L’aggredibilità del fondo patrimoniale nell’esecuzione esattoriale
Il giudice di merito deve accertare la relazione sussistente tra il fatto generatore del debito e l’inerenza diretta ed immediata con i bisogni della famiglia
Secondo una recente pronuncia della Suprema Corte di Cassazione – sentenza n. 1320 del 18 gennaio 2022 – una volta costituito il fondo patrimoniale, il criterio identificativo dei crediti il cui soddisfacimento può essere realizzato in via esecutiva sui beni conferiti nel fondo va ricercato, non già nella natura delle obbligazioni (legali o contrattuale), ma nella relazione esistente tra il fatto generatore di esse ed i bisogni della famiglia.
Il fondo patrimoniale
Dalla lettura delle scarne norme del codice civile emerge subito un duplice livello di disposizioni: da una parte, viene garantita la concreta destinazione dei beni conferiti in fondo patrimoniale alla soddisfazione dei bisogni della famiglia e, dall’altra, la famiglia viene protetta da eventuali usi distorti delle risorse ivi confluite, preservandone l’integrità economica.
Si tratta, insomma, di norme che sono rivolte alle parti affinché esse definiscano e modulino, nei limiti fissati dalla legge stessa, proprio i contorni del vincolo di destinazione come imposto e, nel contempo, che inibiscono ai terzi creditori per ragioni estranee ai bisogni della famiglia, in assenza di un idoneo atteggiamento psicologico, di poter agire esecutivamente sui beni conferiti. Tale strumento permette quindi la realizzazione di un duplice scopo: innanzitutto, dà maggiore forza e concretezza alla fruizione da parte della comunità familiare dei beni conferiti nel fondo e dei frutti degli stessi; inoltre, accanto alla previsione di un vincolo di inalienabilità, convezionalmente definibile nel suo contenuto e, pertanto, attenuabile, la statuizione di una rigorosa forma di inespropriabilità a tutela delle pretese dei creditori familiari, consente da una parte di porre i beni oggetto del fondo al di fuori dei rischi discendenti da non oculata gestione delle vicende patrimoniali dei coniugi e, dall’altra, di agevolare la possibilità di accedere al credito per la soddisfazione di esigenze di tipo strettamente familiare.
Una sicura chiave di ricostruzione sistematica dell’istituto in esame e, conseguentemente, dei limiti alla modulazione convenzionale dell’istituto, deve essere individuata negli interessi che il legislatore ha inteso con la sua definizione normativa riconoscere e tutelare.
L’interesse della famiglia è la risultante, infatti, di dinamiche non univoche provenienti dall’interno del medesimo “gruppo-famiglia”: in tal senso, il potere di iniziativa patrimoniale disgiuntiva spettante a ciascuno dei coniugi in attuazione dell’indirizzo familiare prescelto insieme, pur impegnando anche l’altro coniuge non agente, ha lo scopo essenziale di realizzare i bisogni del nucleo familiare. Ciascuno dei coniugi deve contribuire, quindi, a dare attuazione all’indirizzo prescelto ed a soddisfare le esigenze familiari ad esso conseguenti. Ecco, allora, che la definizione della misura globale della contribuzione è conseguenza proprio dell’entità dei bisogni familiari, una volta determinatone il contenuto minimo; ed all’opposto i coniugi non possono far discendere viceversa dalla scelta di un indirizzo di vita particolarmente alto, elevati bisogni familiari: in tal caso, è infatti la capacità di contribuzione complessiva a rappresentare eccezionalmente il limite “rigido e anelastico alla progressione dei bisogni” medesimi.
Sulla misura dell’obbligo di contribuzione incide, peraltro, la costituzione del fondo patrimoniale. I coniugi possono scegliere, infatti, l’indirizzo della vita familiare reso possibile anche dal reddito prodotto dal fondo, dalle sue possibilità di utilizzo, nonché dal suo valore capitale, e potrebbero decidere di mettere da parte i frutti eccedenti in vista di un reimpiego in futuro per la soddisfazione delle esigenze di famiglia. In tale ipotesi, in realtà, non trova applicazione il principio di proporzionalità, che riemergerà invece nell’ipotesi in cui essendo insufficienti i beni costituiti in fondo patrimoniale ed i frutti ricavati per la soddisfazione delle esigenze della famiglia, occorrerà piuttosto ricorrere ai beni facenti parte della comunione ed ai beni personali dei coniugi. Sarà proprio in tale ipotesi che non potrà non tenersi conto del contributo eventualmente non proporzionato apportato dal coniuge nella costituzione del fondo patrimoniale. La specifica destinazione alla realizzazione dei bisogni della famiglia di specifici beni appartenenti a peculiari categorie ed il duplice vincolo alla facoltà di disposizione e godimento per i coniugi che ne sono titolari ed alla loro responsabilità nei confronti dei creditori, le ragioni dei quali non sono garantite se relative a debiti contratti per scopi estranei alle esigenze familiari, dai creditori stessi non conosciute, rappresentano allora i tratti distintivi di un istituto, disciplinato solo da poche, scarne disposizioni e precisamente dagli artt. 167-171 cod. civ..
