La rinegoziazione volontaria del mutuo
1) La rinegoziazione volontaria nei contratti di durata
Lo studio del fenomeno della rinegoziazione esige un approccio scientifico problematico che investe finanche la definizione stessa del termine.
L’analisi dell’attività in esame deve infatti prender le mosse dalla risoluzione indispensabile di due problemi basilari, l’uno di natura semantica, l’altro di natura dogmatica[1].
Quanto al significato letterale del termine “rinegoziazione”, si è affermato che esso può indicare, in una prima e lata accezione, l’attività delle parti che ridiscutono il contenuto dei patti cui si sono vincolati con un precedente accordo[2]. Se, infatti, rinegoziare significa reiterare l’attività volta a definire le conseguenze di un vincolo preesistente, coloro i quali rivedono le loro rispettive posizioni giuridiche, altro non fanno che ridiscutere il contenuto di un precedente accordo[3].
Un’ulteriore considerazione che consente di restringere il campo di indagine sulla rinegoziazione è data dal riferimento di quest’ultima alle sole fattispecie contrattuali, sebbene, in ambito civilistico, le attività dei soggetti finalizzate alla revisione delle reciproche posizioni giuridiche investano sfere che travalicano gli accordi contrattuali.
Invero, il riferimento alla reiterazione di un’attività di matrice “negoziale” sembra escludere dal novero dei vincoli giuridici soggetti alla rinegoziazione quelli nascenti da un titolo non contrattuale[4].
Chiarita la portata semantica del termine, si rende necessario un inquadramento dogmatico del fenomeno: in primis occorre domandarsi se si tratti soltanto di una fattispecie empirica oppure si possa parlare di un vera e propria categoria giuridica creata dalla prassi negoziale[5].
Per sgomberare il campo da improduttive perplessità, deve essere da subito chiarito che, elevando il fenomeno della rinegoziazione a istituto giuridico, si corre il rischio di assimilarlo ad un altra fattispecie normativa, quella della revisione, di tal che si finisce con l’osservare l’atto del rinegoziare come mero strumento funzionale al raggiungimento di uno scopo, la revisione, appunto[6].
In realtà, un’analisi mirata dell’attività di rinegoziazione non può permettersi di guardare al fenomeno come ad un semplice strumento della revisione, limitandosi a considerarlo come il tramite per il raggiungimento di uno scopo.
Per tale motivo, ai fini di un’indagine scientifica incentrata sull’ontologia oltre che sulla funzionalità della rinegoziazione, appare più corretto inquadrare quest’ultima come fattispecie empirica.
L’individuazione delle caratteristiche della fattispecie, prima facie, non presenta particolari difficoltà: la rinegoziazione si sostanzia infatti in una iterazione della stipulazione che è sempre sostitutiva, parziale, e relativa al contenuto[7].
L’elemento iterativo si ricava dalla identità delle parti che pervengono al nuovo regolamento di interessi; esse sono infatti le medesime della prima stipula, o, al più, i loro successori nel rapporto rinegoziato[8].
Altra peculiarità della rinegoziazione sembra essere il carattere sostitutivo delle statuizioni concordate tra le parti in sede di revisione della stipula: a tal proposito si è sostenuto[9] che la volontà delle parti è indirizzata alla modifica degli originari termini contrattuali e non alla introduzione di nuovi elementi di carattere integrativo.
In verità, nella prassi negoziale, potrebbero ben verificarsi ipotesi di concorrenza tra modifiche dei precedenti termini convenuti e integrazioni del precedente accordo mediante nuove previsioni. L’oggetto della rinegoziazione è infatti costituito dal contenuto globale del contratto e non dai singoli termini del contratto preesistente, per cui l’attività intesa alla revisione delle reciproche posizioni potrebbe comportare non solo modifiche del precedente schema contrattuale, ma anche aggiunte ulteriori[10].
In tale prospettiva la rinegoziazione si configurerebbe come attività potenzialmente complessa, costituita da scelte negoziali non solo modificative, ma anche integrative, del precedente regolamento di interessi.
Difatti, se lo scopo precipuo della rinegoziazione è il riequilibrio di un assetto contrattuale alterato da elementi sopravvenuti ed imprevedibili al tempo della conclusione dell’accordo, il raggiungimento di un nuovo equilibrio può ragionevolmente esigere sia la ridiscussione di elementi già esistenti, sia l’introduzione di patti ulteriori[11].
Cionondimeno, le variazioni del contenuto contrattuale devono essere necessariamente parziali: non è infatti concepibile un’attività rinegoziativa che riveda il contratto in tutti i suoi aspetti[12].
In tale ultimo caso, l’ampiezza dell’aliquid novi sarebbe tale da rendere inutile la sopravvivenza del preesistente regolamento di interessi, che sarebbe interamente sostituito dal nuovo accordo: è chiaro che in tal caso l’interprete sarebbe indotto a ricondurre tale fenomeno alla fattispecie della novazione estintiva[13] piuttosto che a quello della rinegoziazione.
Difatti, l’identità del rapporto “rinegoziato” persisterà nel solo caso di permanenza del contenuto essenziale del precedente regolamento di interessi e non in caso di suo complessivo sovvertimento[14].
È chiaro che, se da un lato restano fuori dallo specifico ambito della rinegoziazione le modificazioni che interessano l’intera convenzione contrattuale, non possono considerarsi riconducibili alle trattative rinegoziative neppure le attività meramente ricognitive ed esecutive del contratto stesso[15].
La fissazione di una regola convenzionale preventiva che possa far fronte agli inconvenienti sopraggiunti nel lasso di tempo che intercorre tra la conclusione dell’accordo e la sua effettiva esecuzione consente di sottrarre alla discrezionalità delle parti la trattativa volta a riconsiderare i mutati equilibri tra le prestazioni.
In tale ambito, l’esperienza empirica più consistente e al contempo più interessante è offerta dalle clausole di rinegoziazione. Non è agevole, come evidenziato in precedenza, tracciare un profilo generico delle clausole in questione tale da consentire l’elaborazione di un concetto onnicomprensivo, capace di contenerne tutte le possibili forme di manifestazione e di rappresentare con sufficiente grado di sistematicità il contenuto che possono assumere in concreto le clausole[16].
Tuttavia la casistica dimostra che, in linea di massima, gli accordi volti alla definizione preventiva del contegno delle parti in caso di sopravvenienze possono suddividersi in tre grandi categorie, nelle quali l’attività rinegoziativa è graduata in ordine crescente, a seconda del diverso grado di pervasività della clausola di rinegoziazione: la prima tipologia consta di quei patti che si limitano a prevedere la libera facoltà delle parti di avviare la trattativa rinegoziativa, senza obbligarle neppure ad iniziarla. Si tratta di clausole la cui rilevanza giuridica deve essere negata[17], se non altro in base all’osservazione che la loro predisposizione appare superflua ai fini di una eventuale ridefinizione dell’assetto contrattuale. La possibilità di negoziare nuovamente il contenuto contrattuale rientra ex se nell’autonomia delle parti, rendendo inutile un patto che facoltizzi un comportamento che già la legge riconosce implicitamente come facoltativo.
Nel secondo tipo la rinegoziazione è prevista non come facoltà, ma come obbligo che nel suo contenuto minimo contempli, quantomeno, il dovere di ricevere e di pronunziarsi su proposte e, al più, regole che presiedano all’avviamento della vicenda rinegoziativa.
La terza tipologia di clausole prevede non solo una coercizione circa l’avviamento della trattativa, ma anche dei criteri tramite i quali condurla. Quanto ai criteri, deve trattarsi di parametri in base ai quali regolamentare la condotta delle parti nella fase della revisione degli originari termini del contratto, e non di canoni dettagliati che consentano un adeguamento automatico dei valori delle prestazioni alle sopravvenienze verificatesi.
Affinché l’attività delle parti rimanga nell’alveo della rinegoziazione è infatti necessario un apporto volitivo rivolto alla rideterminazione dell’equilibrio contrattuale, e non una semplice attività ricognitiva e applicativa di criteri automatici la cui operatività non abbisogna di alcuna manifestazione di volontà[18].
Le clausole, quindi, possono incidere diversamente sul contenuto del vincolo contrattuale preesistente, e diversa può essere la loro struttura.
L’analisi dei profili strutturali di questi modelli convenzionali risente della varietà di forme nelle quali la concertazione delle parti per l’adattamento delle condizioni contrattuali può manifestarsi[19].
La prassi negoziale dimostra che le parti scelgono di controllare i rischi connessi alle sopravvenienze in modo più o meno generico, a seconda della qualità degli interessi in gioco e degli ambienti economici dalle quali le parti stesse provengono.
Spesso i contraenti, spinti dall’esigenza di controllare in modo assoluto il rischio contrattuale[20], preferiscono elaborare una clausola dal contenuto estremamente generico.
La definizione generica della clausola porta con sé il rischio di implicare un’attività eccessivamente dispendiosa al momento della individuazione in concreto delle sopravvenienze in presenza delle quali è stato previsto l’obbligo di rinegoziare e delle conseguenze generate dall’operatività della clausola[21]. Infatti l’imprecisione del contenuto della clausola consente a ciascuna delle parti di effettuare una valutazione soggettiva in sede di verifica della corrispondenza tra situazioni previste al momento della redazione e situazioni effettivamente verificatesi: tale inconveniente presta il fianco ad effetti controproducenti rispetto al fine ultimo della rinegoziazione, che rimane la conservazione del rapporto negoziale[22].
È per questo che i contraenti sono sempre più indotti a cercare soluzioni maggiormente particolareggiate, che consentano una individuazione più netta degli eventi che possono dar luogo alla procedura rinegoziativa e degli effetti delle nuove determinazioni delle parti sul contenuto del contratto preesistente.
Come detto, poi, il contenuto della clausola può manifestarsi in diverse forme, quantitativamente e qualitativamente diverse tra di loro: si va dalla previsione delle circostanze modificative che possono verificarsi successivamente alla conclusione del contratto e che legittimino l’inizio della procedura rinegoziativa, alla elaborazione della disciplina applicabile al momento del concreto sopraggiungere delle circostanze stesse[23]. La disciplina stessa può assumere diverse connotazioni, a seconda che si precisi il mero obbligo di pervenire alla rinegoziazione del contratto oppure, più incisivamente, si irreggimenti in maniera specifica la trattativa[24].
Tuttavia, anche la scelta di modelli più specifici comporta degli inconvenienti: l’individuazione specifica delle sopravvenienze tali da consentire l’inizio della trattativa rende tassativa la “lista” delle circostanze considerate, di tal che il verificarsi di eventi non espressamente contemplati nella previsione delle parti non eviterà alla parte danneggiata il pregiudizievole obbligo di eseguire il contratto secondo le condizioni sopraggiunte[25].
La clausola, oltre alla previsione delle circostanze che “chiamano” le parti a rinegoziare, può contenere la previsione negoziale di parametri che indirizzano l’attività rinegoziativa, in modo tale da sottrarre alla sfera discrezionale delle parti anche le modalità della conduzione della trattativa[26].
Va chiarito, comunque, che la trattativa rinegoziativa altro non è che l’esecuzione di un obbligo contrattuale e come tale, deve essere condotta secondo il precetto generale della buona fede in executivis.
Occorre chiedersi, a questo punto, quali siano le conseguenze di un inadempimento degli obblighi contenuti nella clausola e quale dimensione assuma la mancata attuazione delle previsioni predisposte in via convenzionale dai contraenti.
In dottrina[27] sono state formulate diverse ipotesi, tutte degne di qualche pregio, ma non applicabili genericamente e senza distinzioni a tutti i tipi di clausole di rinegoziazione.
È stata formulata, ad esempio, la tesi dell’efficacia reale della clausola, coercibile giudizialmente nelle forme previste dall’art. 2932 c.c.. A tenore di tale orientamento il giudice potrebbe pronunziare l’adeguamento del contratto, allorché il fallimento della rinegoziazione apparisse contrario a buona fede[28]. Tale tesi non convince per la semplice ragione che le parti, con la stipula della clausola non si vincolano ad addivenire ad un accordo definito[29], ma semplicemente a condurre una trattativa che può sì, giungere ad un nuovo accordo, ma non necessariamente terminare in tal senso. È cioè da credere che le parti abbiano inteso, con la redazione della clausola, vincolarsi all’obbligo di rinegoziare, e non necessariamente all’obbligo di concludere.
Il discorso vale, naturalmente, per le clausole che prevedano il mero obbligo di iniziare la trattativa rinegoziativa. Diverso è il caso di quelle clausole che dettino criteri sufficientemente specifici e tali da consentire l’emissione di una sentenza costitutiva che esegua in forma specifica l’obbligo di contrarre. La parte interessata, in questo caso otterrebbe una sentenza riproduttiva degli stessi effetti che sarebbero derivati dalla corretta esecuzione della clausola da parte del contraente inadempiente[30].
Incerti sono anche i profili risarcitori: in caso di clausole che prevedono il mero obbligo di rinegoziare, il sottrarsi ingiustificamente alla trattativa rinegoziativa costituisce un inadempimento contrattuale a fronte del quale sono invocabili i criteri previsti dall’artt. 1223 e 1453 c.c.. Qualora invece la parte avvantaggiata dalle sopravvenienze, non si rifiuti di “rinegoziare” e ciononostante non si riesca a raggiungere un accordo in ordine ad un nuovo possibile equilibrio tra le prestazioni, l’obbligo ex contractu di rinegoziare sembra privo di risvolti risarcitori. Se è vero, infatti, che la coercizione giuridica consistente nell’obbligo di ricevere e valutare le proposte rinegoziative costituisce un obbligo giuridicamente rilevante, la stessa affermazione non vale per la conclusione dell’accordo, che è una conseguenza possibile, ma non necessaria, della trattativa rinegoziativa.
La prospettiva del risarcimento del danno si fa più concreta nel caso di predisposizione di clausole che dettino parametri sufficientemente specifici: in tale ipotesi non solo sarà maggiormente definita la valutazione circa l’an del risarcimento, ma anche quella relativa alla fissazione del quantum.
Risulta chiaro che l’elaborazione di patti preventivi più particolareggiati “imbriglia” maggiormente i contraenti, togliendo spazio alla discrezionalità dell’interprete nella valutazione della sussistenza di eventuali inadempimenti con connesse conseguenze risarcitorie.
Sarà infatti più difficile per le parti sottrarsi ad obblighi sufficientemente specificati senza cadere nella violazione del principio di buona fede in executivis[31], mentre al contrario, la predisposizione di clausole più elastiche renderà più labili anche i confini della valutazione del contegno delle parti, rendendo al contempo meno agevole la prospettazione di eventuali inadempimenti e di conseguenza, quella di eventuali profili risarcitori[32].
2) Rimedi alla sopravvenienze: risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta nel contratto di mutuo
è di recente venuta maturando in dottrina[33] l’inclinazione a sottrarre la gestione del rischio contrattuale alla disciplina generale delle sopravvenienze per inquadrarla nell’ambito del fenomeno dell’integrazione del contratto. Si tratta di una teoria volta ad enucleare un obbligo legale di rinegoziare durante l’esecuzione di contratti a prestazioni corrispettive nei quali assume rilievo, in diversa forma, l’elemento tempo[34]. Quanto detto è suscitato dal carattere inadeguato della risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta che, per un verso, conduce alla caducazione degli effetti contrattuali (art. 1467, 1° comma, c.c.) per l’altro, attribuisce alla sola parte non onerata, convenuta in giudizio con l’azione di risoluzione, di ridurre equamente le condizioni contrattuali (art. 467, 3° comma, c.c.).
In contratti destinati, per propria struttura, a realizzare operazioni di lunga durata e difficilmente reversibili, esigenze di ragionevolezza e di efficienza economica suggeriscono l’adozione, in luogo dello strumento ablativo, di un mezzo manutentivo, volto cioè alla conservazione degli effetti contrattuali[35].
Tale sarebbe l’obbligo rinegoziativo di fonte legale, capace di schiudere la via ad una forma di revisione giudiziale del contratto: quale conseguenza dell’inadempimento a tale obbligo si privilegia l’ipotesi di applicare l’art. 2932 c.c. e, cioè, il potere di ottenere dal giudice una sentenza costitutivo – determinativa. Di tale potere si gioverebbe così anche la parte onerata dalla sopravvenienza.
In materia di sopravvenienze (artt. 1467 ss.) la dottrina[36] si chiede in che modo un obbligo ex lege di rinegoziazione dei contratti di lungo periodo possa convivere con la normativa generale del codice civile.
La dottrina[37] infatti ritiene che la rinegoziazione, non derivante da clausole ad hoc operanti durante l’esecuzione del contratto, “diventa un effetto legale della fattispecie, un obbligo nascente direttamente dalla legge, nell’ipotesi prevista dall’art. 1467, co. 3. Il diritto di evitare la risoluzione, che si manifesta nella proposizione dell’offerta, tradizionalmente intesa come manifestazione del diritto potestativo, perderebbe gran parte della sua efficacia se non venisse individuato anche un corrispondente obbligo a carico della controparte”.
L’offerta alla parte avvantaggiata fa sorgere “l’obbligo della parte onerata di trattare in buona fede le condizioni della modificazione. Senza l’individuazione di quest’obbligo, il diritto ad evitare la risoluzione appare come mutilato, potendo risultare in concreto inattuabile, se si tiene conto dell’assetto degli interessi dei contraenti nei contratti di durata ed in particolare nei rapporti a lungo termine. L’individuazione delle caratteristiche dell’obbligo è senz’altro rilevante, posto che solo in questo modo idoneo a realizzare gli interessi dei contraenti, secondo le circostanze del caso concreto”[38].
Da ciò si può concludere che l’obbligo di rinegoziazione trova la sua fonte “nella legge, mentre il rapporto contrattuale ne costituisce il necessario filtro, posto che è la configurazione negoziale come contratto a lungo termine a giustificare l’applicazione della norma in tal senso. In una ricostruzione sistematica di questo tipo, non pare fuori luogo il riferimento alla regola espressa dall’art. 1375, che conferma la legittimità dell’individuazione dell’obbligo di rinegoziare quale strumento giuridico per l’adeguamento del contratto anche quando non sia previsto espressamente dai contraenti”.[39]
Perciò, l’obbligo di rinegoziazione sorgerebbe dalla lettura combinata degli articoli 1467 e 1375 c.c. e l’obbligo di trattare che si desumerebbe da questo.
Quanto detto, viene contraddetto da quella parte della dottrina[40] che ritiene che una lettura congiunta degli artt. 1467 e 1375 c.c. porterebbe ad una doppia forzatura del sistema normativo di gestione delle sopravvenienze.
Questo perché l’art. 1467 c.c. ammette un generale dovere di rinegoziazione che significherebbe sottovalutare la ratio della distribuzione tra i contraenti, del potere di risolvere il contratto e del potere di conservarlo mediante riconduzione ad equità.
Inoltre sopravvaluterebbe l’efficacia che la combinazione di tali poteri produce ovvero quella di spingere i contraenti a trattare in via stragiudiziale la soluzione delle sopravvenienze[41].
Dall’altra parte andando ad analizzare l’art. 1375 c.c., ci si accorge che è volto a risolvere problemi di congruità della prestazione rispetto all’interesse di chi lo deve ricevere e perciò volto a svolgere una funzione diversa rispetto a quella dell’art. 1467 c.c. (problemi di congruità dello scambio)[42].
Queste problematiche possono essere superate “proprio alla luce della più volte richiamata ratio dell’art. 1467 c.c. e della preferenza accordata dal nostro ordinamento alla conservazione del contratto rispetto alla sua caducazione”[43].
Perciò l’art. 1467 c.c. rivela il risultato che vuole ottenere e incidentalmente le modalità e gli strumenti da utilizzare[44].
