La libertà d’informazione e il diritto di cronaca
- La libertà di informazione nella Costituzione italiana: contenuti e limiti
Quando si parla di libertà di informazione, occorre ricordare che essa non corrisponde ad un diritto unitario, nè ad un insieme di diritti tra loro coerenti, ma si traduce, piuttosto, in una formula che congiuntamente allude ad esigenze diverse[1] .
Con tale espressione, infatti, si vuole identificare un triplice ordine di situazioni giuridiche connesse all’attività informativa e consistenti: nel diritto o nella libertà di comunicare e diffondere informazioni (componente attiva dell’informazione); nella libertà di ricevere informazioni, ovvero nel diritto alla rimozione degli ostacoli ingiustificati alla ricezione delle informazioni (componente passiva dell’informazione); e nel diritto o nella libertà di informarsi o di ricercare le informazioni[2].
In sintesi, il concetto di informazione è la risultante di tre distinti valori: il diritto di informare, il diritto di informarsi, e l‘inspectio che è quel comportamento attivo del cittadino uti singulus diretto ad acquisire notizie riguardanti in particolar modo la vita pubblica[3].
In tale contesto la stampa è venuta ad assumere una posizione sempre più rilevante sia per il ruolo istituzionale di informazione che le è proprio, sia per i contributi che essa ha cercato di portare.
In questa prospettiva, il diritto di informazione[4] è stato inizialmente considerato un sinonimo del diritto di cronaca; ma si tratta di un’impostazione riduttiva, non soltanto perché il fenomeno dell’informazione risulta assai più ampio e complesso, ma anche perché la problematica dei limiti diviene eccessivamente complessa, essendo circoscritta al rispetto del concomitante diritto delle persone ad essere informati[5].
A differenza della Costituzione tedesca però (il cui art. 5 afferma che ognuno ha il diritto di informarsi, senza essere impedito, da fonti accessibili a tutti) e di quanto previsto dalla normativa internazionale (l’art. 19 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo riconosce il diritto di ogni individuo di ricercare, di ricevere e di diffondere, senza limiti territoriali, le informazioni e le idee attraverso qualsiasi mezzo espressivo) la Costituzione italiana non contiene un espresso riconoscimento di tale diritto; tuttavia la stessa Corte costituzionale ha ribadito che l’interesse generale della collettività all’informazione è indirettamente protetto dalla normativa che riconosce la libertà di manifestazione del pensiero[6]: quasi fosse il risvolto del diritto di cronaca. Si è ritenuto, quindi, che sussistesse un diritto ad essere informati speculare a quello di informare cioè di dare informazioni
La tutela più forte e incisiva dell’attività giornalistica viene, quindi, dalla Corte costituzionale, che ha stabilito via via i principi, che il legislatore avrebbe dovuto tradurre in leggi
Solo in tempi più recenti si è consolidata una nozione più ampia del diritto di informazione, la quale, accanto all’originario diritto di cronaca, comprende altri profili del fenomeno comunicativo, diversi sia per quanto concerne il mezzo tecnico (si pensi alle più sofisticate tecnologie della comunicazione) , sia in relazione all’oggetto dell’informazione (pubblica, scientifica, banche dati).
L’informazione rappresenta,oggi, un fenomeno polivalente al pari della manifestazione del pensiero: entrambi si manifestano attraverso una pluralità di mezzi e possono racchiudere le più varie espressioni del pensiero umano.
Secondo questa prospettiva, appare rafforzato l’orientamento favorevole ad equiparare sotto il profilo della garanzia costituzionale la disciplina dell’informazione a quella della manifestazione del pensiero[7].
Entrambe sono contenuti all’interno dell’ampia e generale formulazione del primo comma dell’art. 21 cost. secondo il quale “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”[8].
Sono state, quindi, decisamente rigettate le posizioni che tendevano a distinguere i due fenomeni, nella considerazione che il loro oggetto era differente, dal momento che la informazione doveva ritenersi non propriamente manifestazione del proprio pensiero, ma soprattutto divulgazione del pensiero già espresso.