L’evoluzione della realtà giuridica ha, tuttavia, condotto l’interprete a confrontare un disegno normativo, piuttosto conciso dal punto di vista dell’estensione della disciplina, con le nuove esigenze della famiglia, dettate dall’evoluzione della società, sia in ordine alla definizione dei beni che ne possono formare oggetto, sia in ordine alla modulazione di un siffatto vincolo da parte dei costituenti, attraverso la predisposizione di un peculiare contenuto convenzionale.
Tali considerazioni permettono, allora, di attribuire all’istituto del fondo patrimoniale, al di là delle interminabili dispute sulla sua natura giuridica, lo svolgimento di una essenziale funzione nella realizzazione dell’indirizzo di vita prescelto ai sensi dell’art. 144 cod. civ. che è nel contempo funzione dinamica, ove si acceda ad una lettura delle disposizioni flessibile ed adeguabile alle esigenze che di volta in volta emergessero nella famiglia, e soprattutto funzione di salvaguardia dei beni che ne formano oggetto non meramente passiva, ma progressiva e propositiva nei confronti dei creditori per esigenze familiari, che possono trovare maggiori elementi di convincimento nella concessione del credito per i bisogni della famiglia, proprio perché specificamente garantiti. La dottrina ha poi individuato nel fondo patrimoniale più esattamente i tratti distintivi talora di un “patrimonio separato” o talora di “un patrimonio autonomo”.
La definizione contenutistica di questi due concetti non è però accolta da tutti nella stessa accezione.
È tuttavia, certo, che la titolarità dei diritti sui beni oggetto del fondo spetta in comunione ai coniugi, anche nell’ipotesi in cui l’atto di costituzione contenga la riserva della proprietà in capo al o ai costituenti. I frutti di siffatti beni e, più in generale, tutte le utilità da loro tratte devono essere, poi, impiegate esclusivamente a profitto ed a beneficio della famiglia medesima. La stessa prospettiva governa, inoltre, il regime tutorio delle alienazioni dei beni soggetti ad un siffatto vincolo e ad essa devono ispirare i loro atti dispositivi i coniugi anche nelle ipotesi nelle quali la considerazione dell’interesse della famiglia medesima sia rimesso alla sola loro discrezionalità. Una tale configurazione privilegia, certo, in modo specifico i creditori della famiglia, i quali non troveranno alcun ostacolo nel vincolo alla esecuzione imposto dal fondo patrimoniale, attesa la natura del loro credito, e potranno, anzi, soddisfare le loro ragioni anche sui beni in comunione e sul patrimonio personale dei coniugi che hanno assunto l’obbligazione.
La destinazione di “far fronte ai bisogni della famiglia” assume, infatti, una colorazione di segno positivo nei confronti dei coniugi, nel senso che attraverso i beni ed i loro frutti essi devono realizzare le esigenze della medesima famiglia, e di segno negativo nei confronti dei creditori i quali non possono procedere all’esecuzione per debiti che conoscevano esser stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia.
In questo senso, allora, i beni costituiti in fondo patrimoniale costituiscono, in realtà, un vero e proprio “patrimonio indipendente” o “un patrimonio non confuso” rispetto agli altri beni dei quali i coniugi sono titolari ciascuno di loro a titolo personale ed esclusivo o in comunione legale, proprio perché il legislatore ha attribuito al vincolo di destinazione un carattere qualificato e una specifica rilevanza giuridica sotto il profilo dell’amministrazione, della garanzia e della responsabilità.
Un dato appare, allora, innanzitutto chiaro.
Le caratteristiche tecniche dell’istituto rappresentano un’evidente deroga all’art. 1379 cod. civ. dal quale discende il divieto di imporre limiti aventi efficacia reale ed assoluta al potere di alienazione e di disposizione dei beni ed all’art. 2740 cod. civ. secondo il quale ciascun debitore risponde con il proprio intero patrimonio nei riguardi dei creditori.