In assenza di clausole di adeguamento del prezzo o di rinegoziazione, si darebbe così risposta al problema del rischio contrattuale, neutralizzandone gli effetti nell’ottica di un principio di conservazione ricavato dalle fonti di integrazione del contratto[45].
La soluzione è raggiunta attraverso due percorsi interpretativi, riconducibili, l’uno, al principio di equità integrativa (art. 1374 c.c.), l’altro, al canone della buona fede, venendo quest’ultimo in rilievo sia nell’esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.) che in sede interpretativa (1366 c.c.).
La materia delle sopravvenienze, dominata in via generale dagli istituti della risoluzione e della riduzione ad equità, si accrescerebbe dunque, in tale prospettiva, dell’applicazione, tramite l’art. 1374 c.c., di strumenti equitativi ulteriori. Sia che si tratti del sopravvenire di nuove esigenze e criteri di opportunità o di un sostanziale sacrificio economico tale comunque da non integrare i presupposti della risoluzione per eccessiva onerosità o, ancora, di un problema di gestione del rapporto contrattuale, le parti sarebbero tenute a svolgere nuove trattative; onde rinegoziare i termini contrattuali ed adeguare il convenuto assetto di interessi al mutarsi dello stato di fatto[46]. Si tratterebbe di fatti distinti da quelli previsti dall’art. 1467 c.c. Anzi, l’obbligo legale rinegoziativo sarebbe dotato di un’efficacia impeditiva, tesa a scongiurare l’emergere di fatti rilevanti per la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta.
Alla tematica dell’equilibrio contrattuale appartengono le norme che danno rilevanza alle c.d. circostanze sopravvenute e cioè alle sopravvenienze[47].
In pressoché tutti i sistemi giuridici non passano inosservate le sopravvenienze, che sono tali da alterare l’equilibrio contrattuale.
Nel codice civile italiano si è soliti fare riferimento alla risoluzione per eccessiva onerosità (art. 1467 ss.).
Siffatti istituti, tuttavia, hanno riguardo alla salvaguardia dell’equilibrio contrattuale quale stabilito originariamente dai contraenti. Si ribadisce così il rispetto della clausola rebus sic stantibus quale tramandata dal diritto comune. Si ha cura di precisare che deve trattarsi di circostanze “straordinarie ed imprevedibili”[48].
Si tratta dunque di preservare il mantenimento dell’equilibrio contrattuale ma nei termini inizialmente convenuti dalle parti. Il che spiega la ragione per cui, in tema di offerta di riduzione ad equità della prestazione, si tende solo ad eliminare riduttivamente la “eccessività” della sproporzione così da ricondurre il rapporto sinallagmatico entro l’alea normale[49] e non anche ad instaurare un vero e serio equilibrio tra entrambe le rispettive prestazioni[50].
Diversa soluzione sembra seguita invece per l’offerta ad equità nel contratto rescindibile (art. 1450).
I principi di diritto contrattuale europeo vanno ben oltre. Nel caso di “mutamento di circostanze”, ove le parti non raggiungano un accordo per adeguare il contratto, il giudice può modificare il contratto in modo da distribuire tra le parti in maniera giusta ed equa le perdite e i vantaggi derivanti dal mutamento di circostanze (art. 6.111). Si tratta veramente di garantire un equilibrio contrattuale tale da sostituire quello eventualmente manchevole dettato dalle parti.
Quasi paradossalmente si può dire che, in occasione del “mutamento di circostanze”, il contratto, in termini di equilibrio, venga ridefinito, se non altro sul piano di una equa distribuzione tra i vantaggi e le perdite[51].
3) Criteri distintivi tra rinegoziazione, sostituzione e portabilità del contratto di mutuo
Il Decreto Legge n. 7 del 31 gennaio 2007 convertito in Legge 2 aprile 2007 n. 40, meglio noto come “decreto Bersani bis”, ha esteso il concetto di portabilità anche ai mutui, ai contratti di apertura di credito e ad altri finanziamenti concessi da banche, istituti finanziari o enti previdenziali ed altri intermediari bancari e finanziari (art. 8 Legge 2 aprile 2007 n. 40)[52].
L’espressione atecnica di portabilità esprime il concetto secondo il quale chi ha contratto un mutuo con una banca può trasferire il suo debito ad un’altra banca, presumibilmente perché gli concede condizioni migliori.
Più correttamente si dovrebbe parlare di portabilità dell’ipoteca, come conseguenza della sostituzione di un rapporto di mutuo, nel senso che, in caso di stipula di un nuovo contratto di finanziamento, l’operazione porta con sè la precedente ipoteca.
In termini giuridici la portabilità si realizza attraverso l’istituto della surrogazione di cui all’art. 1202 del Codice Civile (surrogazione per volontà del debitore) che disciplina appunto il subentro della nuova banca nella garanzia ipotecaria già iscritta a favore dell’originario creditore[53].
L’art. 1202 c.c., inoltre, sempre ai fini della efficacia della surrogazione, prevede che sia il contratto di mutuo fra il solvens e il debitore che la quietanza dell’accipiens risultino da atto avente data certa.
Ai fini della corretta individuazione della ratio sottesa alla predetta locuzione, non può non tenersi conto che l’espressione “…senza formalità…” comunque connessa alla espressa previsione della presentazione di una specifica richiesta di annotamento di surrogazione[54], corredata dall’allegazione del relativo titolo lascia trasparire l’intento del Legislatore, nell’ottica generale di semplificazione e alleggerimento degli adempimenti posti a carico del consumatore-contribuente, di introdurre una nuova ipotesi di formalità eseguibile d’ufficio, analogamente a quanto avviene per l’iscrizione dell’ipoteca legale dell’alienante e del condividente (art. 2834 c.c.), per la trascrizione del fondo patrimoniale costituito per testamento (art. 2647 c.c.) ovvero nell’ambito delle formalità accessorie per le annotazioni previste dall’articolo 113-ter disp. att. c.c.
In tal senso, quindi, si ritiene che la locuzione “senza formalità” sia stata utilizzata in senso “atecnico”, posto che l’annotazione costituisce essa stessa – stricto iure – una formalità, eseguita dal conservatore sulla base della presentazione di una nota (rectius: domanda) e di un titolo idoneo. In considerazione del fatto che la disposizione in esame richiede espressamente l’allegazione della copia autentica del titolo, l’espressione “senza formalità” non può che riferirsi alla nota, che, pertanto, dovrà essere predisposta “d’ufficio” dal conservatore.
Per quanto riguarda invece l’allegazione (rectius: presentazione) del titolo, l’articolo 8 del d.l. 7/2007 non evidenzia contenuti innovativi rispetto alla disciplina del codice; in relazione ai requisiti formali del titolo devono, quindi, ritenersi applicabili le disposizioni contenute negli articoli 2835 e 2836 del codice civile[55].
La formulazione dell’articolo 8 citato ricalca, sostanzialmente, quella dell’articolo 2821 c.c., il quale prevede che la concessione dell’ipoteca possa farsi per “…atto pubblico o scrittura privata…”; ove peraltro se il titolo per l’iscrizione – e per l’annotazione, in base al disposto del terzo comma dell’articolo 2843 c.c. – risulti da una scrittura privata, la sottoscrizione deve essere autenticata o accertata giudizialmente, ai sensi del richiamato articolo 2835 c.c.
Sotto altro profilo, peraltro, si richiama l’attenzione degli uffici sull’esigenza di curare la tempestiva esecuzione delle formalità in esame, atteso il valore costitutivo che l’art. 2843 c.c., secondo comma, attribuisce all’annotazione del trasferimento dell’ipoteca, che in tal senso configura un elemento integrativo indispensabile della fattispecie del trasferimento medesimo.
In relazione ai dubbi concernenti il trattamento fiscale, si osserva innanzitutto che il comma 4 dell’articolo 8 prevede che la surrogazione per volontà del debitore di cui al medesimo articolo non comporta il venir meno dei benefici fiscali eventualmente riconosciuti in sede di iscrizione dell’ipoteca a garanzia del credito surrogato.
L’istituto della surrogazione per volontà del debitore già esisteva nel Codice Civile prima dell’intervento del decreto Bersani bis[56]; la novità del provvedimento normativo sta nel fatto che ora non è più legittimo che la Banca precluda al debitore l’esercizio di questa facoltà, impedendo o rendendo oneroso l’esercizio della surrogazione, infatti “è nullo ogni patto, anche posteriore alla stipulazione del contratto, con il quale si impedisca o si renda oneroso per il debitore l’esercizio della facoltà di surrogazione”[57].
Altra particolarità del provvedimento è l’espressa previsione secondo la quale “la surrogazione per volontà del debitore non comporta il venir meno dei benefici fiscali previsti per l’acquisto della prima casa”, disposizione questa di grande impatto politico, ma che non fa altro che ribadire quanto già prevedevano alcune circolari del Ministero delle Finanze emanate durante la vigenza di precedenti governi[58] o lo stesso art. 15 Comma 1 lett. b del TUIR, in tema di rinegoziazione di mutui.
L’atto di surrogazione deve essere stipulato per atto pubblico o per scrittura privata autenticata; la surrogazione deve poi essere annotata nei registri immobiliari a cura del conservatore, senza formalità, ma occorre allegare copia autentica dell’atto di surrogazione (art. 2843 del c.c.)[59].
L’espressione “senza formalità” utilizzata dal legislatore in senso atecnico, sta a significare che verrà eseguita d’ufficio dal conservatore, senza che il contraente-consumatore debba farsi carico di presentare (compilare) una nota (domanda di annotazione), ma semplicemente sulla scorta del titolo[60].
Per effetto della surrogazione per volontà del debitore dunque la nuova banca subentra nella garanzia ipotecaria già iscritta dal creditore originario e ciò dovrà risultare nei Registri Immobiliari da un’annotazione a margine dell’ipoteca stessa.
La sostituzione del mutuo attraverso la surrogazione del nuovo creditore nella garanzia ipotecaria già iscritta può verosimilmente comportare un risparmio di costi, nella misura in cui, per accendere un rapporto contrattuale con una nuova banca e per sostituire il mutuo, non è necessario cancellare la vecchia ipoteca ed iscriverne una nuova.
Sostituzione e rinegoziazione del mutuo vengono spesso confuse tra loro. La differenza invece non è trascurabile, soprattutto per la diversa flessibilità, ma anche per i consistenti risvolti economici collegati.
Chiariamo subito che per “sostituzione” si intende l’estinzione del vecchio debito mediante l’erogazione di un nuovo finanziamento: si chiude un contratto e se ne stipula un altro.
Perciò i contraenti possono restare gli stessi o anche mutare, l’importo può aumentare e perfino il finanziatore può cambiare, essendo consentito ricorrere ad una banca diversa[61].
Con “rinegoziazione” del mutuo invece ci si riferisce solo alla modifica di alcune clausole contrattuali, per esempio la durata residuale del rimborso o il tipo di tasso applicato.
Questo vuol dire che la rinegoziazione può avvenire esclusivamente tra gli stessi contraenti, cioè che banca e mutuatari non possono cambiare. In effetti si tratta semplicemente della modifica alle condizioni di un contratto che continuerà a sussistere[62].
Le due soluzioni differiscono soprattutto in flessibilità, ma anche in termini di costo. L’operazione può infatti essere condotta con un semplice scambio di corrispondenza tra banca e cliente, e non richiede la presenza del notaio.
Che il tutto debba avvenire senza costi e atti notarili è perfino garantito dalla Legge 244 del 24 dicembre 2007 (Manovra Finanziaria 2008) secondo cui “resta salva la possibilità del creditore originario e del debitore di pattuire la variazione, senza spese, delle condizioni del contratto di mutuo in essere, mediante scrittura privata anche non autenticata.” [63]
Da un punto di vista fiscale i benefici preesistenti verranno tutti mantenuti.
Va soltanto precisato che la modifica delle condizioni contrattuali non può essere imposta a nessuna delle parti.
Pertanto la rinegoziazione risulta possibile solo quando banca e debitore sono concordi sulle variazioni da apportare.
In questi termini vi sarà un concreto risparmio anche in termini di costi notarili, se al notaio non verrà richiesto di iscrivere una nuova ipoteca, ma semplicemente di stipulare un nuovo mutuo ed annotare la surrogazione[64].
Evidentemente il notaio avrà il compito di accertare e garantire alla nuova banca la validità dell’ipoteca già iscritta; in questi termini il ricorso al ministero del notaio che originariamente aveva stipulato il primo mutuo, comporterà minor lavoro e conseguentemente minori spese.
Se il contratto originario prevedeva la corresponsione di una penale di estinzione anticipata, questa andrà comunque riconosciuta al vecchio creditore, a compensazione della perdita dell’operazione, ma potrà essere ridotta sussistendo le condizioni previste sempre dal decreto Bersani bis[65].
4) Modifica della durata del residuo rimborso, rapporti con l’estinzione anticipata del mutuo
Solitamente è possibile per il debitore estinguere il mutuo prima della scadenza contrattuale dello stesso. Il contratto infatti prevede sempre una o più clausole inerenti l’estinzione anticipata; se così non fosse, si aprirebbero contese dannose per entrambe le parti al momento della richiesta da parte del cliente di poter saldare immediatamente il debito.
Le motivazioni che spingono i clienti a richiedere l’estinzione anticipata del mutuo possono essere diverse, ma tutte inerenti la sfera personale del cliente[66].
Di certo, se il cliente decide di estinguere il debito anticipatamente, vuol dire che ha la possibilità e la volontà di farlo. Non dobbiamo infatti dimenticare che nel caso abbia accumulato una liquidità tale da potersi permettere il lusso di una simile operazione, deve vagliare sempre la possibilità di investire questa liquidità in attività finanziarie che gli facciano ottenere un rendimento adeguato; si può allora confrontare tale rendimento con l’ammontare delle rate da pagare e decidere se è il caso di estinguere il mutuo oppure mantenere l’investimento del patrimonio e pagare con le rendite parte delle rate del mutuo[67].
Esistono due tipi di estinzione anticipata: totale e parziale.
La prima delle due è difficile da verificarsi nella realtà, per due motivi: il primo è che non capita tutti i giorni di avere tanta liquidità da spendere per estinguere un mutuo tutto insieme; il secondo è che se oramai il capitale da restituire è esiguo non conviene estinguerlo a causa delle penali di estinzione[68].
L’estinzione comporta la diminuzione del debito residuo e il ricalcolo del piano di ammortamento; per le sue caratteristiche è di maggiore attuabilità rispetto a quella totale.
L’estinzione anticipata del mutuo avviene secondo i tempi e i modi stabiliti dalle clausole contrattuali. Il rimborso può avvenire in un’unica soluzione, comprensiva di capitale, interessi e penale di estinzione anticipata oppure, in più volte su un arco di tempo abbastanza ristretto, per dare agio ai clienti di smobilizzare i cespiti patrimoniali che permettono loro di ripianare immediatamente il debito. Dopo il pagamento di quanto dovuto la cancellazione dell’iscrizione ipotecaria pone la parola fine all’intera operazione: la banca non potrà pretendere più nulla dal cliente, quest’ultimo non dovrà più nulla alla banca[69].
L’articolo 8 del “decreto Bersani-bis” che definisce in modo preciso la “portabilità” del mutuo, è teso a favorire in modo notevole la concorrenza fra banche attraverso la semplificazione delle regole dettate per l’istituto della surrogazione del debitore. In pratica il debitore può cambiare la banca creditrice in qualsiasi momento di vita del mutuo, estinguendo quello vecchio attraverso la stipula di un nuovo contratto e la concessione di uno nuovo con un’altra banca, senza dover pagare penali alla banca con cui aveva contratto il primo mutuo e senza che questa possa opporsi in alcun modo. Si prevede inoltre che attraverso la surrogazione il creditore surrogato subentri nelle garanzie personale e reali del primo creditore; l’annotazione dell’operazione di surrogazione da parte del conservatore viene fatta senza formalità, attraverso la sola presentazione della copia autentica dell’atto di surrogazione.
Con la norma in oggetto l’intento del legislatore è quello di favorire la concorrenza, come già detto, e, indirettamente, le rinegoziazioni con le stesse banche; attraverso queste infatti, i clienti infatti spunterebbero condizioni sicuramente migliori di quelle già in essere[70].
Il decreto Bersani-bis è tuttavia l’ultimo in ordine di tempo dei provvedimenti che sono stati presi dal legislatore in ordine all’estinzione anticipata; già nel 2000 era stato emanato un altro provvedimento per mettere ordine nell’allora congerie di formule applicate all’estinzione anticipata. Fino a quell’anno infatti era normale che le banche applicassero delle formule spesso complicate ed incomprensibili al comune mortale che si recava in banca a chiedere un mutuo, e che spesso fossero talmente onerose per il cliente da rendere praticamente impossibile perché non conveniente, l’estinzione anticipata.
Nel 2000 una legge impose alle banche di inserire in modo chiaro e trasparente le formule applicate nel calcolo delle penali di estinzione e di percepire un solo contributo per l’estinzione anticipata, al posto dei numerosi tassi e penali che spesso erano presenti nei contratti; da allora il caos che regnava circa queste penali si era quantomeno attenuato e le banche praticavano condizioni di trasparenza e univocità nei contratti stipulati.
In generale possiamo dire che queste percentuali[71] sono nell’ordine dell’1-1,5%, ma a volte arrivano addirittura al 3%.
La politica delle banche riguardante le penali di estinzione anticipata risultava dunque di tre tipi:
1) La banca non faceva pagare la penale di estinzione; questo accade per la verità in un esiguo numero di banche, ma la convenienza per il cliente era di tutta evidenza;
2) La penale di estinzione era una percentuale fissa in rapporto all’ammontare del debito residuo; si trattava della modalità di estinzione anticipata più frequente nella realtà;
3) La penale di estinzione era rapportata alla durata residua del mutuo: più lontana nel tempo era la scadenza, più alta era la penale di estinzione anticipata. La banca in questo caso poneva in essere una precisa strategia di marketing: rendere più conveniente l’estinzione in prossimità della scadenza.
Di fatto la penale di estinzione anticipata era una delle variabili su cui la banca poteva agire maggiormente indisturbata viste la scarsa propensione del cliente ad interessarsi dell’argomento.
L’estinzione anticipata non era e non sarà sempre conveniente per il cliente, anche in un prossimo futuro in cui le penali saranno ridotte ad equità. Anche se questi avesse una liquidità tale da estinguere il mutuo immediatamente, dovrebbe prima guardare al numero di anni mancanti alla scadenza naturale. Di solito l’estinzione anticipata conviene quando si è a circa metà della durata del mutuo, non troppo presto per evitare i costi troppo elevati, né troppo tardi per evitare che convenga finire di estinguere il mutuo seguendo le regole date dal contratto[72].
5) Modifica del tasso di interessi
Ultimo aspetto importante è il mantenimento dei benefici fiscali eventualmente previsti per il mutuo (ad esempio detrazione interessi passivi) e l’eliminazione dell’obbligo di versare l’imposta sostitutiva.
La privazione degli interessi attivi da imputare a bilancio è il punto centrale del disfavor delle banche nei confronti dell’estinzione anticipata. Un mutuo ha dei costi iniziali, legati agli elementi di cui si discuteva prima, essenzialmente quelli dovuti alla ricerca del cliente e all’attività di persuasione di accendere un mutuo presso la banca. Durante lo svolgimento del contratto però, i costi per la banca sono pressoché inesistenti, qualora il cliente onori costantemente il proprio debito; anzi, per la banca il cliente altro non è che una fonte di ricavi costante nel tempo. La decisione di restituire in un’unica soluzione il capitale rimborsato priva la banca degli interessi periodici ad essa dovuti per contratto; essa quindi si trova a dover applicare delle penali di estinzione che fanno le veci degli interessi che non saranno più corrisposti. Saranno comunque dovuti gli interessi sul capitale residuo.