L’identificazione tra manifestazione del pensiero ed informazione non può, però, essere portata alle estreme conseguenze, sino a teorizzare una piena equiparazione anche in relazione ai limiti che i due diritti incontrano.
Se, infatti, in relazione alla manifestazione del pensiero, la maggioranza della dottrina e la giurisprudenza costituzionale hanno accolto le teorie individualistiche, che considerano la manifestazione del pensiero una libertà del singolo, e come tale assoluta; per quanto concerne il diritto di informazione sembra prevalere un’impostazione di tipo funzionalista, che valorizza la funzione sociale dell’informazione, anche in connessione con lo speculare diritto ad essere informati[9].
Il diritto di cronaca giornalistica in particolare, considerato tra i diritti pubblici soggettivi inerenti alla libertà di pensiero e di stampa riconosciuti dall’art. 21 Cost., consiste essenzialmente nel potere-dovere conferito al pubblicista di portare a conoscenza dei lettori fatti, notizie interessanti la vita associata in modo che il pubblico, esattamente informato, possa orientarsi meglio per esprimere un proprio giudizio sugli avvenimenti, trarne le debite conclusioni e, all’occasione, assicurare tutte quelle legittime iniziative per garantire il rispetto di quei principi giuridici e morali che sono alla base della comunità organizzata in un determinato momento storico[10].
Purtroppo, nell’ambito di tale finalità, non sono mancati sconfinamenti e sicché, ad un certo momento, si è posto il problema della individuazione dei limiti e quindi della definizione dell’ambito entro cui riguardare come legittimo l’esercizio del diritto dell’informazione.
Tale approccio di natura moderatamente funzionalista agevola il lavoro di bilanciamento tra i diritti contrapposti, in quanto consente che l’esigenza di tutelare la dignità umana e di garantire l’intimità della persona limiti i modi di formazione e di divulgazione dell’informazione.
La problematica dunque dei rapporti tra informazione, intimità ed onore non deve essere affrontata nel contesto dei limiti al diritto di informazione e di libera manifestazione del pensiero, bensì deve essere oggetto di un attento bilanciamento tra diritti e valori costituzionali[11].
Informazione, dignità e tutela della vita privata pur essendo suscettibili di entrare in contrasto con frequenza rappresentano valori direttamente riconducibili alla persona umana, hanno una comune matrice rappresentata dalla persona, della quale costituiscono tutti momenti essenziali per la formazione e lo sviluppo[12] .
Inoltre, trovano una diretta garanzia in diritti che la Costituzione qualifica come inviolabili o facenti parte dei principi supremi dell’ordine costituzionale (art.3,13,14,15,21 cost.):per cui non esiste la possibilità di stabilire in astratto una gerarchia.
Diviene, quindi, fondamentale un accorto uso del principio di proporzionalità, nel senso che la fruizione di un diritto ( ad esempio, di informazione) non si deve svolgere con modalità tali da comprimere “oltre misura ” (oltre ciò che è essenziale ed indispensabile per esercitare tale diritto) i diritti altrui (dignità , vita privata).
Con le sentenze del 23 Marzo 1968, n. 11, e del 4 Maggio 1970, n. 65, la Corte Costituzionale, stabilisce poi che di fronte alla libertà di pensiero, “non vi è pubblico interesse che possa giustificare limitazioni che non siano consentite dalla stessa Carta costituzionale”, e nella sentenza n. 120 del 1968, stabilisce in particolare che “la libertà di manifestazione del pensiero non può trovare limitazioni se non nelle disposizioni legislative dirette alla tutela di altri beni e interessi fatti oggetto di protezione costituzionale”.
La questione dei limiti, è quindi, molto ampia e non strettamente delineata.
In primo luogo, bisognerebbe determinare quando ci troviamo di fronte ad una manifestazione del pensiero e quando no. Sarebbe da respingere la tesi, secondo cui la manifestazione del pensiero è soltanto quella che tende a sollecitare, un’attività di solo pensiero, escludendo così, ogni manifestazione che costituisca un incitamento all’azione.