I beni oggetto del fondo patrimoniale ed i loro frutti, rivolti ad attuare l’indirizzo di vita familiare scelto da entrambi i coniugi, soddisfacendo contemporaneamente i loro obblighi di assistenza reciproca, di mantenere, istruire ed educare la prole nonché le esigenze della comunità familiare stessa, devono essere al riparo – a ben precise condizioni, normativamente definite nel loro contenuto essenziale (art. 170 cod. civ.) – da istanze e azioni da parte di soggetti portatori di interessi in conflitto con le esigenze medesime della famiglia. Una siffatta lettura delle disposizioni del codice civile che regolano il fondo patrimoniale, frutto della riforma del diritto di famiglia, alla luce degli interessi da esse tutelati, permette di attribuire, allora, all’istituto una colorazione tendenzialmente positiva.
La maggior tutela delle ragioni dei creditori, rispetto alla parallela disciplina relativa al patrimonio familiare, che rende ammissibile un’esecuzione anche sui beni stessi costituiti in fondo, e non solo sui frutti degli stessi, segnala, in tal senso, l’evidente volontà del legislatore di conciliare il preminente interesse alla realizzazione delle esigenze familiari con l’esclusione astratta o, quanto meno, la limitazione in concreto di un ricorso fraudolento allo strumento giuridico in esame.
Riscossione coattiva delle imposte: è possibile l’iscrizione ipotecaria sui beni facenti parte di un fondo patrimoniale?
In tema di riscossione coattiva delle imposte, l’iscrizione ipotecaria di cui all’art. 77 del D.P.R. 602 del 1973 è ammissibile anche sui beni facenti parte di un fondo patrimoniale alle condizioni indicate dall’articolo 170 cod. civ., sicché è legittima solo se l’obbligazione tributaria sia strumentale ai bisogni della famiglia o se il titolare del credito non ne conosceva l’estraneità ai bisogni della famiglia; ne consegue che l’esattore può iscrivere ipoteca su beni appartenenti al coniuge o al terzo, conferiti nel fondo, qualora il debito facente capo a costoro sia stato contratto per uno scopo non estraneo ai bisogni familiari, ovvero quando – nell’ipotesi contraria – il titolare del credito, per il quale l’esattore procede alla riscossione, non conosceva l’estraneità ai bisogni della famiglia; viceversa, l’esattore non può iscrivere l’ipoteca – sicché, ove proceda in tal senso, l’iscrizione è da ritenere illegittima – nel caso in cui il creditore conoscesse tale estraneità.
Ulteriore conseguenza è anche l’irrilevanza della anteriorità o posteriorità del credito rispetto alla costituzione del fondo, atteso che il divieto di esecuzione forzata non è limitato ai soli crediti (estranei ai bisogni della famiglia) sorti successivamente alla sua costituzione, ma vale anche per i crediti sorti anteriormente, salva la possibilità per il creditore, ricorrendone i presupposti, di agire in via revocatoria (cfr. Cass. n. 15862 del 2009).
Con particolare riferimento ai debiti tributari si è anche precisato che “In tema di fondo patrimoniale, il criterio identificativo dei debiti per i quali può avere luogo l’esecuzione sui beni del fondo va ricercato non già nella natura dell’obbligazione ma nella relazione tra il fatto generatore di essa e i bisogni della famiglia, sicché anche un debito di natura tributaria sorto per l’esercizio dell’attività imprenditoriale può ritenersi contratto per soddisfare tale finalità, fermo restando che essa non può dirsi sussistente per il solo fatto che il debito derivi dall’attività professionale o d’impresa del coniuge, dovendosi accertare che l’obbligazione sia sorta per il soddisfacimento dei bisogni familiari (nel cui ambito vanno incluse le esigenze volte al pieno mantenimento ed all’univoco sviluppo della famiglia) ovvero per il potenziamento della di lui capacità lavorativa, e non per esigenze di natura voluttuaria o caratterizzate da interessi meramente speculativi” (cfr Cass. n. 3738 del 2015).
Il vincolo di destinazione del fondo patrimoniale
Il fondo patrimoniale costituito ex art 167 c.c. impone un vincolo di destinazione su determinati beni, per far fronte ai bisogni della famiglia, con la conseguenza, in ragione di quanto dispone l’art. 170 cod. civ., che “la esecuzione sui beni del fondo e sui frutti di essi non può aver luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia”.