In sostanza, il mutuatario che vorrà cambiare mutuo non dovrà sostenere alcun costo, se non quello per l’istruttoria e per l’eventuale perizia richiesta dalla nuova banca. Un aspetto, però, deve ancora essere completamente chiarito: la necessità dell’intervento del notaio per l’atto di surrogazione. La legge 40/07 prevede la possibilità di scrittura privata, per cui sarebbe possibile la semplice autentica presso il Comune dell’atto, ma non vi è ancora certezza che ciò sia sufficiente.
Tutti i contratti di mutuo, sottoscritti fino al 2 febbraio 2007, prevedono l’obbligo per il mutuatario di pagare un compenso alla banca mutuataria nel caso decidesse di estinguere anticipatamente il finanziamento.
Le penali, nel tempo, sono state fissate per importi molto differenti; per un ordine di grandezza, in alcuni periodi sono arrivate anche al 30% del capitale (cd. penale finanziaria), e generalmente sono state comprese tra il 5% della fine del secolo e l’1-3 per cento del periodo precedente al decreto Bersani.
Rinviando le valutazioni politiche sulla “rivoluzione” introdotta con la “lenzuolata Bersani” alle conclusioni, le modifiche introdotte con il decreto 7/07 hanno previsto che per tutti mutui “prima casa” le penali fossero azzerate se accesi dal 2 febbraio 2007, mentre per i mutui accesi in precedenza le penali devono essere ricondotte ad “equità”; per ottenere tale risultato il decreto e la successiva legge rinviano ad un accordo tra Associazione Bancaria Italiana e Associazioni dei Consumatori riconosciute ai sensi del Codice del Consumo. In caso di mancato accordo la decisione sulle nuove penali sarebbe affidata alla Banca d’Italia.
La legge di conversione ha ampliato la portata della norma allargando l’abolizione delle penali anche ad altri mutui “per l’acquisto o per la ristrutturazione di unità immobiliari adibite ad abitazione ovvero allo svolgimento della propria attività economica o professionale da parte di persone fisiche”.
Con la legge 40/07 ABI e AA.CC. hanno quindi avuto compiti e responsabilità più importanti: ricercare la “equità” non solo per i consumatori, ma anche per altri mutuatari ed anche per mutuanti diversi dalle banche.
Il risultato da raggiungere era abbastanza complicato, in quanto è abbastanza difficile, se non impossibile, rendere oggettivo un termine come “equità”, particolarmente se è collegato a costi, effettivi o presunti, alla volontà delle AA.CC. di ottenere il maggior risultato possibile per i consumatori e, infine, ma non ultimo, la diversità delle penali rispetto alle diverse tipologie di mutuo e quindi la possibilità di avere una “equità” diversa secondo tipologia, durata, tasso di interesse dei mutui.
Tali oggettive difficoltà hanno prodotto una trattativa lunga, oltre due mesi, complicata da punti di partenza molto distanti tra ABI e AA.CC.; la prima che fissava le penali tra il 2,90% per i mutui a tasso fisso e lo 0,90% per quelli variabili, le seconde che, pur rinunciando all’azzeramento delle penali inizialmente richiesta, prevedevano al massimo un rimborso alle banche mutuanti dello 0,30%, calcolato sul capitale residuo.
Tralasciando le fasi interlocutorie della trattativa e le difficoltà anche tra associazioni, dei consumatori, sulla valenza politica dell’accordo ovvero del mancato accordo, il risultato può essere riassunto in: tutti i mutui accesi prima del 2 febbraio e del 3 aprile 2007 avranno una riduzione della penale allo 0,50% salvo i mutui a tasso fisso accesi (ed ancora in essere) dopo il 2001 per i quali la penale sarà dell’1,90% per la prima metà del finanziamento, dello 1,50% per la seconda metà con un ulteriore abbattimento al terz’ultimo anno di vita allo 0,20% e l’azzeramento totale delle penali negli ultimi due anni di vita del finanziamento. Inoltre, tutti i mutuatari dovranno comunque avere dall’accordo un beneficio, quantificato, secondo la tipologia di mutuo tra lo 0,15 e lo 0,25 per cento[73]. Infine, l’accordo ha valore retroattivo, rispettivamente 2 febbraio e 3 aprile 2007, per cui chi dovesse avere estinto in questo periodo avrà diritto al rimborso di quanto versato in più rispetto alla penale ridotta.
Il protocollo prevede che nel caso di penali/compensi/commissioni aggiuntive, in ogni caso collegate all’estinzione anticipata del mutuo siano comunque applicati gli stessi principi e riconosce la specificità della provincia autonoma di Bolzano.
Infine, è stato costituito un comitato che verificherà l’applicazione dell’accordo da parte delle singole e che tra un anno potrà valutare la revisione delle condizioni applicate.
Il protocollo, valido immediatamente, andrà a totale regime entro il 31 maggio 2007.
L’accordo riguarda circa 3,5 milioni di mutui per un importo complessivo superiore a 250 miliardi di euro, ha il merito di raggiungere alcuni importanti risultati.
I mutuatari, tutti i mutuatari, nessun escluso che decideranno di estinguere anticipatamente il mutuo hanno diritto ad una sostanziale riduzione della penale prevista nel contratto, dai primi conteggi, la riduzione non è inferiore al 40% e raggiunge il 100% di quella originaria. Non sempre si sono visti accordi che soddisfano l’intera platea dei potenziali destinatari.
Un secondo risultato è la capacità del movimento consumerista di comprendere l’importanza del compito affidatogli, che può definirsi “quasi” legislativo, infatti, l’accordo non ha bisogno di alcuna ratifica, né del Governo né della Banca d’Italia, ed è immediatamente applicabile. Capacità che ha trovato applicazione nella ricerca, pur con difficoltà e reciproci sacrifici, non solo rispetto all’ABI, ma tra e delle stesse associazioni, dell’accordo, fino all’ultimo momento utile.
Infine, strettamente connesso al precedente, l’ultimo risultato è la partecipazione attiva del movimento consumeristico al processo delle liberalizzazioni, tanto importante per il sistema Paese. Processo avviato, ma che deve fare importanti passi avanti, dal settore energetico, a quello dei servizi pubblici locali, fino all’introduzione dell’azione collettiva, unica vera e generale tutela per tutti i consumatori[74].
Gli obblighi di rinegoziazione
1) L’obbligo introdotto dall’art. 7 co 5-7 della L. 40/2007
Prima delle nuove norme la sostituzione di un mutuo poteva avvenire solo con l’estinzione del finanziamento e l’accensione di uno nuovo, con la necessità di sostenere costi anche rilevanti o con la richiesta di rinegoziazione del mutuo, che la banca mutuante, però, non aveva alcun obbligo di accettare, oppure per legge o per accordo[75]. Con la nuova normativa, il mutuatario potrà invece cambiare banca mutuante senza, sostanzialmente, dover sostenere costi e senza che la banca originaria possa opporsi (surrogazione)[76].
Tecnicamente, il consumatore può trasferire il suo mutuo ad una banca diversa rispetto a quella presso cui ha acceso il mutuo. Se la nuova banca accetta di concedere il mutuo subentrerà nei diritti (garanzie accessorie, personali e reali) alla precedente banca mutuante. La modifica (annotazione) deve essere comunicata al conservatore dei registri immobiliari con una semplice richiesta e con l’invio dell’atto di surrogazione che può avvenire sia per atto pubblico o scrittura privata. La banca che “perderà” il mutuo non potrà effettuare alcun atto impeditivi o prevedere contrattualmente il divieto della portabilità, norma nulla senza, peraltro, avere la conseguenza di produrre la nullità dell’intero contratto[77].
Estinguere un mutuo significa, è vero, per la banca ottenere una notevole liquidità, peraltro inaspettata, ma significa pure trovarsi nella necessità di investire questa liquidità ad un tasso almeno pari a quello a cui si prestava il capitale al cliente. Allo stesso tempo significa però vedersi privati di una parte degli interessi attivi che andavano a comporre i ricavi nel conto economico al momento della stesura del bilancio[78].
Per quanto riguarda il primo punto, cercare un impiego remunerativo per la liquidità resasi così disponibile comporta dei costi sia che la banca scelga di erogare un altro mutuo, sia che scelga di impiegarla in attività finanziarie che dovranno avere, fra l’altro, una configurazione rischio-rendimento adatto alle aspettative della banca e alla propensione al rischio del management bancario. Nel caso della scelta di impiegare le somme in nuovi mutui, i costi si tradurranno nella ricerca dei clienti, nell’analisi dei fidi bancari e, più in generale, in tutte le forme di assistenza al cliente che la banca pone in essere dall’inizio alla fine del rapporto contrattuale. Nel secondo caso il costo è rappresentato essenzialmente dalla ricerca di attività finanziarie considerate sufficientemente remunerative dal management bancario[79].
Da quanto detto emerge che la banca non gradisce affatto questo tipo di operazione; viste in quest’ottica le penali di estinzione, sempre presenti nei contratti fino al febbraio 2007, avevano pure la funzione di disincentivare i clienti ad estinguere anticipatamente il mutuo. Ad oggi non è più possibile per le banche pretendere alcuna penale per l’estinzione anticipata di un mutuo, in virtù dell’art. 7 del decreto-legge n. 7 del 31 gennaio 2007, il cosiddetto decreto Bersani-bis[80].
Già infatti il primo decreto Bersani, il d.l. 223/06, convertito nella legge 248/06, prevedeva che le banche non potessero pretendere nessuna “penalità” e “spesa di chiusura” dai clienti al momento dell’estinzione dei rapporti contrattuali.
Più precisamente, la legge prevedeva due fattispecie: la prima riguarda le modifiche unilaterali delle condizioni contrattuali; qualora tra banca e cliente fosse intercorso un rapporto contrattuale che fornisce la possibilità alla prima di modificare tali condizioni in modo unilaterale, si dava pure la possibilità al cliente di recedere senza spese in qualsiasi momento dal contratto medesimo.
La seconda fattispecie riguardava i contratti bancari di durata ed introduceva il diritto di recesso in ogni momento della vita del contratto “senza penalità e senza spese di chiusura”. Si trattava in questo caso di un principio generale valevole per tutti i contratti di durata[81].
L’interpretazione estensiva della norma portò immediatamente a credere che anche le penalità di estinzione anticipata dei mutui non avrebbero dovuto più esistere per i contratti stipulati dopo l’entrata in vigore del decreto Bersani[82].
Una circolare dell’ABI, datata 4 agosto 2006, interpretò la norma in modo restrittivo, affermando che dette penali non rientrano tra quelle previste dal decreto, dato che questo si applica sostanzialmente ai contratti bancari a tempo determinato e non a quelli a tempo indeterminato. In ultima analisi, l’ABI faceva una distinzione, invero molto sottile, tra contratti di durata a termine e contratti di durata a tempo indeterminato.
Nei primi il recesso è presente soltanto se è stabilito per legge o è espressamente pattuito; nei secondi è sempre presente. Ne discendeva che le penalità erano escluse nel primo caso, ma non nel secondo; ad esso si continuavano ad applicare le penalità e le sanzioni previste dalle norme contrattuali[83].
Interpretazione forse troppo restrittiva, visto che il decreto detta una norma valida per tutti i tipi di contratti bancari, asserendo che “in ogni caso, nei contratti di durata, il cliente ha sempre la facoltà di recedere dal contratto senza penalità e senza spese di chiusura”.
Sulla scorta dell’art. 125, co. II del TUB, che si applica alla disciplina del credito al consumo, la previsione legislativa di abolizione di qualsiasi tipo di penali o sanzioni non significa affatto che non siano dovute in ogni caso. L’articolo in esame infatti, dice che “la facoltà di adempiere in via anticipata o di recedere dal contratto senza penalità spetta unicamente al consumatore senza possibilità di patto contrario”[84]. Tuttavia il consumatore, nel caso di estinzione anticipata del debito, ha il diritto ad un’equa riduzione del debito secondo le modalità stabilite dal CICR.
Il CICR infatti ha stabilito che, in caso di estinzione anticipata del contratto di credito al consumo, sono dovuti, oltre al capitale residuo, gli interessi e gli oneri maturati fino a quel momento, un tasso, non superiore all’1%, da applicarsi sul debito residuo; si aggiunge però che non può essere applicato quest’ultimo tasso se non è previsto contrattualmente.
Applicando per analogia la norma ai contratti di mutuo, si otteneva che recesso ed estinzione anticipata fossero comunque sottoposti a spese di estinzione anticipata e a sanzioni, a nulla valendo il fatto che la legge stabilisca chiaramente che non sono dovute[85]. Sostanzialmente, siccome la norma sul credito al consumo pone un compenso per la banca in caso di estinzione anticipata, pur dicendo la norma che non è dovuta alcuna penale di estinzione, la penale di estinzione anticipata non rientrava, per analogia, tra le penali previste dal decreto Bersani.
Vista tale interpretazione, è stato emanata una norma più precisa che oramai non lascia adito ad interpretazioni che tendano ad escludere l’applicabilità della norma ai contratti di mutuo[86].
Se si vuole interpretare alla lettera la formulazione dell’art. 7 della Legge 40/2007, questa significa che anche l’estinzione parziale, vale a dire ogni rata rimborsata secondo il piano prestabilito, non origina penali di alcun genere; è un’interpretazione che, spinta alle estreme conseguenze, porterebbe a stabilire la non esigibilità degli interessi di mora per ritardato o mancato pagamento della rata[87].
La legge si applica soltanto ai contratti stipulati per l’acquisto della prima casa, a cui sono da ricollegare anche vari tipi di agevolazioni fiscali, lasciando inalterate le penali per altri tipi di mutuo. Siccome la maggior parte dei mutui contratti dalle famiglie è proprio da ricollegarsi all’acquisto della prima casa, la norma ha delle notevoli conseguenze sugli attori della vicenda[88].
I primi ad essere interessati dalla vicenda sono evidentemente i consumatori, alla cui tutela la norma è volta. È fatto divieto dal 2 febbraio 2007, data di entrata in vigore del decreto, di prevedere penali di estinzione anticipata per i mutui contratti; chiunque quindi si rechi in banca a sottoscrivere un mutuo oramai può stare tranquillo che le banche non potrà richiedergli una penale di estinzione anticipata.
Meno tranquille sono le banche, che si vedono eliminare ex lege non solo una fonte di guadagno notevole ma anche il deterrente per un’estinzione anticipata. Esse devono fare fronte al mancato guadagno o attraverso l’aumento dei costi praticati alla clientela o attraverso la diminuzione dei costi interni alla banca; mancando inoltre il deterrente per estinguere anticipatamente il mutuo, la banca dovrà gestire la tesoreria in modo da essere pronta all’ottenimento improvviso di una grande massa di liquidità da una parte e di programmato guadagno mancato dall’altra[89].
Per i mutui già in essere la norma prevede che, entro tre mesi dalla data di entrata in vigore del decreto, venga stipulato un accordo tra l’ABI e le associazioni dei consumatori maggiormente rappresentative a livello nazionale per la “riconduzione ad equità dei contratti di mutuo in essere, mediante, in particolare, la determinazione della misura massima dell’importo della penale dovuta per il caso di estinzione anticipata o parziale del mutuo.” (art. 7, co. 5)[90].
Dalla norma citata si deduce che le penali di estinzione anticipata non si estinguono automaticamente per l’entrata in vigore della legge, ma verranno ridotte secondo equità in base ad un accordo da prendersi tra associazioni dei consumatori ed ABI. Nel caso in cui l’accordo non venisse sottoscritto nel periodo di tempo previsto dalla legge, la normativa delega la Banca d’Italia alla riconduzione ad equità delle penali di estinzione anticipata, imponendo a tutti i contratti stipulati l’adeguamento al nuovo tasso[91].
2) La natura giuridica dell’obbligo di rinegoziazione
Occorre preliminarmente chiarire la nozione di equilibrio in materia contrattuale[92].
L’equilibrio può riferirsi tanto al profilo normativo del contratto, inteso come sintesi delle posizioni normative dei contraenti, come assetto contrattuale allocativo di diritti, obbligazioni, oneri, responsabilità e rischi[93], quanto al profilo economico, che invece riguarda più specificamente il valore economico delle prestazioni oggetto di scambio, considerate non in se stesse, ma nel complesso dell’operazione economica cui accedono[94].
Inoltre, l’equilibrio può essere riferito, oltre che agli elementi oggettivi del contratto (regole e prestazioni), anche alle persone dei contraenti. A tale stregua si è soliti distinguere un contraente “forte” e uno “debole”, alludendo alla disparità di forza contrattuale tra le parti[95].
La tematica dell’equilibrio contrattuale è strettamente collegata con il concetto di giustizia[96]. Infatti, l’istituto dell’equilibrio contrattuale, tanto soggettivo, quanto oggettivo, tende a preservare un assetto di rapporti equi fra le parti contrattuali e, quindi, in definitiva, giusto[97].
Pertanto, il quesito fondamentale che si pone in relazione al concetto di equilibrio contrattuale consiste nel chiedersi se quest’ultimo coincida o meno con la nozione di giustizia contrattuale[98].
L’espressione “giustizia contrattuale” è molto diffusa nella dottrina civilistica italiana[99], sintomo della sempre più crescente attenzione da questa rivolta al problema del contratto “giusto” (o equo)[100].
Sempre nell’ottica della valorizzazione della clausola generale di buona fede con finalità ripristinatorie dell’equilibrio contrattuale va considerato l’orientamento che dal principio in esame fa discendere l’obbligo di rinegoziare le condizioni contrattuali squilibrate da sopravvenienze nell’ambito dei contratti di durata[101].
Al riguardo è stato osservato che la necessità di adeguare il contratto rinegoziandone il contenuto, per il sopravvenire di circostanze pur prevedibili, determinanti uno squilibrio contrattuale, coincide con il postulare un principio di riequilibrio del sinallagma operante al di qua dei limiti tracciati dalla disciplina della eccessiva onerosità sopravvenuta[102].
Secondo la dottrina, il principio di buona fede può generare a carico delle parti, che pure non lo abbiano previsto, un obbligo di rinegoziare, per adeguare il loro rapporto alle sopravvenienze significative che si siano nel tempo manifestate; in queste ipotesi, trattandosi di obbligo non previsto contrattualmente, la buona fede opererebbe come fonte integratrice del regolamento contrattuale[103].
Altri ritiene che il fenomeno dell’adeguamento atterrebbe alla fase di attuazione del rapporto, in quanto i caratteri stessi dei contratti di durata (solidarietà tra i contraenti, rilevanza causale del tempo, flessibilità del contenuto) farebbero emergere un principio di adeguamento del rapporto nel corso della sua esecuzione[104].
Tuttavia, la buona fede esecutiva, secondo tale ricostruzione, non rileverebbe quale fonte integrativa, ma solo per la individuazione delle modalità dell’adempimento della obbligazione contrattuale di adeguamento[105].
Questo orientamento, in sostanza, costruisce l’obbligo di rinegoziare come obbligazione accessoria nascente dalla buona fede esecutiva, presupponendo, quindi, che nel contenuto del contratto già esista l’obbligo di adeguare il contratto nel tempo[106].
Tale obbligo può essere espressamente pattuito oppure può ritenersi implicitamente contenuto sulla base della valutazione del tipo, ai sensi dell’art. 1366 c.c. o dell’art. 1340 c.c.; di conseguenza, il problema dell’adeguamento diventa un problema interpretativo.
Impostato in questi termini, il problema della revisione resterebbe ancorato all’accertamento del contenuto contrattuale ed il riequilibrio del sinallagma conseguirebbe comunque, al di là dell’ambito applicativo della normativa sull’eccessiva onerosità, alla volontà delle parti[107].