Non è affatto semplice, inoltre, definire quali possano essere i beni e gli interessi tutelati dalla Costituzione, che costituiscono i limiti certi alla libertà di manifestazione del pensiero, in quanto decisamente maggiori rispetto a quest’ultima. In assenza di indicazioni precise, il bilanciamento tra questi due fattori, è difficoltoso.
Occorrerà perciò, di volta in volta, valutare solo quegli interessi che si pongono in contrasto logico ed insanabile con la libertà di espressione.
In genere, la via che si preferisce percorrere, è quella dell’equilibrio, così da stabilire un rapporto equivalente tra libertà di espressione e altri interessi costituzionali[13].
I limiti possono essere di natura esplicita o implicita[14], e questi ultimi possono essere suddivisi, tra limiti di natura individuale, e limiti di natura collettiva o pubblicistica.
E’ un limite esplicito, il buon costume, menzionato espressamente nell’articolo 21 della Costituzione, anche se, non è chiara, la sua reale definizione[15].
La lettura del significato di buon costume oscilla tra una nozione civilistica ampia (articolo 1343 c.c.), quale limite alla liceità del contratto o altro atto negoziale che sia “contrario a quei principi ed esigenze etiche della coscienza morale collettiva che costituiscono la morale sociale, in quanto a essi uniforma il proprio comportamento la generalità delle persone corrette, di buona fede e sani principi, in un determinato momento e in un dato ambiente”[16]; e una nozione penalistica più ristretta, per cui il buon costume si limiterebbe a vietare gli atti osceni (articolo 527 c.p.), le pubblicazioni e gli spettacoli osceni (articolo 528 c.p.), dove osceno va inteso nel senso di contrario al pudore sessuale e alla pubblica decenza nella sfera sessuale.[17]
L’interpretazione del limite costituzionale dell’articolo 21, sembra prendere in riferimento, la nozione penalistica, quindi la più ristretta.
La scelta di questo riferimento, secondo la maggior parte dei critici, è stata dettata poiché una lettura troppo ampia di buon costume, finirebbe per svuotare di significato la libertà di espressione del pensiero, dato che consentirebbe di vietare ogni manifestazione contraria alle concezioni etiche della maggioranza, e di ostracizzare ogni manifestazione di un pensiero anticonformista[18].
In definitiva, al di là della forte contrapposizione tra individualisti e funzionalisti, è base concettuale comune, affermare che non sono ammissibili limiti alla libertà di manifestazione del pensiero, diversi da quelli fondati sulla stessa Costituzione.
Ci sono però, casi particolari, dove vengono fatte delle eccezioni. Alcune forme di manifestazioni del pensiero, non incontrano, o incontrano soltanto in misura minore, i limiti derivanti dalla tutela di altri beni costituzionalmente protetti. Ad esempio, la libertà di cronaca, gode di maggiori garanzie e minori limitazioni, rispetto alle comuni manifestazioni di pensiero.
Questo diritto, si estrinseca nella “libertà di dare e divulgare notizie, opinioni e commenti”[19].
Un giornalista, appellandosi all’articolo 51 del codice penale, secondo il quale “l’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità, esclude la punibilità”, tutela se stesso e il proprio lavoro, da eventuali sanzioni.
E’ però da valutare, l’importanza e la compatibilità dell’informazione che la stampa deve ai lettori, con il diritto alla riservatezza dei soggetti di cui si divulgano notizie[20]. Inoltre, la notiziabilità di un fatto si deve basare su tre criteri: la verità (controllo delle fonti), l’utilità sociale della notizia e la continenza.
Non essendo chiaro e oggettivo, il confine tra cosa è una semplice manifestazione del proprio pensiero, con relativa opinione personale, e cosa una pura narrazione di un fatto o di una notizia, risulta arduo e spinoso, cosa possa essere catalogabile sotto la voce diritto di cronaca, e cosa no.