Qualora sorga controversia sulla assoggettabilità dei beni ad esecuzione forzata deve, pertanto, accertarsi in fatto se il debito si possa dire contratto per soddisfare i bisogni della famiglia (o se il titolare del credito non ne conosceva l’estraneità a tali bisogni) e, in particolare, qualora si tratti di obbligazioni tributarie gravanti sui redditi, se il reddito in questione è ‘destinato alla soddisfazione dei bisogni familiari; con la importante precisazione che, se è vero che tale finalità non si può dire sussistente per il solo fatto che il debito sia sorto nell’esercizio dell’impresa, è vero altresì che tale circostanza non è nemmeno idonea ad escludere, in via di principio, che il debito si possa dire contratto, appunto, per soddisfare tali bisogni (cfr. da ultimo, Cass. 10166/2020).
Cosa si intende con la locuzione “bisogni di famiglia”
Diviene allora importante precisare cosa si debba intendere per bisogni familiari e come si individuano le risorse economiche ad essi destinate, all’interno di un modello familiare che nel tempo si è evoluto e tende ad armonizzare e bilanciare gli interessi della famiglia con quelli individuali ed a valorizzare le scelte di libertà nonché l’autonomia dei coniugi nel regolare la vita familiare, nella cornice data dai doveri definiti come inderogabili dall’art 160 cod. civ..
Sotto un certo profilo è innegabile che ogni ricchezza individuale è potenzialmente idonea ad arrecare un vantaggio anche indiretto al nucleo familiare, ma ai fini che qui interessano la nozione di obbligazione contratta per i bisogni della famiglia deve necessariamente avere una portata più circoscritta, diversamente si vanificherebbe la riconosciuta possibilità per il debitore di dimostrare la sussistenza del requisito soggettivo, anche sulla base di presunzioni (cfr. Cass., n. 15886/2014; Cass. n. 4011/2013).
Una parte della dottrina ha infatti osservato che se si fornisce un’interpretazione lata della locuzione “bisogni della famiglia“, facendovi rientrare ogni vincolo obbligatorio idoneo a determinare un arricchimento indiretto del nucleo familiare, la prova della consapevolezza in capo al creditore dell’estraneità del debito per cui si procede a quelli contratti per il soddisfacimento di tali bisogni risulta non solo estraneamente difficile, ma anche in ultima analisi inutile.
Di questa criticità appare però consapevole quella giurisprudenza di legittimità, in progressivo consolidamento, che tende a richiedere la inerenza diretta ed immediata con i bisogni della famiglia della obbligazione contratta (cfr. Cass. 16176/2018; Cass.8201/2020).
In quest’ottica, può dirsi che non sono estranei ai bisogni della famiglia i debiti tributari inerenti all’attività di lavoro dei coniugi (o altre attività produttive), se da tale attività la famiglia trae i mezzi di mantenimento.
Ciò però implica la necessità di inquadrare la questione nella disciplina della contribuzione familiare, che è data da un regime primario e cioè l’obbligo di contribuzione di cui agli artt. 143 e 316 bis cod. civ., e un regime secondario, dato dal regime patrimoniale scelto dai coniugi, e qui non può disconoscersi che i coniugi che costituiscono un fondo patrimoniale per ciò stesso esprimono una scelta che tende, se non a circoscrivere, quantomeno a separare le risorse che si vuole destinare alla famiglia da altre.
Deve considerarsi che non sussiste un dovere generalizzato dei coniugi di destinare tutti proventi della propria attività lavorativa (o i redditi da capitale) ai bisogni della famiglia. Infatti, ciascun coniuge percettore di reddito ha, rispetto ai proventi, un potere di godimento, amministrazione e disposizione pieno, salvo il limite di contribuire ai bisogni della famiglia (cfr. Cass. 2597/2006).
Questa regola è stata enunciata dalla Corte di legittimità con riferimento ai coniugi in regime di comunione legale; a maggior ragione si dovrà ritenere libero (una volta assolto l’onere di contribuzione) di destinare ad altre finalità i propri beni e proventi il coniuge che ha provveduto a costituire un fondo patrimoniale, e cioè un insieme di beni che già di per sé sono destinati al soddisfacimento dei bisogni della famiglia.
Deve inoltre tenersi conto dell’autonomia dei coniugi nel concordare l’indirizzo della vita familiare, ex art. 144 cod. civ., accordo che riguarda anche il tenore di vita e che di conseguenza definisce l’area dei bisogni familiari ed individua le risorse da destinare ad essi, nonché della complessità e pluralità degli attuali modelli familiari, il che rende possibile la concorrenza contemporanea di più obbligazioni di natura familiare nei confronti di soggetti diversi e che non fanno parte dello stesso gruppo (ad es:. un ex coniuge e nuova famiglia fondata dopo il divorzio, ma anche la sussistenza, in concreto, di obbligazioni alimentari verso i soggetti indicati dall’art. 433 cod. civ.).