Sempre nell’ottica di preservare l’equilibrio contrattuale in conseguenza di sopravvenienze prevedibili o, comunque, tali da non legittimare l’azionabilità del tradizionale rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, autorevole dottrina ha individuato proprio nel principio di buona fede il criterio in base al quale determinare il margine di sacrificio esigibile dal debitore[108].
Fondamentale in tale prospettiva è, secondo l’orientamento in esame, individuare gli interessi rilevanti nell’economia dell’affare[109], onde verificare la compatibilità con gli stessi delle sopravvenienze, alla stregua del canone della buona fede, inteso quale fonte di integrazione del regolamento negoziale[110].
Più precisamente, attraverso un giudizio di buona fede, condotto sulla base delle caratteristiche del tipo contrattuale prescelto e dei valori di mercato, il giudice potrà creare la regola giusta di ripartizione del rischio concretizzato dalla sopravvenienza[111].
L’ordinamento ha elaborato regole per la tutela e la composizione degli interessi. Queste regole non sempre si rivelano adeguate al “mercato” reale e alle trasformazioni, infatti l’autonomia privata si è trovata costretta ad adattare ed riformare le previsioni normative predisponendo regole concrete e, in alcuni casi, particolari in sostituzione di quelle generali ed astratte dettata dalla legge[112].
In tema di sopravvenienze contrattuali, questo fenomeno trova una efficace esemplificazione.
Infatti, esaminando le problematiche legate alla gestione del rischio contrattuale e all’incidenza dei cambiamenti del panorama giuridico, politico ed economico sul rapporto negoziale[113], si è cercato di trovare rimedi convenzionali aventi la finalità di superare le eventuali crisi contrattuali causate dal sopraggiungere di circostanze non attese dalle parti.
Nel rispetto dell’autonomia contrattuale, allora, la rinegoziazione si pone in questo ambito per garantire l’equilibrio e la realizzazione del rapporto negoziale[114].
Secondo la dottrina[115], ritenere vincolanti gli obblighi contrattuali la cui realizzazione non richieda l’esecuzione di attività illecite o la violazione di norme imperative[116], dovrebbe portare al giudizio di ammissibilità delle clausole di rinegoziazione.
Da ciò si evince che il controllo di meritevolezza verrebbe inglobato dalla eventualità di definire con libertà il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge (art. 1322, 1° comma, c.c.)[117].
Va ricordato, però, che il contratto a cui è chiamato l’interprete, come già da lungo tempo sostenuto dalla dottrina[118] e dalla giurisprudenza[119], non opera solo in senso negativo, ovvero di accertare che il contratto (o anche più semplicemente una sua clausola) non realizzi interessi illeciti e contrari all’ordinamento giuridico, ma anche in senso positivo, mirando a verificare che gli interessi perseguiti dalle parti siano “meritevoli di tutela”[120].
Questo implica l’individuazione dello specifico interesse perseguito dal contratto e la sua valenza giuridica[121].
L’equilibrio che le parti hanno inteso raggiungere in sede di conclusione del contratto richiede che il bilanciamento tra le utilità perseguite dai contraenti perduri fino al momento dell’esecuzione. Se ciò è sufficiente per i contratti qui unico momento perficiuntur, ossia i contratti ad esecuzione immediata, la situazione si complica per i contratti qui habent tractum successivum, il cui esempio più significativo è dato dai contratti di durata, ulteriormente suddivisi nelle due categorie dei contratti a prestazione continuata e quelli a prestazione periodica[122].
È chiaro, infatti, che se il momento dell’esecuzione del contratto coincide con quello della sua esecuzione, è sufficiente che l’equilibrio delle prestazioni sia presente in quel momento. Di contro, se l’esecuzione del contratto è differita, ovvero continuata, ovvero ancora periodica, il tractum successivum alla conclusione del contratto implica tendenzialmente la persistenza, durante la fase esecutiva, del medesimo equilibrio sussistente al momento della stipula.
Occorre a tal proposito chiedersi quali siano le conseguenze immediate della distorsione dell’equilibrio pattuito.
La prima ed ovvia considerazione è che i mutamenti sopravvenuti e inattesi dello status quo antea, in quanto modificano le condizioni e i vantaggi contrattuali, possono incentivare un contraente all’inadempienza[123], pur essendo lo scopo contrattuale ancora raggiungibile, sebbene a condizioni meno vantaggiose.
Come notato da uno studioso tedesco, Larenz, “l’irraggiungibilità dello scopo contrattuale conduce alla risoluzione del contratto; la rottura del rapporto di equivalenza tra le prestazioni apre invece la strada al rimedio revisorio finalizzato a ristabilire l’equilibrio turbato”.
Come precisato nell’apertura del paragrafo, bisogna far riferimento non tanto all’equilibrio in astratto tra le prestazioni, quanto, piuttosto, all’equilibrio tra le prestazioni fissato tra le parti nell’ambito dell’esplicazione della loro autonomia contrattuale.
La regola del pacta sunt servanda trova quindi un ragionevole limite proprio nelle sopravvenienze che incidono sull’assetto che le parti hanno concordato nella stesura del regolamento contrattuale.
La variazione delle condizioni sussistenti al momento della conclusione del contratto può essere tale da sollevare problemi di equità e di giustizia distributiva nella divisione dei vantaggi e degli oneri che le parti si erano prefissati. Per tale motivo, quando l’esecuzione del contratto risulta in concreto più difficile di quanto prevedibile in sede di conclusione del contratto, sorge un problema di allocazione del rischio[124]. Le tensioni create da tale eventualità sortiscono la ricerca di soluzioni con le quali fronteggiare e contenere il problema costituito da fatti dai quali derivi il “perturbamento” dell’equilibrio economico-giuridico fissato dalle parti nel contratto[125].
È in questo contesto che matura l’esigenza di trovare uno strumento idoneo a prevenire e superare i rischi connessi a quanto ciò innanzi prospettato.
Per completezza espositiva è opportuno sottolineare che la ricerca di modelli normativi e convenzionali attraverso i quali apportare una soluzione ai problemi derivanti dai mutamenti sopraggiunti in itinere oscilla tra due concezioni del vincolo contrattuale: l’una, tesa a far prevalere l’obbligatorietà dell’imposizione derivante dal “pacta sunt servanda”, di gran lunga prevalente nei paesi di common law (almeno fino al secolo scorso), l’altra, più aperta alle modificazioni contrattuali consentite dalla previsione della clausola “rebus sic stantibus”.
Il primo indirizzo tende a privilegiare la volontà delle parti così come cristallizzata nel regolamento contrattuale, arrivando, nelle sue accezioni più estreme, ad escludere che finanche la impossibilità della prestazione possa liberare le parti dal vincolo pattizio.
La seconda impostazione pone l’accento sulla teoria del mutamento delle circostanze, in ossequio ad un principio di giustizia equitativa e distributiva che meglio si attaglia alla concezione dell’obbligazione contrattuale propria degli ordinamenti di civil law, trovando un ampio riscontro nelle relative legislazioni.
Non si trascuri poi, che in determinati momenti storici[126], la possibilità di giungere ad un nuovo apprezzamento dell’equilibrio originariamente pattuito travalica i confini dell’accordo contrattuale in sé considerato e diventa una necessità connessa al più generale problema dell’equilibrio economico complessivo di un determinato contesto socio-economico.
In ultima analisi, lo scopo della rinegoziazione può esser fatto coincidere con una nuova calibrazione degli oneri e dei vantaggi derivanti da un contratto, in ragione di fatti che, a causa della loro indeterminatezza, non potevano costituire oggetto di pianificazione da parte dei contraenti al momento della conclusione dell’accordo.
La pratica contrattuale conosce tre distinte fonti della rinegoziazione: in una prima serie di ipotesi l’attività rinegoziativa rientra in una libera scelta delle parti; in un’altra serie di casi essa è prevista dalla legge; la terza ipotesi concerne lo strumento convenzionale della clausola rinegoziativa[127].
Circa la prima tipologia, può dirsi, come rilevato da autorevole dottrina[128], che la libera e concorde scelta delle parti esula dal campo specifico della rinegoziazione, essendo più correttamente riconducibile alla più generale area delle trattative, seppur in executivis.
Il fatto che le trattative si svolgano tra soggetti già legati da un vincolo contrattuale, pur rendendo peculiare la negoziazione, non modifica il regime generale delle regole comuni applicabili ad ogni trattativa.
Difatti, sono pur sempre i principi di correttezza e buona fede ad informare il corso dello svolgimento del rapporto contrattuale rivisitato dalla volontà dei contraenti.
Passando ad analizzare l’altra categoria, quella della rinegoziazione regolata dalla legge, ictu oculi si osserva che il campo d’azione occupato dal legislatore appare piuttosto ridotto. Bisogna in primo luogo notare che la volontà del legislatore si muove tra due poli opposti, insanabilmente confliggenti tra di loro: da un lato l’autonomia contrattuale delle parti, dall’altro la salvaguardia oggettiva degli interessi dedotti nel regolamento contrattuale.
Si vuol dire che l’incidenza delle norme sull’assetto che le parti hanno inteso dare all’accordo raggiunto trova il suo limite nell’autonomia contrattuale ed il suo naturale sbocco teleologico nella salvaguardia della tendenza ad un sostanziale equilibrio economico-giuridico del patto.
In tale ottica, se da un lato la legge, in ossequio al principio della libertà di contrattare, non può ingerire nei rapporti fino al punto di tutelare le parti contro tutte le possibili sopravvenienze che turbino l’equilibrio contrattuale, d’altro canto non può esimersi dal porre rimedio ai rischi di sopravvenienze che superino una certa soglia di “normalità”.
La normale alea del contratto costituisce infatti una ordinaria conseguenza dell’accordo, di tal che è fisiologico che le parti regolino con il contratto la distribuzione del rischio di mutamenti delle circostanze esterne. Il margine di intervento del legislatore è quindi circoscritto alla sola eventualità che sulle scelte delle parti incidano eventi eccezionali ed imprevedibili. È solo in tale momento che l’ago della bilancia sui cui piatti si misurano l’autonomia delle parti e l’interesse dei contraenti pende a favore di questi ultimi[129].
La terza ipotesi, quella della clausola di rinegoziazione, richiede una breve premessa di ordine generale sull’utilizzo di patti volti a scongiurare il rischio di modifica sopravvenuta ed imprevedibile dei rapporti tra vantaggi ed oneri previsti nel contratto.
La ricerca di moduli convenzionali preventivi tramite i quali porre rimedio ai predetti rischi, matura nel più generale contesto della ricerca di regole funzionali al riequilibrio economico-giuridico in caso di perturbamento dell’assetto contrattuale fissato dalle parti.
Come precedentemente esposto, tali regole generali possono essere dettate dalla legge, ma anche trovare la loro fonte nelle determinazioni pattizie dei contraenti. Chiaro è che medesimo è lo scopo dei rimedi ex lege e di quelli ex voluntate: ristabilire l’equilibrio che le parti hanno inteso conferire al regolamento di interessi predisposto in sede di conclusione del contratto.
Lo strumento convenzionale più significativo adottato dai contraenti per intervenire su un rapporto già perfetto è la c.d. clausola di rinegoziazione.
Esaurita la doverosa premessa, è da precisare che, invero, di difficile identificazione risultano gli elementi costitutivi della suddetta clausola, dal momento che variegato è il panorama offerto da questa tipologia di regole convenzionali; essa risente infatti della varietà della natura degli interessi in gioco e della qualità dei contraenti[130].
È pertanto difficile configurare una clausola rinegoziativa di tipo generale, essendo, di contro, più agevole soffermarsi sui “fenotipi”, più o meno ampi, in cui essa si manifesta.
Essa può essere definita come quel patto con il quale le parti predispongono dei criteri attraverso i quali giungere alla reductio ad aequitatem delle rispettive prestazioni in caso di sopravvenienza di circostanze che ne modifichino sensibilmente il valore originario, rectius una convenzione che riconduca ad equità i rapporti tra i valori originari delle prestazioni[131].
Quanto al fine della previsione della clausola, può dirsi che esso coincide con il riapprezzamento concordato della composizione di interessi originariamente programmata e alterata in modo sostanziale da circostanze modificative sottratte al controllo delle parti.
La clausola attribuisce quindi alle parti il potere di incidere, con lo strumento del consenso, sulle variazioni rilevanti che trasformano l’assetto degli intenti iniziali, sottraendo ad altri fattori la possibilità di governare il rapporto.
3) Confini dell’obbligo di rinegoziazione e coercibilità, profili problematici
La scelta dei contraenti in ordine alle conseguenze economico-giuridiche che essi intendono provocare con la stipula del contratto si articola in due diversi momenti: da un lato vi è lo scambio che si realizza con il reciproco adempimento, circostanza che rientra nella sfera di controllo delle parti; dall’altro vi è una situazione che sfugge al governo delle parti, ossia il rischio delle sopravvenienze, la cui “spartizione” è indicata in sede di definizione dei reciproci impegni.
Ebbene, nell’ordinamento italiano, il legislatore interviene in questa seconda articolazione solo quando sull’equivalenza soggettiva[132] delle prestazioni delle parti intervengano circostanze straordinarie. E’ chiaro che quando l’alea delle variazioni dei costi e valori rimane entro i limiti della normalità[133] essa si inserisce regolarmente in ogni operazione contrattuale ed è a carico di ciascuno dei contraenti[134].
Prima di passare in rassegna le disposizioni normative concernenti la rinegoziazione, occorre premettere che, in linea generale, sono due le ipotesi specifiche di sopravvenienze contemplate dal legislatore italiano del ‘42: quelle che rendono impossibile la prestazione e quelle che la rendono eccessivamente onerosa. È la disciplina della seconda categoria che investe il problema della reiterazione delle trattative di un vincolo contrattuale già esistente, ossia la questione dell’attività rinegoziativa.
Il merito della scelta legislativa effettuata dai compilatori del Codice è quello di aver codificato, accogliendo il principio del rebus sic stantibus, un rimedio innovativo ai pericoli connessi ai mutamenti imprevisti delle condizioni sussistenti al momento della stipula, con particolare riferimento ai contratti ad esecuzione continuata ovvero differita[135].
Sebbene il Codice civile non abbia disciplinato la fattispecie, esso regola i casi in cui la rinegoziazione può costituire il presupposto che precede di fatto il funzionamento di taluni istituti[136] che interessano in line di massima i c.d. contratti qui habent tractum successivum.
Se poi si osserva il problema dal punto di vista dell’analisi economica del diritto, non è difficile constatare lo si ricordava già in apertura, per un verso, l’insufficienza della prospettiva del consenso ipotetico (della volontà presunta, della condizione inespressa e così via), da sempre connessa alla questione delle sopravvenienze e intesa ad allocare del rischio sul contraente che appare maggiormente in grado di sostenerlo[137], per altro verso la complessità dell’indagine sugli incentivi derivanti dalla scelta in favore della revisione giudiziale del contratto, nel momento in cui si considerino i costi della rinegoziazione[138], adottando il punto di vista che tende al riconoscimento non soltanto della vincolatività dell’obbligo di rinegoziare ma anche della sua coercibilità in forma specifica, un modello di tutela quest’ultimo che pone, già in termini di principio, notevoli difficoltà al giurista di common law[139]. Fondamentalmente, chi attribuisce un qualche significato giuridico alla teoria nordamericana dei relational contracts tende a sostenere la legittimità dell’intervento giudiziale, in quanto finalizzato a dare attuazione concreta al programma contrattuale espressione di obblighi di cooperazione e solidarietà a carico dei contraenti[140]. La difficoltà di rinvenire, tuttavia, regole operative che possano dirsi realmente affidabili e di cui il giudice possa far uso nella sostituzione del mancato accordo delle parti induce più d’un esponente autorevole in materia di law & economics a contrastare vigorosamente l’ipotesi[141], peraltro mai esitata – se si osserva almeno la situazione in area statunitense ove s’è maggiormente sviluppato il dibattito – in una vera e propria tendenza della giurisprudenza, per parte sua poco propensa ad abbandonare il modello classico[142], incentrato sull’illusione ottica della gestione (meglio si direbbe, della gestibilità) ex ante del rischio da impracticability del contratto, attraverso la ricostruzione della volontà ipotetica delle parti[143].
Non a caso la norma cardine in tema di modificazione delle condizioni contrattuali originariamente pattuite sembra essere l’art. 1467 c.c., che disciplina i casi in cui, nei contratti ad esecuzione continuata o periodica, ovvero differita, sia intervenuta una circostanza che abbia influito sull’adempimento di una delle prestazioni, rendendola eccessivamente onerosa.
La disposizione conferisce alla parte avvantaggiata dal verificarsi di “eventi straordinari ed imprevedibili” la possibilità di evitare la risoluzione offrendo alla parte danneggiata un’equa modificazione delle condizioni del contratto. L’offerta di riduzione del contratto ad equità rientra in un autonomo potere di modifica unilaterale del contratto finalizzato al mantenimento in vita di quest’ultimo. Speculare all’offerta di reductio ad aequitatem è l’obbligo legale di non rifiutare, in virtù del principio di buona fede, la proposta di modificare le condizioni contrattuali, semprechè, naturalmente, l’offerta contribuisca ad eliminare lo squilibrio tra le prestazioni e si riporti il contratto ad un giusto rapporto di scambio[144].
Si ritiene che il fondamento della norma vada ravvisato nelle prescrizioni contenute negli artt. 1374 e 1375 c.c., che, rispettivamente, indicano l’ampiezza del contenuto del vincolo contrattuale e impongono che l’esecuzione del contratto avvenga nel rispetto del principio della buona fede[145].
Nella prima disposizione può infatti ritrovarsi l’incidenza della volontà del legislatore sul regolamento espresso dalle parti, il quale ultimo è suscettibile di essere integrato da tutte le conseguenze che derivano dalla legge, comprese quelle connesse al mutamento dei valori delle prestazioni.
Il principio di cui all’art. 1375, poi, è il fulcro attorno al quale ruotano tutte le considerazioni in ordine all’adeguamento delle scelte dei contraenti ai possibili mutamenti delle condizioni contrattuali. È proprio l’esecuzione in buona fede a permeare lo svolgimento del rapporto contrattuale, tanto più in relazione a fattori che possono in qualche modo turbarne l’equilibrio: è in questo momento che il richiamato principio solidaristico dovrebbe condurre le parti ad effettuare parziali modifiche sulle prestazioni originariamente pattuite, informando il loro comportamento in executivis.
L’offerta di reductio ad aequitatem di cui all’art. 1467 induce a ritenere, in applicazione dei principi espressi dagli artt. 1374 e 1375 c.c., che la clausola (legale) rebus sic stantibus sia presente in ogni programma contrattuale e, di conseguenza, l’efficacia del contratto per il futuro sia subordinata al fatto che le posizioni contrattuali di partenza non si modifichino[146].
In tale ottica, il rimedio della reductio ad aequitatem mira a realizzare un equilibrio contrattuale oggettivo quale surrogato dell’equilibrio contrattuale soggettivo di fatto irrealizzatosi, a causa della mancanza di libertà negoziale in uno dei contraenti[147].
È chiaro, a questo punto, il collegamento con la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, fondata sul rispetto del rapporto sinallagmatico, così come liberamente disegnato dalle parti[148].
Tale istituto, al pari della rescissione, rappresenta un rimedio previsto dal legislatore per ripristinare l’equilibrio contrattuale nell’ipotesi un cui si verifichino delle “sopravvenienze”[149].
L’art. 1467 c.c. si applica ai rapporti contrattuali ad esecuzione continuata o periodica, oppure ad esecuzione differita, quindi suscettibili di essere eseguiti in tutto o in parte[150].