In linea generale, ogni commento, ogni opinione, parte da un accadimento reale, quindi per ogni giornalista potrebbe essere lecito invocare il diritto di cronaca.
La sfumatura fondamentale per regolare questa situazione, è che il diritto di cronaca si caratterizza sostanzialmente come il diritto di raccontare notizie e pensieri, ma questi pensieri e opinioni devono essere prevalentemente altrui[21].
Il diritto di cronaca, tutela nella sua integrità, tutti e tre i versanti della libertà d’informazione, quello attivo, quello passivo e quello riflessivo.
Infatti tale diritto, si pone come crocevia di interessi spettanti il giornalista che ricerca e diffonde informazioni, da un lato, e il cittadino che legge o ascolta le notizie diffuse dai mezzi di comunicazione,dall’altro.
Il diritto di cronaca gode di una sorta di tutela privilegiata rispetto alle altre forme di manifestazione del pensiero, riconducibili all’articolo 21, in ragione della particolare e fondamentale importanza sociale che è attribuita nel nostro ordinamento, all’attività di diffusione di informazioni.
La titolarità di questo diritto, però non può essere limitata esclusivamente a favore del giornalista, ma deve essere estesa a tutti coloro che abitualmente, esprimono il loro pensiero attraverso la stampa o altri mezzi di informazione.
La peculiarità che stabilisce cosa debba essere tutelato dal diritto di cronaca, è che l’oggetto della notizia risulti di interesse per la generalità del pubblico.
Questa caratteristica specifica della notizia, verrà sottolineata, ed affiancata da altri principi imprescindibili, nella cosiddetta sentenza decalogo della Cassazione, n. 5259 del 18 Ottobre 1984[22].
- Il decalogo della Cassazione sui limiti del diritto di cronaca
Il diritto all’onore ed alla reputazione ed il diritto alla libera espressione e divulgazione del proprio pensiero[23] sono tutelati entrambi costituzionalmente.
Il diritto all’integrità morale della persona è tutelato dall’art. 2 Cost., mentre l’art. 21 Cost. sancisce il diritto a manifestare liberamente il proprio pensiero con le parole, lo scritto ed ogni altro mezzo di diffusione.
Il primo è riconducibile alla categoria dei diritti inviolabili dell’uomo, il secondo, fondamento e cardine dello Stato democratico, è ricollegabile alla categoria dei diritti pubblici soggettivi.
In caso di conflitto tra i due valori, si rende necessario stabilire entro quali limiti l’uno debba prevalere sull’altro, attribuendosi rilevanza, nel bilanciamento degli interessi in gioco, alle concrete modalità di esercizio del diritto ed alla concreta fattispecie, in quanto non sarebbe possibile proprio per la natura stessa del conflitto individuare un criterio astratto fondato esclusivamente sulla gerarchia dei valori [24].
La tematica del diritto di cronaca rappresenta dunque questione annosa e controversa sulla quale da anni giurisprudenza e dottrina cercano di pervenire ad una soluzione comune[25].
La necessità di un riordino strutturale della materia è tanto più evidente se si considera che attualmente i principi vigenti sono da ricollegare quasi esclusivamente ad elaborazioni giurisprudenziali, che, a partire dalla sentenza-decalogo[26], tentano di fissare criteri di carattere generale[27], compito questo non certo privo di ostacoli, stante l’impossibilità di formulare criteri valevoli erga omnes, ma di privilegiare di volta in volta l’interesse da considerarsi prevalente in relazione alla singola fattispecie[28].
Il conflitto tra diritto all’onore e alla reputazione e diritto di manifestare il proprio pensiero è stato risolto pertanto dalla giurisprudenza ponendo all’esercizio del diritto di cronaca tre limiti che lo rendono legittimo: l’utilità sociale dell’informazione; la verità (oggettiva o anche soltanto putativa, purché frutto d’un serio e diligente lavoro di ricerca) dei fatti esposti; e la forma civile dell’esposizione dei fatti.
