Cass. civ. sez. II n. 4314/2008 “Nell’attuale sistema processuale, improntato al principio costituzionale della ragionevole durata del processo, deve escludersi ogni possibilità di disporre la sospensione per ragioni di mera opportunità, salvo i casi eccezionalmente previsti dalla legge”); l’aver attribuito al giudice istruttore il potere di emettere provvedimenti anticipatori di condanna, che possono anche essere immediatamente esecutivi e suscettibili di diventare definitivi e sostituirsi così alla sentenza, con conseguente opportunità di evitare almeno parte delle lunghe fasi abitualmente previste per addivenire alla decisione finale; la costruzione di un istituto, quello della riunione di procedimenti relativi a cause connesse ex art. 274 c.p.c., in termini di istituto “idoneo a garantire l’economia processuale ed il minor costo dei giudizi, oltre alla certezza del diritto, che risulta applicabile anche in sede di legittimità, in relazione a ricorsi proposti contro sentenze diverse pronunciate in separati giudizi, in ossequio al precetto costituzionale della ragionevole durata del processo, cui è funzionale ogni opzione semplificatoria ed acceleratoria delle situazioni processuali che conducono alla risposta finale sulla domanda di giustizia” (Cass. civ. sez. V n. 1237/2007); l’aver previsto per la Corte di Cassazione sia la possibilità di pronunciarsi in camera di consiglio ogni qual volta si renda necessaria una pronuncia sul rito o meramente ordinatoria, oppure ancora quando risulti manifesta la fondatezza o l’infondatezza del ricorso, sia il potere di decidere la causa nel merito qualora non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto, evitando con tali accorgimenti delle inutili dilatazioni dei tempi processuali.
In buona sostanza si registra la sempre maggiore tendenza a condizionare le riforme e le interpretazioni di norme ed istituti al rispetto del principio della “ragionevole durata” e del “giusto processo”.
Per una soluzione più sistematica, e meno settoriale, di tale problematica, ossia per fare in modo che i suddetti principi entrino concretamente a far parte anche del processo civile nel suo complesso, la dottrina più autorevole è intervenuta proponendo di considerare la riforma del rito societario di cui al dlgs 5/2003 come modello generale dell’attuale processo civile. Rito che, per inciso, è improntato ai canoni di celerità efficacia e tutela del contraddittorio e che si articola in tre fasi principali: predibattimentale, dibattimentale, decisoria.
Un altro aspetto che giova considerare attiene agli smisurati costi prodotti dall’eccessiva durata di un processo, la quale non soltanto reca nocumento al singolo individuo che chiede tutela giurisdizionale ma altresì costituisce fattore che impedisce la crescita economica del Paese nel senso di frenarne aprioristicamente la valorizzazione del capitale finanziario, professionale ed umano.