I bisogni della famiglia devono allora intendersi non solo in senso oggettivo, né come potenzialmente assorbenti l’intero reddito dei coniugi, ma anche come quei bisogni che sono ritenuti tali dai coniugi in ragione dell’indirizzo della vita familiare e del tenore di vita prescelto, in conseguenza delle possibilità economiche familiari (cfr. Cass. 5017/2020).
La valorizzazione della regola dell’accordo, anche in tema di esecuzione coattiva sui beni del fondo patrimoniale, stata di recente ribadita dalla Suprema Corte di Cassazione che anche richiamando precedenti in tema ha precisato che i bisogni della famiglia debbono essere “intesi in senso lato, non limitatamente cioè alle necessità c.d. essenziali o indispensabili della famiglia ma avendo più ampiamente riguardo a quanto necessario e .funzionale allo svolgimento e allo sviluppo della vita familiare secondo il relativo indirizzo, concordato ed attuato dai coniugi” (cfr. Cass. n. 2904/2021).
Con particolare riferimento ai debiti derivanti dall’attività professionale o d’impresa del coniuge, nella stessa sentenza si afferma che l’esecuzione sui beni del fondo o sui frutti di esso può avere luogo qualora la fonte e la ragione del rapporto obbligatorio abbiano “inerenza diretta ed immediata con i predetti bisogni” (cfr. anche Cass. 16176/2018).
È pertanto necessario l’accertamento da parte del giudice di merito della relazione sussistente tra il fatto generatore del debito e i bisogni della famiglia, avuto riguardo alle specifiche circostanze del caso concreto; ed al riguardo si deve rimarcare che nel citato arresto giurisprudenziale del 2021 vi è, tra gli altri, un richiamo esplicito alla sentenza della Suprema Corte di Cassazione n. 12998/2006 la quale, nel chiarire i rapporti tra reddito di impresa e bisogni della famiglia, ha affermato la necessità di verificare se “l’obbligo, fonte del debito, sia stato ab origine contratto per soddisfare bisogni della famiglia…Diversamente opinando ogni esercizio di attività di impresa (e non solo) verrebbe per ciò stesso intrapresa e svolta per esigenze della famiglia e non potrebbero sussistere attività che non siano destinate a soddisfare i bisogni della famiglia stessa”, così rendendo “solo virtuale peraltro la possibilità della probatio diabolica della conoscenza da parte del creditore che il debito fosse contratto per scopi estranei ai bisogni della famiglia” (cfr. Cass. 12998/2006).
Il rischio di imporre al debitore una probatio diabolica si può in verità scongiurare ammettendo – così come la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione ammette – che la prova della consapevolezza da parte del creditore della estraneità del debito ai bisogni della famiglia possa darsi per presunzioni semplici (cfr. Cass. 2904/2021), che sono da leggersi nel contesto normativo specifico, poiché le obbligazioni che si contraggano nell’interesse della famiglia non hanno una fonte puramente volontaria ma discendono da obblighi legali fondati allo status, che ne definiscono anche i confini entro i quali si esercita l’autonomia privata, tramite l’accordo sull’indirizzo della vita familiare.
Ancora deve osservarsi che, se il creditore è l’erario, che non ha rapporti personali con il debitore e non ne conosce la situazione familiare e personale se non per quanto emerge dagli atti fiscalmente rilevanti, e dal regime legale della famiglia (primario e secondario) è giocoforza affidarsi a presunzioni semplici fondate sui fatti oggettivamente rilevanti, al loro inquadramento nella disciplina del regime patrimoniale della famiglia, ed alle conclusimi che se ne possono trarre secondo un processo logico deduttivo.
Sulla base di questi principi, deve ritenersi consentito al contribuente che abbia una pluralità di fonti di reddito e, in particolare, una pluralità di partecipazioni societarie, di provare, anche per presunzioni semplici, e al fine di contrastare le esecuzione sui beni del fondo patrimoniale, la diversa natura di ciascuna partecipazione e la destinazione dei relativi proventi, così da accertare se l’obbligazione tributaria grava su un reddito destinato al mantenimento della famiglia, o se si tratti di interessi speculativi con finalità di lucro personale ovvero di spese personali anche voluttuarie, ovvero anche di proventi destinati alla soddisfazione di altri interessi e all’assolvimento di altri obblighi, tra essi compresi gli obblighi di natura familiare per soggetti che non fanno parte di quella “famiglia” per le cui esigenze è stato costituito il fondo patrimoniale.