In questi termini si è espressa la Cassazione con la sentenza n. 5259, del 1984[29], conosciuta anche come il “decalogo del giornalista”.
Questi tre requisiti quali cause di giustificazione del diritto di stampa o di informazione sono stati costantemente ribaditi dalla giurisprudenza[30], anche se sul piano letterale si sono sovente utilizzate espressioni differenti.
In alcune pronunce, ad esempio, anziché all’utilità sociale dell’informazione si è fatto riferimento all’“interesse pubblico alla conoscenza del fatto oggetto della cronaca”[31], oppure a “ragioni di pubblico interesse che richiedono che i fatti siano conosciuti”[32], oppure alla “pertinenza, ossia all’oggettivo interesse che essi rivestono per l’opinione pubblica”[33], oppure “alla rilevanza sociale”[34].
Pertanto, per poter pubblicare una notizia, non basta che questa sia vera o che sia sfuggita alla sfera strettamente privata del soggetto cui si riferisce: “una notizia può essere vera, può circolare da privato a privato, ma essa rimane privata”[35], con la conseguenza che la tutela della persona prevale sul diritto di cronaca; quando, però, la conoscenza del fatto può avere rilevanza pubblica, o può essere di interesse pubblico che sia diffusa, il diritto di cronaca prevale sulla tutela della riservatezza.
La giurisprudenza ha chiarito che l’interesse pubblico alla conoscenza di un fatto deve essere valutato “in relazione alla rilevanza dello stesso per la collettività e per la formazione della pubblica opinione”[36].
Nel caso in cui la cronaca riguardi un uomo pubblico, il pubblico interesse alla conoscenza dei fatti, relativi alla sua vita privata, è indubbiamente “più forte e penetrante”[37], dal momento che “anche il suo operato quale soggetto privato interessa il pubblico, nella misura in cui esso possa avere attitudine a incidere pregiudizievolmente sull’esercizio delle sue funzioni o sulla istituzione che egli rappresenta”[38].
Si è, inoltre, affermata la necessità che la notizia e l’interesse pubblico alla conoscenza di quest’ultima siano attuali: con la conseguenza che non costituisce legittimo esercizio del diritto di cronaca la pubblicazione di fatti già resi noti anni prima, salvo che eventi sopravvenuti rendano nuovamente attuali quei fatti, facendo sorgere un nuovo interesse pubblico alla divulgazione dell’informazione[39]; in questo modo l’attualità dell’interesse pubblico alla pubblicazione della notizia diviene requisito idoneo a garantire il cittadino dal rischio che, dietro lo schermo della libertà di cronaca, possano nascondersi attacchi diretti a colpi di martellanti ripubblicazioni, all’onore ed alla reputazione del cittadino, non destinati a soddisfare alcuna utilità sociale[40].
Per ciò che concerne, invece, il requisito della forma civile dell’esposizione dei fatti, nella sentenza della Cassazione del 1984 si è chiarito che la forma della cronaca non è civile non soltanto quando è eccedente rispetto allo scopo informativo da conseguire o difetta di serenità, o comunque calpesta quel minimo di dignità cui ogni persona ha sempre diritto, ma anche quando non è improntata a leale chiarezza.
In altre pronunce si è fatto riferimento alla necessità che l’esposizione debba avvenire misuratamente, ossia debba essere contenuta in spazi strettamente necessari all’esposizione[41], oppure si è richiesto il rispetto della correttezza formale dei dati[42], oppure che la divulgazione debba avvenire in termini di adeguatezza[43], oppure che la notizia sia esposta in forma misurata e contenuta[44]
La continenza formale, viene definita come il requisito secondo il quale l’esposizione dei fatti deve avvenire misuratamente.
Si è, inoltre, osservato che il concetto di continenza formale deve essere interpretato in senso relativo, con la conseguenza che le espressioni adoperate nella narrazione dei fatti non si possono fondare su parametri universali ed oggettivi, sicché la continenza formale deve essere verificata in stretta aderenza al contesto nel quale deve operare[45].