Anche l’istituto in esame si fonda sullo squilibrio fra le prestazioni (la “onerosità”), il quale, però, a differenza delle ipotesi rescissorie, ove è presente ab origine, deve essere successivo rispetto al valore di scambio delle prestazioni originariamente stabilito dai contraenti, e deve essere la conseguenza di accadimenti straordinari e imprevedibili, come tali estranei alla sfera del “voluto” dei paciscenti al momento della conclusione del vincolo negoziale[151].
L’onerosità, ossia lo squilibrio tra il valore economico delle prestazioni, oltre che sopravvenuta, deve essere anche “eccessiva”, vale a dire tale da rendere il contratto sensibilmente ingiusto per uno dei contraenti[152] e non deve rientrare nell’ “alea normale del contratto”(art. 1467, comma 2, c.c.)[153].
Dal carattere straordinario ed imprevedibile degli accadimenti ex art. 1467 c.c., si ricava la irrilevanza per l’ordinamento giuridico dello squilibrio dell’assetto negoziale stabilito dai contraenti.
Infatti, se le vicende sopravvenute fossero state previste, o fossero anche soltanto state prevedibili dai contraenti, il rimedio non potrebbe operare; da ciò consegue che la finalità di tale istituto non è garantire un equilibrio oggettivo tra i valori delle prestazioni, bensì assicurare l’assetto risultante proprio dalle pattuizioni, assetto che costituisce il parametro per l’apprezzamento dei presupposti della risoluzione stessa[154].
Quindi, se lo squilibrio è riconducibile all’ambito delle scelte delle parti, non è rimediabile. Inoltre, ai sensi dell’art. 1469 c.c., il rimedio non potrà operare nemmeno se l’eccessiva onerosità inerisce all’alea pattuita[155], senza che tale norma subordini l’esclusione della risoluzione per eccessiva onerosità dei contratti convenzionalmente aleatori alla verifica, secondo calcoli attuariali, della congruità delle condizioni convenute rispetto all’assunzione del rischio.
In altre parole, anche lo squilibrio sopravvenuto in conseguenza di eventi straordinari non inficia il vincolo contrattuale se le conseguenze dell’attuazione del rapporto sperequato sono il frutto dell’originario assetto negoziale stabilito dai contraenti. Ne consegue, necessariamente, la insindacabilità nel merito della congruità delle pattuizioni aleatorie[156].
Tale disciplina appare coerente con un regime che escluda la sindacabilità delle condizioni pattuite dai contraenti ed incompatibili con un regime che la prescriva[157].
Anche in materia di rescissione il Codice fornisce una norma diretta ad evitare le conseguenze di uno squilibrio, questa volta ab origine, tra le prestazioni dedotte nello schema di contratto: l’art. 1450 sancisce che la parte contraente contro la quale è domandata la rescissione del contratto può evitare quest’ultima offrendo alla parte danneggiata di ricondurre il valore economico delle prestazioni ad un equo rapporto.
Significativo è l’art. 1664 c.c., formulato in materia di appalti. Le circostanze sopravvenute ed imprevedibili che modifichino oltre una certa soglia il prezzo convenuto legittimano i contraenti a chiedere di rinegoziare il prezzo stesso. La norma costituisce una speciale applicazione dell’art. 1467 c.c. e trova la sua ratio nella frequente variabilità dei costi dei materiali e della mano d’opera di cui si serve l’appaltatore per portare a compimento l’opera commissionatagli.
Non trascurabile è l’art. 1668 c.c. che rafforza la posizione contrattuale del committente il quale, in caso di vizi dell’opera, ha, tra le altre, la possibilità di chiedere all’appaltatore una riduzione proporzionale del prezzo convenuto.
Altre indicative prescrizioni del legislatore in senso favorevole alla conservazione del vincolo contrattuale ed alla possibilità di “rettificare” in itinere lo squilibrio sopravvenuto tra i valori delle prestazioni sono rinvenibili negli art. 1492 c.c. 1578 c.c., rispettivamente dettate in tema di vendita e di locazione. L’art. 1492 tutela il compratore di una cosa rivelatasi affetta da vizi attribuendogli la possibilità di chiedere la riduzione del prezzo. Analoga la previsione in tema di locazione, che, in caso di vizi della cosa locata, protegge il conduttore, autorizzato a domandare la riduzione del corrispettivo in alternativa alla risoluzione del contratto.
Ancora, in tema di affitto, l’art. 1623 disciplina l’eventualità di sopravvenienza di un factum principis (disposizione di legge, provvedimento dell’autorità) che produca una notevole modifica del rapporto contrattuale “in modo che le parti ne risentano rispettivamente una perdita o un vantaggio”[158]: in tale ipotesi può essere chiesto un aumento o una diminuzione del prezzo.
Le disposizioni citate hanno il pregio di lasciare ai contraenti non solo la possibilità di scegliere se rinegoziare o meno, ma anche la definizione in concreto delle loro rideterminazioni.
Diverse le fattispecie di cui agli artt. 1560 e 1561 c.c. in tema di somministrazione: in tal caso il legislatore introduce un meccanismo legale di determinazione dl contenuto[159], sottraendo alla signoria delle parti la fissazione dei nuovi termini dell’accordo.
Tutte le norme menzionate presentano una caratteristica comune: esse contengono dei congegni normativi tali da garantire che le posizioni contrattuali inizialmente assunte dalle parti non siano del tutto o in gran parte incise dagli effetti di cambiamenti che superino il confine della normale alea assunta ex contractu.
Il tentativo di censimento delle norme che lasciano intravedere il favor del legislatore nei confronti della salvaguardia del vincolo contrattuale a fronte dei rischi connaturati ad eventuali sopravvenienze non può considerarsi, chiaramente, esaustivo, ma solo esemplificativo di una tendenza del nostro ordinamento ad agevolare il riesame delle posizioni contrattuali.
[1] Galgano, Diritto civile e commerciale. Le obbligazioni e i contratti, II, 1, Padova, 2004, p. 420; cfr. anche Bianca, Diritto civile, Il contratto, 2000, p. 641
[2] V. Sicchiero G., “La rinegoziazione”, in Contratto e impresa, 2002, pp. 776.
[3] V. Gazzoni F., Manuale di diritto privato, Napoli, 2003, pag. 915.
[4] Non a caso, Roppo, Il contratto, cit., 1037, intitola “Presupposizione, e rimedi manutentivi (di adeguamento del contratto)” il capitolo del suo volume dedicato a questo tema, mentre nel paragrafo intitolato “I contratti di (lunga) durata e l’esigenza di stabilità del rapporto” (p. 1041), viene preliminarmente messa in luce la “inadeguatezza dei rimedi ablativi”, per lasciare spazio alla trattazione dei rimedi manutentivi (di adeguamento) di natura legale e convenzionale. La scelta di esaminare la materia in questo modo, ponendo a fuoco subito realtà contrattuale e carattere della disciplina rimediale è ben esplicitata, del resto, nel lavoro monografico di chi scrive, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli, 1996, cui si farà talvolta riferimento per lo svolgimento più compiuto di passaggi che, in questa sede, non potranno che essere soltanto accennati.
[5] Rileva Costanza, Clausole di rinegoziazione e determinazione unilaterale del prezzo, in Aa.Vv., Inadempimento, adattamento e arbitrato. Patologie dei contratti e rimedi. Diritto e prassi degli scambi internazionali, Milano, 1992, p. 314.
[6] Vedi, sul punto, Traisci F.P., Sopravvenienze contrattuali e rinegoziazione nei sistemi di civil law e common law, Napoli, 2003, pag. 34 e ss.
[7] V. Gentili A., “La replica della stipula: riproduzione, rinnovazione, rinegoziazione del contratto”, in Contratto e impresa, 2003, pag. 701.
[8] Le parti che riconsiderano le reciproche posizioni contrattuali devono essere legate da un precedente contratto, le cui specifiche obbligazioni, al tempo della rinegoziazione, devono essere in linea di massima ancora inadempiute.
[9] V. Gentili A., op cit.
[10] V. Bianca M., Il contratto, Milano, 2000, pag. 492
[11] Macario, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli. 1996, p. 340
[12] V. M. Cesaro, Clausole di rinegoziazione e conservazione dell’equilibrio contrattuale, cit., 58 ss.; M. Costanza, Clausole di rinegoziazione e determinazione unilaterale del prezzo, in AA.VV., Inadempimento, adattamento, arbitrato. Patologie dei contratti e rimedi, Milano, 1992, 313-315.
[13] è bene precisare che di fronte a modifiche di modalità o contenuti di una prestazione già dovuta, e che tale rimanga, si dovrà, ai fini della verifica della sussistenza di una novazione oggettiva, valutare se le parti abbiano voluto una semplice modificazione del rapporto oppure, attraverso tale modificazione, abbiano inteso dar vita ad un nuovo rapporto.
[14] V. Cesaro V. M., Conservazione e rinegoziazione dell’equilibrio contrattuale, Napoli, 2000
[15] La rinegoziazione esige un nuovo apprezzamento dell’assetto delle situazioni dedotte in contratto, ossia un’attività implicante manifestazioni di volontà decisionali che riformano parti del contenuto dell’accordo.
[16] Cfr. Gallo P., voce Revisione del contratto, contenuta nel Digesto delle discipline privatistiche, vol. XVII, Torino, 1998.
[17] V. Gentili A., op cit.
[18] È ciò che afferma Rescigno, L’adeguamento del contratto nel diritto italiano, in Aa.Vv., Inadempimento, adattamento e arbitrato. Patologie dei contratti e rimedi. Diritto e prassi degli scambi internazionali, Milano, 1992, p. 305, il quale, pronunciandosi a favore delle clausole di adeguamento automatico, sottolinea che il nostro sistema, con riguardo alla prestazione, consente che la stessa all’atto della stipulazione sia non ancora determinata ma determinabile, ed “è questa la via più agevole per spiegare come i contraenti possano legittimamente avvalersi, nell’esercizio della loro autonomia, di sistemi di determinazione concreta della prestazione attraverso il rinvio a elementi estranei quali indici, prezzi, valori, e altri parametri attraverso i quali la prestazione in concreto verrà a determinarsi”.
[19] V. Clerico G., “Minaccia di inadempienza contrattuale, rinegoziazione e forme di risarcimento”, in Rivista critica di diritto privato, 2004, pp. 279-280.
[20] V. Cesaro V. M., Conservazione e rinegoziazione dell’equilibrio contrattuale, Napoli, 2000.
[21] Per una chiara e sintetica distinzione cfr. Torrente A.- Schlesinger P., Manuale di diritto privato, Milano, 2004, pag. 480
[22] Galgano, Diritto civile e commerciale, Le obbligazioni e i contratti, II, 1, Padova, 2004, p. 229 ss.
[23] Cfr., per tutti, Galgano, Diritto civile e commerciale, Le obbligazioni e i contratti, II, 1, Padova, 2004, p. 229 ss.; Maiello, I problemi di legittimità e di disciplina dei negozi atipici, in Riv. Dir. Civ., 1987, I, p. 487 s.
[24] Macario, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli, 1996, p. 332 ss. L’autore afferma che la considerazione risulta “tanto più consistente, ove ci si ponga nella prospettiva secondo la quale non saremmo neanche al cospetto di contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare e quindi il richiamo al controllo di meritevolezza risulterebbe incoerente”. Sulla fattispecie dei negozi preparatori si rinvia a G. Gabrielli, Il rapporto giuridico preparatorio, Milano, 1974; Speciale, Contratti preliminari e intese precontrattuali, Milano, 1990; Salandra, Contratti preparatori e di coordinamento, in Riv. Dir. Comm., 1990, I, p. 22 ss.
[25] Cesareo, Clausola di rinegoziazione e conservazione dell’equilibrio contrattuale, Napoli, 2000, p. 11
[26] cfr. Carnelutti, Sulla validità della clausola oro, in Foro it., 1949, c. 158; Mazza, Clausola oro e nullità parziale del contratto, in Giur. compi. Cass. civ., 1948, II, p. 667; Andrioli, L’inefficacia della clausola oro valore e il principio di conservazione dei contratti, in Riv. it. dir. fin., 1940, II, l, p. 90.
[27] Nella dottrina civilistica si sono occupati dell’argomento: P. Gallo, Sopravvenienza contrattuale e problemi di gestione del contratto, Milano, 1992; Id., voce Revisione del contratto, in Dig. disc. priv., sez. civ., XVII, Torino, 1998, 431 ss.; F. Macario, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli, 1996; Id., Rischio contrattuale e rapporti di durata nel nuovo diritto dei contratti: dalla presupposizione all’obbligo di rinegoziare, in Riv. dir. civ., 2002, 63 ss.; V. M. Cesaro, Clausole di rinegoziazione e conservazione dell’equilibrio contrattuale, cit.; in argomento si v. anche F. Grande Stevens, Obbligo di rinegoziare nei contratti di durata, in N. Lipari (a cura di), Diritto privato europeo e categorie civilistiche, Napoli, 1998, 193; A. De Mauro, Principi di adeguamento nei rapporti giuridici privati, Milano, 2000; C. D’Arrigo, Il controllo delle sopravvenienze nei contratti a lungo termine tra eccessiva onerosità e adeguamento del rapporto, in R. Tommasini (a cura di), Sopravvenienze e dinamiche di riequilibrio tra controllo e gestione del rapporto contrattuale, Torino, 2002, 491 ss.; G. Sicchiero, La rinegoziazione, in Contr. e impr., 2002, 774 ss.; A. Gentili, La replica della stipula: riproduzione, rinnovazione, rinegoziazione del contratto, ivi, 701-724; F. Gambino, Problemi del rinegoziare, Milano, 2004; E.C. Zaccaria, L’adattamento dei contratti a lungo termine nell’esperienza giuridica statunitense: aspirazioni teoriche e prassi giurisprudenziali, in Contr. e impr., 2006, 478 ss.
[28] V. Gentili A., op cit.
[29] L’art. 2932 c.c., ai fini dell’ottenimento della sentenza costitutiva, richiede che la parte inadempiente si sia sottratta all’obbligo di “concludere un contratto”. Evidentemente il legislatore intende riferirsi ad accordi dal contenuto complessivamente determinato e non a patti la cui definizione è rimessa ad un apporto volitivo non ancora manifestatosi.
[30] Macario, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli, 1996, p. 332 ss.; Cesareo, Clausola di rinegoziazione e conservazione dell’equilibrio contrattuale, Napoli, 2000, p. 58 ss.; Costanza, Clausole di rinegoziazione e determinazione unilaterale del prezzo, in Aa.Vv., Inadempimento, adattamento e arbitrato. Patologie dei contratti e rimedi. Diritto e prassi degli scambi internazionali, Milano, 1992, p. 315; Frignani, Le clausole di hardship, in Aa.Vv., Inadempimento, adattamento e arbitrato. Patologie dei contratti e rimedi. Diritto e prassi degli scambi internazionali, Milano, 1992; cfr. altresì Gorni, Le clausole di rinegoziazione, in Aa.Vv., Il conflitto del Golfo e i contratti di impresa. Esecuzione, adattamento e risoluzione in uno scenario di crisi. Quaderni per l’arbitrato e per i contratti internazionali, Milano, 1992, p. 37 s.
[31] Si veda Roppo, Il contratto, in Trattato di diritto privato (a cura di Iudica e Zatti), Milano, 2001, p. 866. L’autore afferma che l’art. 1419, 1° comma, c.c., trova fondamento nel principio della causa e della buona fede contrattuale. La nullità di una clausola contrattuale, facendo venir meno una parte del contratto, ne altera l’equilibrio, lasciando in vita un contratto diverso da quello concluso dalle parti (si tratta di un contratto che ha perso la sua originaria ragione giustificativa, la sua causa, in quanto i sacrifici e i vantaggi non sono più distribuiti nei termini che le parti avevano programmato). Ove il contratto residuo dia luogo ad uno squilibrio contrario a buona fede, la soluzione dovrebbe essere quella della cancellazione dell’intero contratto.
[32] È la conclusione a cui giunge Cesaro, Clausola di rinegoziazione e conservazione dell’equilibrio contrattuale, Napoli, 2000, p. 118, il quale aggiunge che il giudizio di essenzialità della clausola di rinegoziazione nel contesto negoziale. in cui viene ad inserirsi presenta difficoltà soprattutto nelle ipotesi in cui le parti abbiano indicato in aspetti e profili accessori del regolamento contrattuale l’oggetto dell’obbligo rinegoziativo. In questi casi al giudice spetterà il compito di verificare con attenzione, alla luce dell’assetto di interessi delineato dalle parti e dell’insieme di circostanze relative al caso concreto, la possibilità di disporre la caducazione del regolamento contrattuale. “La sua indagine dovrà risolversi, in particolare, in un accertamento oggettivo sulla compatibilità del regolamento residuo con quello originariamente concordato e sulla tollerabilità, nei limiti della buona fede, degli svantaggi che una delle parti è presumibilmente tenuta a sopportare. Minori aspetti problematici presenta il giudizio di essenzialità ogni qualvolta l’attività di rinegoziazione sia stata prevista in relazione ad un elemento essenziale del contratto, quale ad esempio l’oggetto della prestazione, assumendo in linea di massima la clausola di rinegoziazione una posizione di • essenzialità nell’ economia contrattuale e condizionandone di conseguenza la validità”.
[33] In argomento si v. F. Grande Stevens, Obbligo di rinegoziare nei contratti di durata, in N. Lipari (a cura di), Diritto privato europeo e categorie civilistiche, Napoli, 1998, 193; A. De Mauro, Principi di adeguamento nei rapporti giuridici privati, Milano, 2000; C. D’Arrigo, Il controllo delle sopravvenienze nei contratti a lungo termine tra eccessiva onerosità e adeguamento del rapporto, in R. Tommasini (a cura di), Sopravvenienze e dinamiche di riequilibrio tra controllo e gestione del rapporto contrattuale, Torino, 2002, 491 ss.; G. Sicchiero, La rinegoziazione, in Contr. e impr., 2002, 774 ss.
[34] Gambino F., Problemi del rinegoziare, Giuffrè, Milano, 2004, pp. 186
[35] Come già avviene ad esempio in materia di appalto secondo la norma speciale di cui all’art. 1664 c.c. o in materia di affitto in base all’art. 1623 c.c.
[36] Per Macario, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli, 1996, p. 315 s. “l’interazione tra equità integrativa e buona fede come clausola generale del contratto, cui può aggiungersi il crisma derivante dalla ricerca della volontà comune (ancorché presunta) ex art. 1366 c.c., non supera il confronto con la disciplina legale della risoluzione del contratto per eccessiva onerosità. Ci si deve domandare, perciò, se il principio di buona fede (ma il discorso si pone in termini analoghi per l’equità integrativa) possa funzionare, oltre che come clausola generale, nel senso in cui ormai da tempo è intesa dall’ordinamento, anche come fonte di diritti ed obblighi che finiscono per assorbire l’operatività di una precisa norma giuridica, l’art. 1467, disposta dal legislatore con lo scopo di disciplinare il rapporto contrattuale nel caso in cui i contraenti non siano stati (né al momento della conclusione del contratto, né successivamente al verificarsi delle sopravvenienze) in grado di risolvere convenzionalmente il conflitto economico derivante dal maggior costo dell’adempimento”. Come rileva Barcellona, Appunti a proposito di rinegoziazione e gestione delle sopravvenienze, relazione presentata al Convegno svoltosi a Catania il 13-14 settembre 2002 “quello della configurabilità di un obbligo di rinegoziazione anche in presenza di un disciplina delle sopravvenienze direttamente centrata sulla risoluzione costituisce, peraltro, un punto di vista dal quale si può verificare in generale la reale portata di tale rimedio e la misura della sua implicazione nel principio di buona fede”.