Per quanto riguarda il requisito della verità dei fatti esposti[46] deve intendersi la sostanziale corrispondenza (adequatio) tra fatti come sono accaduti (res gestae) e i fatti come sono narrati (historia rerum gestarum).
Solo la verità come correlazione rigorosa tra il fatto e la notizia soddisfa alle esigenze della informazione e riporta l’azione nel campo di operatività dell’art. 51 c. p., rendendo non punibile (nel concorso dei requisiti della pertinenza e della continenza) l’eventuale lesione della reputazione altrui[47].
L’orientamento della giurisprudenza prevalente ritiene, comunque, che il requisito della verità non debba essere interpretato in maniera troppo rigorosa, dal momento che, in alcuni casi, assume rilievo anche l’errore: l’eventuale discrepanza tra il fatto narrato e quello effettivamente accaduto non esclude che possa essere invocata l’esimente, anche putativa, dell’esercizio del diritto di cronaca, quando colui che ha divulgato la notizia, pur avendo compiutamente adempiuto il dovere di controllo delle fonti da cui la ha appresa, abbia una percezione erronea della realtà[48].
Quindi, assume rilievo anche la verità putativa, tuttavia: la prova dell’errore scriminante in materia di esercizio putativo del diritto di cronaca deve vertere sul fatto e cioè sulla verità della notizia, non sull’attendibilità della fonte di informazione, dal momento che il giornalista può essere esentato dall’aver pubblicato una notizia non vera solo dimostrando di averne svolto il controllo, e non per l’affidamento riposto in buona fede sulla fonte[49].
2.1 Profili costituzionali dell’exceptio veritatis e del diritto di cronaca
Attualmente si ritiene ormai anacronistico pretendere che la verità dei fatti narrati venga ancora intesa in modo assoluto e totalizzante, ma al contrario al giornalista deve essere lasciata anche la possibilità di pubblicare notizie che posseggano soltanto un certo grado di probabilità di aderenza al fatto storico accaduto.
La soluzione prospettata sembra porsi però in contrasto con gli ormai consolidati orientamenti giurisprudenziali in materia, dai quali è possibile desumere che la verità del fatto narrato rimane a tutt’oggi un elemento strutturale fondamentale per il corretto esercizio del diritto di cronaca.
Lo hanno affermato si ribadisce le sezioni unite con sentenza del 1984, intervenute per dirimere la controversia allora sorta tra un orientamento liberale, particolarmente attento alle esigenze di celerità ed efficienza dell’attività giornalistica, e uno più rigorista, in cui si stabiliva che per vedersi riconosciuta la scriminante del diritto di cronaca, il giornalista deve riferire un fatto oggettivamente vero.
In senso conforme pronunce successive della stessa Corte, in cui si evince l’impossibilità di sostituire il criterio della verità oggettiva con quello della veridicità o verosimiglianza dei fatti narrati, poiché solo la rappresentazione fedele nel pensiero e nella parola ha valore scriminante.
Anche se non sono mancate voci tese ad evidenziare le notevoli difficoltà in cui incorre il giornalista nell’accertarsi della verità di una notizia, si è però replicato come, qualora la verità venga degradata a verosimiglianza o credibilità, il rischio sia di riservare alla stampa un’immunità praticamente senza limiti.
Il problema è di intendere correttamente la nozione di verità della notizia e, come osserva la dottrina, se il diritto di cronaca ha natura di causa di giustificazione, la verità non può che essere intesa in senso rigorosamente oggettivo, mentre i criteri della verosimiglianza o credibilità potranno al più valere per dimostrare la buona fede del cronista.
È dunque importante distinguere chiaramente i limiti oggettivi del diritto di cronaca da situazioni che rilevano esclusivamente sul piano psicologico.
Al di fuori dei casi in cui si rende applicabile la scriminante del diritto di cronaca sotto il profilo putativo, il requisito della verità della notizia soffre comunque alcune eccezioni.