[37] Così Macario, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli, 1996, p. 296, ove si aggiunge che “l’obbligo legale di rinegoziare può così essere ricostruito nell’ambito della disciplina delle sopravvenienze, senza tuttavia perdere di vista la visione sistematica più ampia, che fa capo al rispetto del principio di autonomia privata. Nella prospettata interpretazione della disposizione normativa, si riflette la convinzione del favor legis verso il salvataggio del contratto eccessivamente oneroso rispetto all’accoglimento della domanda di risoluzione”.
[38] Le affermazioni sono di Macario, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli, 1996, p. 293 ss., il quale, ammettendo che una siffatta ricostruzione possa apparire confliggente con l’inquadramento dell’offerta di cui all’art. 1467, 3° comma, c.c. fra i diritti potestativi, giustamente sottolinea che la scelta dell’offerente di subordinare la realizzazione del diritto di evitare la risoluzione mediante la sentenza modificativa dalla richiesta rivolta alla controparte di modificare consensualmente il contratto non costituisce affatto un’ anomalia. “Pur prescindendo dalla considerazione della netta propensione della giurisprudenza a inviare la decisione riformatrice del contratto all’esito infruttuoso delle trattative, quante volte la realtà dei contratti a lungo termine suggerisca l’opportunità di tale rimedio ( … ) la legittimità di tale interpretazione della norma può essere supportata dalla presenza di altre disposizioni regolanti ipotesi tradizionalmente ricomprese nell’ambito dei diritti potestativi” (Macario, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli, 1996, p. 293 ss., il quale prendendo in prestito le affermazioni di Puleo, I diritti potestativi (individuazione delle fattispecie), Milano, 1959, p. 67, aggiunge che il carattere potestativo di un diritto è compatibile con una sua attuazione stragiudiziale e negoziale su cui la natura potestativa manifesta la sua influenza, “rispetto al compimento dell’atto, soltanto in ciò che l’atto stesso non è libero, per il soggetto passivo, ma necessario o necessitato”. In altri termini, rispetto alla fatti specie dell’art. 1467, 3° comma, c.c., “il riferimento al diritto potestativo consente di individuare il contraente titolare del diritto di propone la modificazione del contratto e il carattere discrezionale della sua scelta”, ciò in quanto l’interesse alla prosecuzione del rapporto è stato già accreditato dal legislatore che lo ha preferito all’altro della risoluzione.
[39] Macario, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli, 1996, p. 298.
[40] Simile ricostruzione, a dire dell’autore troverebbe un ostacolo già nella differenza di fondo che corre tra il dispositivo dell’art. 1467 c.c. e quello di cui all’art. 1375 c.c., il primo dotato di una struttura unilaterale (richiesta di risoluzione e offerta di riconduzione ad equità sono entrambi rimedi unilaterali), il secondo, invece di una struttura, almeno sostanzialmente, bilaterale. Alla differenza strutturale del rimedio corrisponderebbe una precisa differenza funzionale, sicché, mentre la struttura unilaterale del rimedio è improntato su di una logica astensionistica, che rimetta al consenso, almeno virtuale, di entrambe le parti la prosecuzione del rapporto, la struttura bilaterale del rimedio rispecchia una logiCa conservativa intesa ad incentivare l’esecuzione del contratto. “Per l’art. 1467, infatti, legittimato ad attivare la rinegoziazione è soltanto il contraente avvantaggiato che subisce la richiesta di risoluzione; l’art. 1375, invece, formalmente legittima entrambi i contraenti a sollecitare le rinegoziazione e, di fatto, ne rimette l’iniziativa a quella delle parti che risulta svantaggiata dalle mutate circostanze” (Barcellona, Appunti a proposito di rinegoziazione e gestione delle sopravvenienze, relazione presentata al Convegno svoltosi a Catania il 13-14 settembre 2002). È però il caso di sottolineare che, riconosciuta all’offerta natura sostanziale di proposta modificativa del contratto e considerata la realtà contrattuale in cui 1’adeguamento opera, risulta evidente che l’esercizio del diritto di proporre l’equa modificazione delle condizioni può dare avvio, in pendenza del processo iniziato per la risoluzione del contratto, ad una vicenda puramente negoziale: quella della modificazione concordata delle condizioni.
[41] Barcellona, Appunti a proposito di rinegoziazione e gestione delle sopravvenienze, relazione presentata al Convegno svoltosi a Catania il 13-14 settembre 2002, per il quale la distribuzione dei poteri (di cui all’art. 1467 c.c.) “è intesa ad attuare un dispositivo non altrimenti fungibile che si propone di tutelare il debitore svantaggiato senza, però, costringere il creditore ad un sacrificio non preventivato”. Aggiunge l’autore che ”la deduzione dell’obbligo di trattare per l’adeguamento dal potere di mantenere in essere il contratto modificato non fa altro che trasformare un dato al più funzionale in una struttura normativa, ossia trasformare un’intenzione solo metagiuridica (= incentivare di fatto la rinegoziazione) in un autonomo obbligo giuridico”.
[42] Così, sempre, M. Barcellona, Appunti a proposito di rinegoziazione e gestione delle sopravvenienze, relazione presentata al Convegno svoltosi a Catania il 13-14 settembre 2002, secondo il quale l’effetto giuridico dell’art. 1375 c.c. sarebbe di obbligare il debitore, non a trattare, ma ad eseguire la prestazione tenendo in considerazione, secondo buona fede, le circostanze sopravvenute. “Il debitore, cioè, non è obbligato ad adeguare la sua prestazione. Sicché la trattativa non è un dovere primario ma, al più, una semplice modalità di adempimento dell’obbligazione”.
[43] Marasco G., La reintegrazione del contratto. Strumenti legali e convenzionali a tutela dell’equilibrio negoziale, Roma, 2006, p. 124.
[44] Cfr. Terranova, L’eccessiva onerosità nei contratti, Il codice civile – Commentario, diretto da Schlesinger, Milano, 1995, p. 244: “L’opzione dell’ordinamento per un adeguamento del contratto in luogo dello scioglimento del rapporto trova normativo avallo nell’”antirimedio” previsto dal comma 3° dell’art. 1467 c.c., in virtù del quale il benefici ario della sopravvenienza, purché disposto ad una modificazione del contratto può sempre e comunque impedire la risoluzione, assicurandosi così la conservazione del rapporto. Il rimedio risolutorio può cioè operare solo a condizione dell’inoperatività dell’antirImedio”.
[45] Cass., 19 aprile 1982 n. 2411, in Mass. Foro it., 1982; Cass., 1 marzo 1995, n. 2340, in Mass. Foro il., 1995; Cass. 10 gennaio 1975, n. 91, in Mass. Foro it., 1975; Cass. 15 dicembre 1982, n. 6917, in Rep. Giust. civ., voce Obbligazioni e contratti, n. 177; Cass. 17 aprile 1980, n. 2546, in Mass. Foro it., 1980.
[46] In tal senso Cesaro, Clausola di rinegoziazione e conservazione dell’equilibrio contrattuale, Napoli, 2000, p. 113. Attraverso simile verifica si deve accertare se la clausola rientri nel contenuto essenziale del contratto o assuma, semplicemente, carattere sussidiario.
[47] Silvestri, Clausole di indicizzazione convenzionale. Diritto monetario, in Dizionario di diritto privato, p. 114
[48] Quadri, Le clausole monetarie. Autonomia e controllo n’ella disciplina dei rapporti monetari, Milano, 1983, p. 112 ss.
[49] Da ultimo, sui rapporti fra (il concetto generale di) “alea” e (tipi e correlative discipline, fra loro diversificate in funzione e degli interessi in gioco, del) “contratto aleatorio”, si segnala l’attento studio di Capaldo, Contratto aleatorio e alea, Milano, 2004.
[50] Cass. 11 gennaio 1992 n. 247
[51] Cesareo, Clausola di rinegoziazione e conservazione dell’equilibrio contrattuale, Napoli, 2000, p. 10.
[52] Cfr. Terranova, L’eccessiva onerosità nei contratti, Il codice civile – Commentario, diretto da Schlesinger, Milano, 1995, p. 244
[53] In sede di prima applicazione, sono stati segnalati da parte di alcuni Uffici dubbi interpretativi in relazione a due distinti profili: il primo, di matrice civilistica, concerne il reale significato sotteso alla locuzione “senza formalità”, contenuta al comma 2, e riferita agli annotamenti di surrogazione; il secondo, di natura prettamente fiscale, riguarda, invece, l’individuazione del corretto trattamento tributario applicabile agli stessi annotamenti. Per quanto attiene il primo aspetto, si evidenzia che il secondo periodo del comma 2 della citata norma prevede, come accennato, che l’annotamento di surrogazione, da eseguire in margine all’iscrizione dell’ipoteca ai sensi dell’articolo 2843 c.c., possa essere richiesto al conservatore, “…senza formalità, allegando copia autentica dell’atto di surrogazione stipulato per atto pubblico o scrittura privata.”.
[54] La funzione tipica dell’istituto, secondo la giurisprudenza, è quella di riequilibrare la situazione che si è venuta a creare a seguito del depauperamento del solvens e del conseguente arricchimento dell’accipiens, assicurando al soggetto che ha reso possibile l’adempimento al debitore – nell’ipotesi di cui all’articolo 1202 c.c. – il recupero della prestazione erogata (cfr., in tal senso, Cass. civ., 23 novembre 2004, n. 22057).
[55] Al riguardo, si sottolinea che la disposizione in esame mentre rispetto al rapporto di finanziamento (originario) oggetto di estinzione si riferisce non soltanto al mutuo, ma anche a tutte le altre forme di finanziamento (erogate da intermediari bancari e finanziari), per quanto concerne il finanziamento finalizzato ad estinguere quello originario, fa riferimento soltanto al contratto di mutuo (cfr. in tal senso l’art. 1202 c.c., espressamente richiamato dal comma 1 dell’art. 8 in esame, nonché il comma 2 dell’art. 8, il quale dispone che “…il mutuante surrogato subentra nelle garanzie….”).
[56] Perché si verta nell’ipotesi di surrogazione per volontà del debitore, è necessaria la sussistenza di un nesso di interdipendenza tra il mutuo contratto dal debitore per acquisire la disponibilità della somma destinata ad estinguere il debito e il pagamento del debito stesso; da qui la necessità, ai fini della piena efficacia della surrogazione ex art. 1202 c.c., che nell’atto di mutuo sia indicata espressamente la specifica destinazione della somma mutuata e che nella quietanza venga menzionata la dichiarazione del debitore circa la provenienza delle somme con cui è stato effettuato il pagamento (in surrogazione).
[57] La giurisprudenza applica l’art. 1419 c.c. anche in materia di annullabilità del contratto. Cfr. Cass., 4 settembre 1980, n. 5100, in Giur. Agr. it., 1981, p. 479; Cass., 4 dicembre 1982, n. 6609, in Mass. Foro it., 1982; Cass., 16 dicembre 1982, n. 6935, in Giur. it., 1983, I, C. 1530; cfr. anche Trib. Roma, 9 marzo 1999, in Giur. merito, 2000, p. 325, con nota di Cimatti. In dottrina cfr., per tutti, Criscuoli, La nullità parziale del negozio giuridico, Milano, 1959, p. 269.
[58] Circolare 95/E del 12.05.2000 secondo la quale nel caso in cui venga estinto un vecchio mutuo e ne venga acceso uno nuovo di importo non superiore alla quota capitale residua, maggiorata delle spese e degli oneri correlati, si continua a beneficiare della detrazione prevista dalla lett. b) del comma 1 dell’art. 13 bis del TUIR, come modificato dalla Legge 23.12.1988 n. 448, anche se il soggetto mutuante è diverso da quello originario.
[59] Marasco G., La reintegrazione del contratto. Strumenti legali e convenzionali a tutela dell’equilibrio negoziale, Roma, 2006, p. 124.
[60] In questo senso vedi la circolare 9/2007
[61] In tal senso Cesaro, Clausola di rinegoziazione e conservazione dell’equilibrio contrattuale, Napoli, 2000, p. 113.
[62] Barcellona, Appunti a proposito di rinegoziazione e gestione delle sopravvenienze, relazione presentata al Convegno svoltosi a Catania il 13-14 settembre 2002.
[63] Macario, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli, 1996, p. 298.
[64] Macario, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli, 1996, p. 293 ss., il quale prendendo in prestito le affermazioni di Puleo, I diritti potestativi (individuazione delle fattispecie), Milano, 1959, p. 67
[65] Gambino F., Problemi del rinegoziare, Giuffrè, Milano, 2004, pp. 186.
[66] Si citano qui, a titolo di esempio: I) Aumento dello stipendio del cliente, dovuto alle sue progressione di carriera; questo ha permesso di accumulare nel giro di pochi anni un ammontare di risparmio tale da poter estinguere il debito contratto in anticipo rispetto alla sua scadenza. II) Il cliente ha ricevuto in eredità un patrimonio tale da potersi permettere l’estinzione del debito.
[67] Di norma, solo il 4-5% dei mutui viene estinto anticipatamente, a conferma delle difficoltà che i clienti trovano nel reperire le risorse per far fronte all’operazione e alla convenienza, anche in presenza della liquidità necessaria.
[68] In argomento si v. F. Grande Stevens, Obbligo di rinegoziare nei contratti di durata, in N. Lipari (a cura di), Diritto privato europeo e categorie civilistiche, Napoli, 1998, 193; A. De Mauro, Principi di adeguamento nei rapporti giuridici privati, Milano, 2000; C. D’Arrigo, Il controllo delle sopravvenienze nei contratti a lungo termine tra eccessiva onerosità e adeguamento del rapporto, in R. Tommasini (a cura di), Sopravvenienze e dinamiche di riequilibrio tra controllo e gestione del rapporto contrattuale, Torino, 2002, 491 ss.; G. Sicchiero, La rinegoziazione, in Contr. e impr., 2002, 774 ss.
[69] Se però il cliente sarà ben lieto di estinguere il mutuo contratto per acquistare l’appartamento in cui vive, non così sarà per la banca; l’estinzione anticipata del mutuo priva infatti l’istituto di credito di una fonte di reddito sicura e costante di durata pari a quella della stipula del contratto.
[70] Questo vantaggio è forse l’unico della legge in commento, dato che le spese si riducono di pochissimo: è stato calcolato che la surrogazione in un contratto di mutuo, che esiste da quando esiste il codice civile, costava prima dell’entrata in vigore del “decreto Bersani-bis” circa 2.500 euro; ad oggi essa costa solo un centinaio di euro in meno.
[71] Non è semplice fare una panoramica delle penali di estinzione presenti attualmente nei prodotti finanziari delle banche italiane.
[72] In alcuni tipi di mutui-casa non è possibile esercitare l’opzione di estinzione anticipata prima di un certo numero di anni; in questi casi il mutuo conviene a chi ritiene che non avrà grandi aumenti di reddito negli anni successivi alla stipula.
[73] Ad esempio un mutuatario che avesse già una penale dello 0,50% avrà diritto ad una riduzione di 20 centesimi, per cui pagherà 0,30%; se la penale contrattuale fosse 1,90% dovrebbe pagare l’1,65%.
[74] L’importanza della recente legislazione non deve far dimenticare che nei rapporti tra sistema bancario e clientela interviene il cd. Bersani 1 e interverrà ancora, quando approvato, il Disegno di Legge attualmente in discussione in Parlamento. Il Decreto Legge 223/06 e la Legge di conversione 248/06 avevano affrontato due argomenti molto importanti per i consumatori, le condizioni economiche contrattuali e la loro possibilità di modifica e l’azzeramento dei costi di chiusura dei conti correnti.
[75] Ad esempio la Legge 24/01 che abbassò i tassi dei mutui prima casa all’8% o l’accordo delle Associazioni dei consumatori con alcuni grandi gruppi bancari per ridurre le penali di estinzione anticipata del 1998.
[76] A. De Mauro, Principi di adeguamento nei rapporti giuridici privati, Milano, 2000; C. D’Arrigo, Il controllo delle sopravvenienze nei contratti a lungo termine tra eccessiva onerosità e adeguamento del rapporto, in R. Tommasini (a cura di), Sopravvenienze e dinamiche di riequilibrio tra controllo e gestione del rapporto contrattuale, Torino, 2002, 491 ss.; G. Sicchiero, La rinegoziazione, in Contr. e impr., 2002, 774 ss.; A. Gentili, La replica della stipula: riproduzione, rinnovazione, rinegoziazione del contratto, ivi, 701-724; F. Gambino, Problemi del rinegoziare, Milano, 2004; E.C. Zaccaria, L’adattamento dei contratti a lungo termine nell’esperienza giuridica statunitense: aspirazioni teoriche e prassi giurisprudenziali, in Contr. e impr., 2006, 478 ss.
[77] Meritano di essere richiamate, sotto questo profilo, le problematiche emerse intorno alle clausole di indicizzazione e alle ripercussioni che la loro invalidità può produrre rispetto ai contratti in cui sono inserite. Si tratta di una questione dibattuta che vede contrapposte l’idea di chi ritiene che il mantenimento del contratto, pur senza la clausola di indicizzazione invalida, sia la scelta più adeguata alle esigenze dell’ordinamento di mantenimento della stabilità monetaria e della ripartizione delle conseguenze economiche dei fenomeni monetari (Quadri, Le clausole monetarie. Autonomia e controllo n’ella disciplina dei rapporti monetari, Milano, 1983, p. 112 ss.), e l’idea di chi, invece, è del parere che la nullità di una clausola di indicizzazione si estenda all’intero contratto, in quanto, in presenza di una simile clausola, la prestazione oggetto del contratto non può essere determinata in modo autonomo, ma dipende sempre ed imprescindibilmente dal meccanismo parametrico, che si pone quale unico criterio di determinazione dell’oggetto negoziale (sicché, venendo meno siffatto parametro, l’oggetto diviene indeterminabile); ciò è di «intuitiva evidenza nei contratti in cui al momento della stipulazione la somma di denaro oggetto della prestazione non venga indicata in termini pecuniari ma solo attraverso il meccanismo contenuto nella clausola monetaria. Pur, tuttavia, questo rilievo non è men vero in tutti i casi in cui al momento della conclusione del contratto viene indicato l’ammontare della somma rispetto alla quale la clausola monetaria funzionerà quale criterio di revisione» (Silvestri, Clausole di indicizzazione convenzionale. Diritto monetario, in Dizionario di diritto privato, p. 114). Sul dibattito sorto intorno alla clausola oro, in passato ritenuta illecita, cfr. Carnelutti, Sulla validità della clausola oro, in Foro it., 1949, c. 158; Mazza, Clausola oro e nullità parziale del contratto, in Giur. compi. Cass. civ., 1948, II, p. 667; Andrioli, L’inefficacia della clausola oro valore e il principio di conservazione dei contratti, in Riv. it. dir. fin., 1940, II, l, p. 90.
[78] Roppo, Il contratto, in Trattato di diritto privato (a cura di Iudica e Zatti), Milano, 2001, p. 866.
[79] A. De Mauro, Principi di adeguamento nei rapporti giuridici privati, Milano, 2000; C. D’Arrigo, Il controllo delle sopravvenienze nei contratti a lungo termine tra eccessiva onerosità e adeguamento del rapporto, in R. Tommasini (a cura di), Sopravvenienze e dinamiche di riequilibrio tra controllo e gestione del rapporto contrattuale, Torino, 2002, 491 ss.; G. Sicchiero, La rinegoziazione, in Contr. e impr., 2002, 774 ss.; A. Gentili, La replica della stipula: riproduzione, rinnovazione, rinegoziazione del contratto, ivi, 701-724; F. Gambino, Problemi del rinegoziare, Milano, 2004; E.C. Zaccaria, L’adattamento dei contratti a lungo termine nell’esperienza giuridica statunitense: aspirazioni teoriche e prassi giurisprudenziali, in Contr. e impr., 2006, 478 ss.