Un primo temperamento è rappresentato dall’obbligo, gravante sul giudice di merito, di procedere, prima ancora di accertare i presupposti della causa di giustificazione, ad un’indagine circa l’idoneità della notizia a ledere il buon nome e la reputazione del terzo[50].
Il limite della verità oggettiva poi non è violato nel caso di errori o inesattezze marginali che incidono su semplici modalità del fatto narrato senza modificarne essenzialmente la struttura[51].
Si evince infine che, ai fini dell’accertamento della sussistenza dell’esimente dell’esercizio del dirito di cronaca e l’osservanza dei limiti del medesimo, bisogna avere riguardo al momento in cui la notizia viene diffusa e non già a quanto venga accertato in un secondo momento, purché ovviamente la discrepanza successivamente accertata tra fatto narrato e fatto realmente accaduto non sia il frutto di un inadeguato controllo delle notizie da parte del giornalista e non sia, quindi, incolpevole la iniziale percezione difettosa o erronea da parte sua della realtà[52]. Queste dunque le uniche eccezioni riconosciute dalla giurisprudenza che impone al giornalista, ai fini dell’operatività dell’art. 51 c.p., di riportare una notizia obiettivamente vera, regola che deve essere scrupolosamente osservata e che non può essere aggirata né per mezzo di espressioni dubitative né facendo ricorso ad ipotesi alternative né accostando o correlando fatti obiettivamente veri.
La tutela differenziata e più favorevole offerta dalla giurisprudenza al diritto di cronaca sarebbe dunque da individuare in una particolare interpretazione della “exceptio veritatis” .
La giurisprudenza, non sollevando di regola l’eccezione di legittimità costituzionale della norma, ricorre all’art. 51 c.p. ritenendo che, se l’attività giornalistica rispetta i requisiti indicati costituisce esercizio di un diritto.
Tale interpretazione giurisprudenziale, arriva ad una verità inconfutabile e che spiega il meccanismo di bilanciamento tra libera manifestazione del pensiero compresi i suoi corollari e gli altri beni giuridici costituzionali, che da essa possono essere lesi. La libera manifestazione del pensiero non può essere, infatti, limitata od esclusa in nome della tutela dell’onore individuale, ogniqualvolta nel bilanciamento di interessi saranno privilegiate le sole informazioni di pubblico interesse (cioè socialmente rilevanti) che vengano correttamente divulgate dal cronista.
L’ottica del bilanciamento tra beni giuridici di rilevanza costituzionale non è, però, pacifica in dottrina, infatti, la stessa dottrina, nell’individuare i limiti del diritto di cronaca, si muove all’interno della categoria dei limiti della norma penale, dallo stesso autore teorizzata, secondo cui il diritto di cronaca troverebbe un limite di carattere logico[53].
Secondo la “teoria dei limiti logici” alla libertà di stampa, che ha largamente influenzato sia l’elaborazione dottrinale che quella giurisprudenziale, e che si colloca nell’alveo della concezione funzionale del diritto di manifestazione del pensiero, la libertà di stampa troverebbe un limite, oltre che nelle ipotesi espressamente previste dal legislatore ordinario in quanto non incompatibili con il principio di libertà e comunque nell’ambito dei principi desumibili da altre norme costituzionali, anche nella natura dei diritti in concreto esercitabili attraverso la stampa. Secondo tale teoria quella di stampa si concretizza in tre libertà fondamentali: quella di opinione, quella di creazione e quella di cronaca, e trova giustificazione nella propria funzione di orientamento del pensiero altrui.
Limite logico essenziale, in particolare della libertà di cronaca e di opinione, è rappresentato dalla verità oggettiva, ma si sostiene anche soggettiva, intesa quest’ultima come verosimiglianza dell’addebito lesivo.