[80] Il cammino verso l’eliminazione della penale non è stato tuttavia agevole e ci sono volute due norme e sei mesi di tempo per poter vedere attuato il proposito.
[81] V. M. Cesaro, Clausole di rinegoziazione e conservazione dell’equilibrio contrattuale, cit.; in argomento si v. anche F. Grande Stevens, Obbligo di rinegoziare nei contratti di durata, in N. Lipari (a cura di), Diritto privato europeo e categorie civilistiche, Napoli, 1998, 193;
[82] P. Gallo, Sopravvenienza contrattuale e problemi di gestione del contratto, Milano, 1992; Id., voce Revisione del contratto, in Dig. disc. priv., sez. civ., XVII, Torino, 1998, 431 ss.; F. Macario, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli, 1996; Id., Rischio contrattuale e rapporti di durata nel nuovo diritto dei contratti: dalla presupposizione all’obbligo di rinegoziare, in Riv. dir. civ., 2002, 63 ss.
[83] V. Cesaro V. M., Conservazione e rinegoziazione dell’equilibrio contrattuale, Napoli, 2000
[84] Rescigno, L’adeguamento del contratto nel diritto italiano, in Aa.Vv., Inadempimento, adattamento e arbitrato. Patologie dei contratti e rimedi. Diritto e prassi degli scambi internazionali, Milano, 1992, p. 305.
[85] cfr. Carnelutti, Sulla validità della clausola oro, in Foro it., 1949, c. 158; Mazza, Clausola oro e nullità parziale del contratto, in Giur. compi. Cass. civ., 1948, II, p. 667; Andrioli, L’inefficacia della clausola oro valore e il principio di conservazione dei contratti, in Riv. it. dir. fin., 1940, II, l, p. 90.
[86] Recita infatti il già citato articolo 7: “1. E’ nullo qualsiasi patto, anche posteriore alla conclusione del contratto, ivi incluse le clausole penali, con cui si convenga che mutuatario, che richieda l’estinzione anticipata o parziale di un contratto di mutuo per l’acquisto della prima casa, sia tenuto ad una determinata prestazione a favore della banca mutuante. 2. Le clausole apposte in violazione del divieto di cui al comma 1 sono nulle di diritto e non comportano la nullità del contratto. […]” La norma è stata emanata proprio per eliminare le penali di estinzione anticipata nei contratti di mutuo; gioca a favore di questa interpretazione il fatto che la legge parli di clausole penali e di estinzione anticipata o parziale.
[87] V. Gentili A., “La replica della stipula: riproduzione, rinnovazione, rinegoziazione del contratto”, in Contratto e impresa, 2003, pag. 701.
[88] Macario, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli, 1996, p. 332 ss.; Cesareo, Clausola di rinegoziazione e conservazione dell’equilibrio contrattuale, Napoli, 2000, p. 58 ss.; Costanza, Clausole di rinegoziazione e determinazione unilaterale del prezzo, in Aa.Vv., Inadempimento, adattamento e arbitrato. Patologie dei contratti e rimedi. Diritto e prassi degli scambi internazionali, Milano, 1992, p. 315; Frignani, Le clausole di hardship, in Aa.Vv., Inadempimento, adattamento e arbitrato. Patologie dei contratti e rimedi. Diritto e prassi degli scambi internazionali, Milano, 1992; cfr. altresì Gorni, Le clausole di rinegoziazione, in Aa.Vv., Il conflitto del Golfo e i contratti di impresa. Esecuzione, adattamento e risoluzione in uno scenario di crisi. Quaderni per l’arbitrato e per i contratti internazionali, Milano, 1992, p. 37 s.
[89] V. Sicchiero G., “La rinegoziazione”, in Contratto e impresa, 2002, pp. 776.
[90] P. Gallo, Sopravvenienza contrattuale e problemi di gestione del contratto, Milano, 1992; Id., voce Revisione del contratto, in Dig. disc. priv., sez. civ., XVII, Torino, 1998, 431 ss.; F. Macario, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli, 1996; Id., Rischio contrattuale e rapporti di durata nel nuovo diritto dei contratti: dalla presupposizione all’obbligo di rinegoziare, in Riv. dir. civ., 2002, 63 ss.
[91] IlSole24Ore, 5 febbraio 2007, pag. 3. Si calcola che la convenienza per i mutuanti a vedersi ridotta la penale di estinzione anticipata valga soltanto per i mutui contratti tra il 2000 e il 2001, quando i tassi erano sul 7-8% e la durata media compresa tra i 15 e i 20 anni; si tratta di un bacino d’utenza di circa cinquecentomila mutui, che possono vedersi ridotto il tasso attorno al 5%.
[92] Sull’argomento, v. A. Di Majo, La nozione di equilibrio nella tematica del contratto, Incontro di studio del C.S.M., 22-24 aprile 2002, in www.lexfor.it.; G. Oppo, Lo “squilibrio” contrattuale tra diritto civile e diritto penale, in Riv. dir. civ., 1999, I, p. 533 ss.
[93] A. D’Angelo, Il contratto in generale. La buona fede, in Trattato di Diritto Privato diretto da M. Bessone, Torino, 2004, pp. 89, 97, 165.
[94] F. Caringella, Studi di Diritto Civile, II, Giuffré, 2003, p. 1690.
[95] A tale distinzione è ispirata tutta la più recente normativa consumeristica.
[96] Sulla nozione di giustizia contrattuale v. G. Marini, Ingiustizia dello scambio e lesione contrattuale, in Riv. critica dir. priv., 1986, p. 257 ss.; G. Vettori, Autonomia privata e contratto giusto, in Riv. dir. priv., n. 1/2000, p. 21 ss.; U. Breccia, Prospettive nel diritto dei contratti, in Riv. critica dir. priv., 2001, p. 194 ss.. Si può anticipare (ma sul punto si tornerà più avanti) che, in chiave storica, il problema della giustizia contrattuale è stato sempre collegato alla necessità che lo scambio fosse caratterizzato da un “giusto prezzo”, con la conseguente necessità di dover determinare, nel modo più preciso possibile, cosa si dovesse intendere per prezzo giusto e quale potesse essere il valore oggettivo dei beni. Sulla evoluzione dei principi di giustizia in materia contrattuale, v. R. Lanzillo, La proporzione fra le prestazioni contrattuali, Padova, 2003, p. 47 ss..
[97] Cfr. G. Marini, op. cit., p. 257 ss.
[98] Sul rapporto tra equilibrio contrattuale e giustizia contrattuale, v. F. Caringella, op. cit., p. 1691, secondo cui “è evidente che, con buona probabilità, un assetto contrattuale “equilibrato” sia in concreto anche “giusto”. Maggiori perplessità manifesta sul punto A. Di Majo, op. cit., p. 1 ss., secondo cui “non è neanche del tutto pacifico se la nozione di “equilibrio contrattuale” debba e/o possa o meno coincidere con quella della “giustizia contrattuale”. In senso negativo possono portarsi argomenti secondo cui la nozione di “equilibrio” si muove e si colloca nell’ottica dello “scambio” (di merci e/o di prestazioni) mentre la nozione di “giustizia contrattuale” vola più alto. Ha riguardo ad esiti o risultati dall’assetto contrattuale che siano conformi ai parametri oggettivi della “giustizia”, ove per “giustizia” si intendono esiti conformi ai dettami della morale sociale, il che coinvolge un giudizio etico, non già solo mercantilistico”.
[99] G. Alpa, Introduzione alla nuova giurisprudenza, in M. Bessone-G. Alpa (a cura di), I contratti in generale, I, Torino, 1991, p. 297 ss.; C.M. Bianca, Diritto civile, III, Il contratto, II ed., Milano, 2000, pp. 32 e 36; R. Sacco-G. De Nova, Il contratto, II, Torino, 1993, p. 3 ss.; V. Roppo, Il contratto, in Trattato di diritto privato, a cura di G. Iudica e P. Zatti, Milano 2001, p. 928 ss.; U. Breccia, Causa, in Trattato di diritto privato, diretto da M. Bessone, vol. XIII, t. III, Torino, 1999, p. 71 ss.; A. D’Angelo, Contratto e operazione economica, Torino, 1992, p. 309 ss.; P. Schlesinger, L’autonomia privata e i suoi limiti, in Giur. It., 1999, p. 231; M. Barcellona, La buona fede e il controllo giudiziale del contratto, in S. Mazzamuto (a cura di), Il contratto e le tutele: prospettive di diritto europeo, Torino, 2002, p. 305 ss.; F. D. Busnelli, Note in tema di buona fede ed equità, in Riv. dir. civ., 2001, I, p. 556 ss.; G. Marini, Ingiustizia dello scambio e lesione contrattuale, cit., p. 257 ss.; G. Grisi, L’autonomia privata. Diritto dei contratti e disciplina costituzionale dell’economia, Milano, 1999, p. 180 ss.; A. Somma, Autonomia privata e struttura del consenso contrattuale. Aspetti storico-comparativi di una vicenda concettuale, Milano, 2000, p. 405 ss.; Id., Il diritto privato liberista. A proposito di un recente contributo in tema di autonomia privata, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2001, p. 263 ss.; A. Barba, Libertà e giustizia contrattuale, in Studi in onore di P. Rescigno, III, 2, Milano, 1998, p. 11 ss.; F. Gazzoni, Equità e autonomia privata, Milano, 1970, p. 328; E. Dell’Aquila, L’adeguatezza tra i vantaggi nei contratti onerosi, in Studi senesi, XCI, III serie, XXVIII, 1979; R. Lanzillo, Il problema dell’equivalenza fra le prestazioni, in Studi Parmensi, 1983; Ead., Regole del mercato e congruità dello scambio contrattuale, in Contratto e Impresa, 1985, p. 309; T. O. Scozzafava, Il problema dell’adeguatezza della prestazione nella rescissione per lesione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1978, p. 353; M. Costanza, Meritevolezza degli interessi ed equilibrio contrattuale, in Contratto e Impresa, 1987, p. 423; F. Galgano, La categoria del contratto alle soglie del terzo millennio, in Contratto e Impresa, 2000, p. 918; P. Perlingieri, Nuovi profili del contratto, in Riv. Critica dir. privato, 2001, p. 223; A. Ricci, Errore sul valore e congruità dello scambio contrattuale, in Contratto e Impresa, 2001, p. 987; D. Corapi, L’equilibrio delle posizioni contrattuali nei Principi Unidroit, in Eur. dir. priv., 2002, p. 23; L. Ferroni (a cura di), Equilibrio delle posizioni contrattuali ed autonomia privata, Milano, 2002.
[100] Cfr. R. Sacco-G. De Nova, Il contratto, t. I, in Trattato di diritto civile, diretto da R. Sacco, Torino, 2004, p. 22, “Il giurista desidera – ha sempre desiderato – che il contratto, previsto e regolato dal diritto, sia giusto. Egli respinge istintivamente l’idea di un contratto ad un tempo ingiusto ed efficace”.
[101] Sull’argomento v. V.M. Cesaro, Clausola di rinegoziazione e conservazione dell’equilibrio contrattuale, Napoli, 2000; A. De Mauro, Il principio di adeguamento nei rapporti giuridici privati, Milano, 2000; F. Criscuolo, Equità e buona fede come fonti di integrazione del contratto. Potere di adeguamento delle prestazioni contrattuali da parte dell’arbitro (o del giudice) di equità, in Riv. arbitrato, 1999, p. 71; P. Gallo, Revisione del contratto, in Dig. disc. priv., XVII, Torino, 1998; Id., Sopravvenienza contrattuale e problemi di gestione del contratto, Milano, 1992; F. Grande Stevens, Obbligo di rinegoziazione nei contratti di durata, in AA. VV. (a cura di N. Lipari), Diritto privato europeo e categorie civilistiche, Napoli, 1998, p. 193; M. Timoteo, Contratto e tempo. Note a margine di un libro sulla rinegoziazione contrattuale, in Contratto e impresa, 1998, p. 619; F. Macario, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli, 1996; R. Tommasini, Revisione del rapporto (diritto privato), in Enc, dir., XL, Milano, 1989.
[102] Così D. Russo, Sull’equità dei contratti, cit., p. 64. L’Autore afferma, tuttavia, che la soluzione prospettata “sebbene apparentemente eversiva non risulta ad un attento esame in contrasto con la sistematica del codice”. Osserva P. Gallo, Sopravvenienza contrattuale, cit., p. 312: “In sostanza l’esistenza stessa di un rapporto contrattuale destinato a protrarsi nel tempo potrebbe implicare un obbligo reciproco dei contraenti a trattare le condizioni della modificazione del contratto, anche indipendentemente dalla ricorrenza di tutti i requisiti per la risoluzione ex art. 1467, ossia quante volte la situazione di fatto sia tale da non permettere l’adempimento delle obbligazioni assunte, senza un sostanziale sacrificio economico per il debitore (ancorché non in misura tale da far scattare i presupposti della risoluzione per eccessiva onerosità)”.
[103] V. Roppo, Il contratto, cit., p. 1046 ss..
[104] P. Gallo, op. ult. cit., p. 102 ss., parte dalla premessa fondamentale nello studio dell’adeguamento del contratto nei rapporti a lungo termine, e cioè che “la valutazione degli interessi dei contraenti non può svolgersi sul piano del contenuto del contratto, come insieme delle pattuizioni su cui si è raggiunto il consensus in idem placitum, bensì sul diverso piano dell’esecuzione, cercando di rinvenire gli strumenti normativi atti a garantire che l’adempimento sia in linea con il concreto sviluppo del rapporto contrattuale”.
[105] P. Gallo, op. ult. cit., p. 355: “Il contratto … indica l’esistenza, nonché il contenuto dell’obbligo, mentre il criterio della buona fede (ovvero della correttezza) offre lo strumento giuridico per individuare le modalità concrete dell’obbligo … il “come” l’obbligo vada adempiuto”.
[106] P. Gallo, op. ult. cit., p. 154 ss.: “La modificazione non è più soltanto legata alle vicende patologiche dell’esecuzione del contratto; essa è strumento di attuazione del rapporto”.
[107] Sia che l’obbligo di rinegoziare abbia fonte contrattuale, sia che abbia fonte legale, si pone il problema di stabilire quali siano le conseguenze dell’inadempimento di tale obbligo. Secondo F. Macario, op. cit., p. 395 ss., ad un tale inadempimento conseguirebbe la possibilità, per la parte adempiente, di far valere la culpa in contraendo della controparte, chiedendo al giudice una pronuncia costitutiva, sostitutiva del mancato accordo, ai sensi dell’art. 2932 c.c. Favorevole a tale soluzione è anche V. Roppo, Il contratto, cit., p. 1047, il quale osserva che i rimedi rappresentati dalla risoluzione e dal risarcimento porterebbero al risultato che l’obbligo di rinegoziazione mira ad evitare e, cioè, la distruzione del contratto. La soluzione ispirata all’art. 2932 c.c., secondo l’A., “può sembrare molto audace. Ma, prima di tutto, il risultato di essa non è così eversivo: equivale a dare alla parte gravata dalla sopravvenienza quello stesso potere d’invocare la riduzione a equità del contratto squilibrato, che già le spetta in relazione ai contratti gratuiti, e che nei contratti onerosi spetta a controparte (sicché, più che un rimedio nuovo, si configurerebbe un semplice allargamento della legittimazione a un rimedio già previsto)”.
[108] M. Bessone, Adempimento e rischio contrattuale, cit.. Secondo l’A. (p. 338) “il giudizio di buona fede costituisce un adeguato mezzo di controllo sulla compatibilità tra circostanze createsi ed equilibrio economico del contratto”.
[109] Esplicita è l’adesione, da parte di Bessone, alla teoria della causa concreta (op. ult. cit., p. 117 ss): “Nel quadro degli ordinamenti che sembrano esaurire la causa del contratto negli interessi che esprimono la funzione tipica di ogni singolo affare, accade che ogni interesse diverso da quelli venga qualificato irrilevante, e ciò naturalmente sembra impedire di apprezzare circostanze che, essendo incompatibili con situazioni solo presupposte dal contratto, paiono riguardare interessi estranei più di ogni altro alla causa del negozio, puri e semplici motivi dell’iniziativa. … Queste difficoltà invece non vi sono se si accoglie un concetto di causa così ampio da estendere la nozione di ragione giustificativa dell’affare anche agli interessi che talvolta integrano l’economia del contratto pur essendo estranei alle costanti del tipo negoziale, così da consentire di apprezzare anche circostanze che li concernono”.
[110] Nella teoria elaborata dal Bessone, il giudizio di buona fede non costituisce applicazione né dell’art. 1366 c.c., né dell’art. 1375 c.c., “perché il controllo sulla compatibilità tra circostanze occorse ed adempimento non pone tanto un problema di valutare la correttezza del contegno tenuto nell’esecuzione del rapporto, quanto piuttosto di verificare se la prestazione è correttamente esigibile”.
[111] M. Bessone, op. ult. cit., p. 399 ss.: “Il giudizio di buona fede consente di accertare se – date le circostanze – la prestazione delle parti può ancora essere richiesta o se costituisce piuttosto abuso del diritto la pretesa di ottenerla fatta valere dall’altra. … In conclusione, il controllo sulla compatibilità tra evenienze (pure diverse dall’imprevedibile) ed adempimento invariabilmente si concreta nel giudizio di buona fede inteso ad accertare se lo stato di cose creatosi non richieda un sacrificio che sta al di là del limite implicito nella stessa economia dell’affare”, limite oltre il quale, secondo l’A., la prestazione non è più dovuta e il contratto si risolve senza alcuna responsabilità in capo al debitore. In tale prospettiva, “la legge fa della buona fede in senso oggettivo (e distinta da diligenza e da equità) la fonte di un precetto diretto ai singoli, in quanto regola di comportamento, e al giudice, in quanto modello di decisione che è compito del giudice puntualizzare”.
[112] Cesareo, Clausola di rinegoziazione e conservazione dell’equilibrio contrattuale, Napoli, 2000, p. 10.
[113] Un’esigenza, questa, fortemente avvertita non solo in ambito di contrattazione internazionale, ma sempre con maggiore intensità anche nelle contrattazioni interne.
[114] Cesareo, Clausola di rinegoziazione e conservazione dell’equilibrio contrattuale, Napoli, 2000, p. 11, ove si legge che la clausola di rinegoziazione “è inserita nel contratto per disciplinare il fenomeno delle sopravvenienze in modo nuovo e diverso rispetto alle scelte normative”.
[115] Ritengono meritevoli di tutela giuridica l’interesse perseguito dalla clausola di rinegoziazione: Macario, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli, 1996, p. 332 ss.; Cesareo, Clausola di rinegoziazione e conservazione dell’equilibrio contrattuale, Napoli, 2000, p. 58 ss.; Costanza, Clausole di rinegoziazione e determinazione unilaterale del prezzo, in Aa.Vv., Inadempimento, adattamento e arbitrato. Patologie dei contratti e rimedi. Diritto e prassi degli scambi internazionali, Milano, 1992, p. 315; Frignani, Le clausole di hardship, in Aa.Vv., Inadempimento, adattamento e arbitrato. Patologie dei contratti e rimedi. Diritto e prassi degli scambi internazionali, Milano, 1992; cfr. altresì Gorni, Le clausole di rinegoziazione, in Aa.Vv., Il conflitto del Golfo e i contratti di impresa. Esecuzione, adattamento e risoluzione in uno scenario di crisi. Quaderni per l’arbitrato e per i contratti internazionali, Milano, 1992, p. 37 s.
[116] Si che gli interessi sottesi da obblighi contrattuali leciti sono da ritenersi meritevoli di tutela.
[117] Macario, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli, 1996, p. 332 ss. L’autore afferma che la considerazione risulta “tanto più consistente, ove ci si ponga nella prospettiva secondo la quale non saremmo neanche al cospetto di contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare e quindi il richiamo al controllo di meritevolezza risulterebbe incoerente”. Sulla fattispecie dei negozi preparatori si rinvia a G. Gabrielli, Il rapporto giuridico preparatorio, Milano, 1974; Speciale, Contratti preliminari e intese precontrattuali, Milano, 1990; Salandra, Contratti preparatori e di coordinamento, in Riv. Dir. Comm., 1990, I, p. 22 ss.
[118] Cfr., per tutti, Galgano, Diritto civile e commerciale, Le obbligazioni e i contratti, II, 1, Padova, 2004, p. 229 ss.; Maiello, I problemi di legittimità e di disciplina dei negozi atipici, in Riv. Dir. Civ., 1987, I, p. 487 s.
[119] A dimostrare ciò, vengono richiamate, tra le altre, Cass., 28 ottobre 1983, n. 6390, in Foro it., 1983, I, c. 2997; Trib. Vicenza, 10 novembre 1984, in Riv. Dir. Comm., 1985, II, p. 285; App. Milano, 22 gennaio 1962, in Banca, borsa, tit. cred., 1982, II, p. 178; App. Milano, 21 febbraio 1984, in Banca, borsa, tit. cred., 1985, II, p. 188; Trib. Milano, 25 settembre 1978, in Banca, borsa, tit. cred., 1982, II, p. 178.
[120] Il giudizio sulla meritevolezza degli interessi che la clausola di rinegoziazione sottende opera sul piano esclusivo della “causa”, della individuazione-valutazione della funzione economico-sociale del patto, e non copre di certo quegli altri profili (quali la sussistenza degli altri elementi essenziali) in relazione ai quali l’ordinamento in generale fa derivare la validità o l’invalidità del contratto.
[121] Potrebbero non risultare perciò meritevoli di tutela anche interessi indubbiamente leciti. Galgano, Diritto civile e commerciale, Le obbligazioni e i contratti, II, 1, Padova, 2004, p. 229 ss. L’autore sottolinea come, a differenza del passato allorché al fine della validità di un contratto atipico era sufficiente che non violasse alcuna norma di legge (Cass., 6 giugno 1967, n. 1248, in Mass. Foro it. 1967), la giurisprudenza più recente, nel condurre il giudizio di meritevolezza ex art. 1322, 2° comma, c.c., tenda ad esercitare anche in senso positivo il controllo sulla fattispecie contrattuale.
[122] Per una chiara e sintetica distinzione cfr. Torrente A.- Schlesinger P., Manuale di diritto privato, Milano, 2004, pag. 480
[123] V. Clerico G., “Minaccia di inadempienza contrattuale, rinegoziazione e forme di risarcimento”, in Rivista critica di diritto privato, 2004, pp. 279-280
[124] Cfr. Gallo P., voce Revisione del contratto, contenuta nel Digesto delle discipline privatistiche, vol. XVII, Torino, 1998
[125] V. Cesaro V. M., Conservazione e rinegoziazione dell’equilibrio contrattuale, Napoli, 2000
[126] Si pensi all’inflazione dei prezzi che colpì i paesi coinvolti nel secondo conflitto mondiale, condizione che incideva fortemente sugli equilibri finanziari dei contratti.
[127] La distinzione è quella proposta da Gentili A., op cit.
[128] V. M. Cesaro, Clausole di rinegoziazione e conservazione dell’equilibrio contrattuale, cit., 58 ss.; M. Costanza, Clausole di rinegoziazione e determinazione unilaterale del prezzo, in AA.VV., Inadempimento, adattamento, arbitrato. Patologie dei contratti e rimedi, Milano, 1992, 313-315.
[129] Macario, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli. 1996, p. 340, secondo cui “non può essere nulla per indeterminabilità dell’oggetto una pattuizione che, proprio per l’impossibilità di prevedere e quindi definire a priori i termini del rapporto (ovvero per la rinuncia delle parti a definirli), intende rinviare al futuro accordo la determinazione delle condizioni”, soluzione che, per l’autore, “non muta qualora l’intesa su presupposti e termini, in base ai quali dovrà avvenire la modificazione del contratto originario, appaia, prima facie, generica, per non avere le parti l’interesse a definire compiutamente i termini della rinegoziazione”.
[130] V. Cesaro V. M., op cit.
[131] Costanza, Clausole di rinegoziazione e determinazione unilaterale del prezzo, in Aa.Vv., Inadempimento, adattamento e arbitrato. Patologie dei contratti e rimedi. Diritto e prassi degli scambi internazionali, Milano, 1992, p. 314
[132] L’equivalenza soggettiva esprime la corrispondenza di valori delle prestazioni secondo la valutazione delle parti.
[133] Con estrema chiarezza già Nicolò, Alea, voce dell’Enc. dir., I, Milano, 1958, 1026: “bisogna esaminare se il tipo di contratto posto in essere, per il suo contenuto e per la sua funzione, non implichi di per sé che al momento del suo perfezionamento vi sia o vi debba essere la consapevolezza delle parti di affrontare un certo margine di rischio, collegato appunto all’eventuale verificarsi di situazioni di fatto e di vicende, economiche o di altra natura, che normalmente, o per lo meno non eccezionalmente, incidono sullo svolgimento di quel singolo tipo di rapporto e influiscono sul risultato economico che le parti vogliono conseguire”.
[134] V. Bianca M., Il contratto, Milano, 2000, pag. 492
[135] Vedi, sul punto, Traisci F.P., Sopravvenienze contrattuali e rinegoziazione nei sistemi di civil law e common law, Napoli, 2003, pag. 34 e ss.
[136] V. Sicchiero G. , op cit.
[137] La tesi è legata all’autorevolezza in materia di Posner, Economic Analysis of Law, Boston, 1973, 49 s. (il classico volume è ormai in quinta edizione, New York, 1998, 105 ss., mentre il saggio in cui la materia è stata esaustivamente trattata è a firma congiunta, Posner e Rosenfield, Impossibility and Related Doctrines in Contract Law: An Economic Analysis, in J. Legal Studies 6 (1977), 90 ss.).
[138] Nell’ambito di un attento studio sui risvolti giuseconomici dei “contratti incompleti”, cfr. da ultimo Bellantuono, I contratti incompleti fra economia e diritto, Padova, 2000, 140 ss, spec. 148 s.
[139] Cfr. Pardolesi, Tutela specifica e tutela per equivalente nella prospettiva dell’analisi economica del diritto, in Quadrimestre, 1988, 76; da ultimo, Id., in Cooter, Mattei, Monateri Pardolesi e Ulen, Il mercato delle regole. Analisi economica del diritto civile, Bologna, 1999, 227 ss.
[140] Può essere sufficiente, in questa sede, ricordare Speidel, Court-Imposed Price Adjustments Under Long-Term Supply Contracts, cit., 369; nonché Hillman, Court Adjustments of Long-Term Contracts: An Analysis Under Modern Contract Law, in Duke L.J., 1987, 1.
[141] Anche in questo caso, solo esemplificativamente: Schwartz, Relational Contracts in the Courts: An Analysis of Incomplete Agreements and Judicial Strategies, in J. Legal Studies 21 (1992), 271 ss.; nonché dello stesso a., Law and Economics: l’approccio alla teoria del contratto, in Riv. crit. dir. priv., 1996, 427, 446; Dawson, Judicial Revision of Frustrated Contracts, cit., 36 s.; Goldberg, Relational Contract, in The New Palgrave Dictionary of Economics and the Law, vol. 3, London-New York, 1998, 290; Eisenberg, Relational Contracts, in Good Faith and Fault in Contract Law, a cura di Beatson e Fiedman, Oxford, 1995, 291, 300; dal punto di vista del diritto inglese: McKendrick, ibid., 305, 333.
[142] Anche dopo la nota decisione ALCOA. Per più puntuali informazioni sugli sviluppi del dibattito post-ALCOA in ambiente di common law nordaricano, ci si permette di rinviare a Roppo, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli, 1996, 251 ss.
[143] Più ampiamente Bellantuono, I contratti incompleti fra economia e diritto, Padova, 2000, 115 ss.; una puntuale revisione della teoria ‘classica’ si legge già in Trimarchi, Commercial Impracticability in Contract Law: An Economic Analysis, Int. Rev. L.&Econ. 11 (1991), 63 ss.
[144] Rileva Costanza, Clausole di rinegoziazione e determinazione unilaterale del prezzo, in Aa.Vv., Inadempimento, adattamento e arbitrato. Patologie dei contratti e rimedi. Diritto e prassi degli scambi internazionali, Milano, 1992, p. 314, che le clausole di rinegoziazione, sotto il profilo dei presupposti operativi, non si distaccano dal sistema della reductio ad aequitatem (salvo che per il fatto che, a differenza della reductio la quale paralizza la domanda di risoluzione, la previsione di una clausola di rinegoziazione vale ad impedire che la risoluzione venga chiesta). L’autrice aggiunge, ancora, che mediante previsione di specifiche clausole rinegoziative, l’adeguamento del contratto alle sopravvenute circostanze potrebbe essere richiesto anche in assenza dei presupposti richiesti dall’artt. 1467 ss. c.c., “e ciò non per semplice e necessaria conseguenza del principio di autonomia privata, ma in ragione del principio che collega la rottura del rapporto contrattuale soltanto alle ipotesi in cui il mutamento delle circostanze contrattuali sarebbe tale da rendere inattuabili gli interessi delle parti”. A questo proposito viene richiamato il principio generale, recepito anche dalla Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale di cose mobili (art. 25), in virtù del quale lo scioglimento del contratto rappresenta un rimedio estremo e, dunque, impiegabile solo nel caso in cui venga meno la possibilità di attuare il rapporto in ragione degli interessi da soddisfare.
[145] Può essere sufficiente richiamare la più recente opera trattatistica sulla disciplina generale del contratto, Roppo, Il contratto, in Trattato di diritto privato, a cura di Iudica e Zatti, Milano, 2001, 1037. Per il valore che possono avere le classificazioni, necessarie a dare un ordine espositivo alla materia, è noto peraltro che, nelle impostazioni più classiche, le riflessioni in tema di presupposizione sono collegate alla trattazione degli elementi accidentali del contratto (in particolare, della condizione: cfr. Messineo, Il contratto in genere, 1, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da Cicu e Messineo, Milano, 1968, 204 ss.) ovvero ai vizi del consenso (in particolare, all’errore: cfr. Sacco [e De Nova], Il contratto, I, in Trattato di diritto civile, diretto da Sacco, Torino, 1993, 443 ss.).
[146] V. Gazzoni F., Manuale di diritto privato, Napoli, 2003, pag. 915. A proposito di questa disposizione, si è affermato che il principio di conservazione del contratto si combina con il principio dell’integrazione del contratto sancito dall’art. 1374 c.c., per cui, oltre alla volontà delle parti, alla determinazione del regolamento contrattuale concorrono anche le disposizioni normative (Galgano, Diritto civile e commerciale. Le obbligazioni e i contratti, II, 1, Padova, 2004, p. 420; cfr. anche Bianca, Diritto civile, Il contratto, 2000, p. 641). Partendo da una simile affermazione si potrebbe giungere alla seguente conclusione: tra le fonti di integrazione del contratto rientra anche la regola della buona fede nell’esecuzione del contratto (art. 1375 c.c. espressione delle norme di legge richiamate dall’art. 1374 c.c.); tra i diversi obblighi che sorgono ex bona fide, con riferimento ai contratti destinati a vivere per un lungo periodo, vi è anche quello di rinegoziare; in caso di nullità della sola clausola di rinegoziazione, il contratto potrebbe ugualmente restare in vita in quanto la clausola nulla verrebbe sostituita dall’obbligo legale di rinegoziazione (come rilevato dalla Cass., 18 ottobre 1980 n. 5610, in Mass. Foro it., 1980, la regola della correttezza e della buona fede, espressa tanto nell’art. 1337 c.c., quanto negli artt. 1175-1375 c.c., è norma imperativa “precettiva” o “positiva”, dettata a tutela ed a limitazione degli interessi privatistici nella formazione ed esecuzione dei contratti). Una simile soluzione, però, comporterebbe una notevole forzatura del dettato normativo (artt. 1419-1374 c.c.): non va dimenticato, però, che la soluzione apprestata dall’art. 1419, 2° comma, c.c. (finalizzato alla conservazione del contratto legalmente integrato da norme imperative), presuppone l’esistenza di una disciplina positiva del rapporto: si tratta di ipotesi in cui la legge determina imperativamente il contenuto del rapporto in modo tale che le disposizioni convenzionali eventualmente contrarie sono invalide ed inidonee a precluderne l’applicazione (Bianca, Diritto civile. Il contratto, Milano, 2000, p. 641; cfr. Cass., 11 giugno 1981, n. 3783, in Mass. Foro it., 1981: “L’art. 1419 comma 2 c.c., per il quale la nullità delle singole non importa la nullità del contratto, quando le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative, si riferisce all’ipotesi in cui specifiche disposizioni, oltre a comminare la nullità di determinate clausole contrattuali, ne impongano anche la sostituzione con una normativa legale, mentre tale disposizione non si applica qualora il legislatore, nello statuire la nullità di una clausola o di una pattuizione, non ne abbia espressamente prevista la sostituzione con una specifica norma imperativa”.
[147] C.M. Bianca, Il contratto, cit., p. 643; G. Benedetti, Il diritto comune dei contratti e degli atti unilaterali tra vivi a contenuto patrimoniale, cit., p. 59; N. Irti, L’ordine giuridico del mercato, cit., p. 70.
[148] Sui punti di contratto tra i due istituti, v. F. Galgano, op. ult. cit., p. 450 ss., il quale, dopo averne evidenziato i tratti di disciplina comuni relativi alla riconduzione ad equità, osserva che “anche gli effetti della rescissione rispetto ai terzi sono regolati (art. 1452) in modo corrispondente alla risoluzione”.
[149] V. G. Casella, La risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta, Torino, 2002; A. Di Majo, Eccessiva onerosità sopravvenuta e reductio ad aequitatem, in Corr. giur., 1992, p. 662 ss.; Id., La nozione di equilibrio nella tematica del contratto, cit., p. 8 ss., il quale osserva che “in pressocché tutti i sistemi giuridici (anche in quello di Common Law) non passano inosservate le sopravvenienze, che sono tali da alterare l’equilibrio contrattuale. In Common Law si ha riguardo alla volontà delle parti. Nella dottrina francese si ricorre all’istituto della “imprevision”. Nel nostro codice si è soliti fare riferimento alla risoluzione per eccessiva onerosità (art. 1467 ss.)”.
[150] La giurisprudenza ha ampliato l’ambito di applicazione dell’art. 1467 c.c., estendendolo a tutte le ipotesi in cui, al di fuori di una predeterminazione delle parti, avvenimenti straordinari e imprevedibili ritardino, senza colpa degli obbligati, l’esecuzione del contratto, e si verifichi una alterazione del rapporto di proporzionalità tra le reciproche prestazioni. Cfr. Cass., 11 novembre 1986, n. 6584, in Nuova giur. civ. comm., 1987, I, p. 677. Una specifica applicazione dell’istituto dell’eccessiva onerosità sopravvenuta, prevista dal legislatore, si può rinvenire nell’art. 1664 c.c. in tema di appalto (cfr. P. Tartaglia, Eccessiva onerosità ed appalto, Milano, 1983; O. Cagnasso, Appalto e sopravvivenza contrattuale, Milano, 1979; D. Rubino, Dell’appalto, in Commentario del codice civile, Scialoja-Branca, sub artt. 1655-1677, Bologna-Roma, 1982).
[151] Tuttavia, analogamente a quanto previsto in materia rescissoria, laddove sussistano i presupposti per l’applicabilità del rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, il legislatore accorda alla parte contro cui la risoluzione medesima è domandata di evitarla, offrendo di “modificare equamente le condizioni del contratto” (art. 1467, comma 3, c.c.). Il meccanismo della reductio è previsto anche per i contratti con obbligazioni di una sola parte, su domanda, in questo caso, del debitore (art. 1468 c.c.).
[152] R. Lanzillo, La proporzione fra le prestazioni, cit., p. 311; P. Perlingieri, Equilibrio normativo e principio di proporzionalità nei contratti, cit., p. 236, secondo cui “istituti quali la rescissione per lesione e la risoluzione per eccessiva onerosità si configurano come gli antesignani di una sia pur timida ed eccezionale necessità di evitare sproporzioni macroscopiche a favore di chi non le merita”.
[153] Ci si è chiesti se lo squilibrio dovuto a fenomeni inflattivi rientrasse o meno nel concetto di alea normale. Secondo l’attuale orientamento giurisprudenziale, la svalutazione monetaria può giustificare la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, qualora, ancorché non provocata da avvenimenti eccezionali, presenti caratteri di imprevedibilità e straordinarietà (Cass., 15 dicembre 1984, n. 6574, in Giust. civ., 1985, 1, p. 2794; Cass., 3 agosto 1990, n. 7833, in Giur. it., 1991, I, 1, c. 143).
[154] R. Lanzillo, op. ult. cit., p. 311, rileva che l’equilibrio che il regime della reductio ad aequitatem tende a ristabilire è proprio quello originariamente convenuto dalle parti. In giurisprudenza, v. Cass., 13 luglio 1984, n. 4114, in Rep. Foro it., 1984, voce Contratto in genere, n. 276; Cass., 9 ottobre 1989, n. 4023, in Giur. it., 1990, I, 1, c. 944; Cass., 8 settembre 1998, n. 8857, in Giust. civ. Mass., 1998, 1865.
[155] Il rimedio in esame non trova applicazione nemmeno nei contratti aleatori per loro natura (art. 1469 c.c.).
[156] R. Nicolò, voce Alea, in Enc. Dir., I, Milano, 1958, p. 1024 ss.; G. Scalfi, voce Alea, in Dig. IV ed., Sez. civ., I, Torino, 1987, p. 253 ss.; U.A. Salnitro, Contratti onerosi con prestazione incerta, Milano, 2003, p. 135 ss.; F. Delfini, Autonomia privata e rischio contrattuale, Milano, 1999, p. 195 ss.
[157] V. C. G. Terranova, L’eccessiva onerosità nei contratti, cit., p.233: “Gli istituti in esame non si prestano né ad applicazioni finalizzate al recupero al recupero di operazioni contrattuali compromesse, né ad un potere modificativo del giudice diretto ad attuare astratti criteri di equilibrio dello scambio contrattuale, il che provocherebbe un appiattimento dell’operazione contratto, privandola di ogni carattere di specificità e cioè del proprium della specifica operazione economica”. Secondo A. Di Majo, Nozione di equilibrio nella tematica del contratto, cit., p. 8 ss., “si tratta dunque di preservare il mantenimento dell’equilibrio contrattuale ma nei termini inizialmente convenuti dalle parti”. L’A., inoltre, evidenzia come, in presenza di sopravvenienze, i principi di diritto contrattuale europeo vadano “ben oltre”. Infatti, “nel caso di “mutamento di circostanze”, ove le parti non raggiungano un accordo per adeguare il contratto, il giudice può modificare il contratto in modo da distribuire tra le parti in maniera giusta ed equa le perdite e i vantaggi derivanti dal mutamento di circostanze (art. 6.111). Si tratta veramente di garantire un equilibrio contrattuale tale da sostituire quello eventualmente manchevole dettato dalle parti. Quasi paradossalmente si può dire che, in occasione del “mutamento di circostanze”, il contratto, in termini di equilibrio, venga ridefinito, se non altro sul piano di una equa distribuzione tra i vantaggi e le perdite”.
[158] Bianca, Diritto civile. Il contratto, Milano, 2000, p. 641
[159] V. Sicchiero G., op cit.