Per alcuni, non sarebbe invece, di per sé, limite logico essenziale l’interesse sociale alla pubblicazione della notizia perché non può dirsi incompatibile con il diritto di cronaca la pubblicazione di notizie che interessino solo poche persone[54] ma tale limite viene invece riconosciuto da chi più autorevolmente rappresenta questa posizione, perché la libertà dell’informazione deve essere garantita in quanto funzionale all’esercizio di interessi costituzionalmente garantiti, quale quello alla libera formazione delle opinioni[55].
Ma la teorica suesposta non sembra, essere aderente al dato legislativo costituzionale, sia perché conduce a restringere il contenuto di un diritto costituzionalmente protetto non in base ad altri principi, espressamente od implicitamente enunciati nella Costituzione, sia perché fa riferimento a criteri pre-giuridici, che possono in teoria non corrispondere al diritto positivo[56].
La Costituzione, in altri termini, individuerebbe solo i rapporti e le interazioni tra i beni giuridici ma non spiega come, in quali circostanze e con quali modalità un determinato bene prevale su di un altro, anch’esso di rilevanza costituzionale.
Questo è il punto debole della teoria dei limiti costituzionali, in quanto tenta di individuare questi limiti al diritto di cronaca nella Costituzione, la quale, al contrario, fornisce solo un quadro generale dei rapporti dinamici tra beni in gioco.
La teoria dei limiti logici non perde, però, di valore se la si intende correttamente e cioè nel senso che i limiti del diritto di cronaca non devono essere rintracciati nella Costituzione, bensì nella legge ordinaria, perciò ne deriva che i limiti non sono di natura logica, ma normativa.
Tale soluzione, altresì, pare obbligata anche dal fatto che la Costituzione non tutela, almeno espressamente, il bene onore, dunque, non può, allo stesso modo, costituire o prevedere un limite normativo, per giunta, espresso.
Il limite normativo, secondo la ricostruzione è da rinvenire nello stesso art. 596 c.p.
Nell’art. 596 commi 1 e 2, si trovano infatti, sia il limite della verità dell’addebito, sia quello relativo all’interesse sociale della notizia.
Quest’ultimo limite è ricavabile proprio dalla non punibilità del fatto (vero e, di conseguenza, scriminato per exceptio veritatis) se riferito ad un pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni o se da questo si apre o è già in corso un procedimento penale.
Questa ricostruzione permette, inoltre, anche di individuare l’ultimo limite del diritto di cronaca (la continenza), ovvero il fatto che il giornalista debba utilizzare termini consoni, corretti, che non trascendano nella contumelia o in attacchi personali. Questo ulteriore limite lo si ricava dall’ultimo comma dell’art. 596 che così dispone: “se la verità del fatto è provata o se per esso la persona, a cui il fatto è attribuito, è per esso condannata dopo l’attribuzione del fatto medesimo, l’autore dell’imputazione non è punibile, salvo che i modi usati non rendano per se stessi applicabili le disposizioni dell’art. 594 comma 1, ovvero dell’art. 595 comma 1”.
Dunque, quest’ultimo comma fa chiarezza anche circa la fonte normativa del limite della continenza proprio perché si fa espresso riferimento ai modi usati ed alle espressioni che non rendono per se stessi applicabili i delitti di ingiuria e diffamazione.
2.2 La verità anche putativa dell’addebito
L’esimente putativa dell’esercizio del diritto di cronaca è configurabile se il giornalista usa legittimamente le fonti informative mediante l’esame, il controllo e la verifica dei fatti che ne costituiscono il contenuto, offrendo la prova della cura e della cautela da lui poste negli accertamenti svolti per vincere ogni dubbio e incertezza prospettabili in ordine alla verità sostanziale dei fatti[57].
Si ritiene che il requisito della verità debba essere inteso in senso relativo, dovendo investire il nucleo della notizia: in tema di diffamazione a mezzo stampa, per l’operatività della causa di giustificazione di cui all’art. 51 c. p. anche in termini di putatività ex art. 59, ult. comma, c. p., è necessario che la verità oggettiva dei fatti, intesa come rigorosa corrispondenza alla realtà, sia rispettata per tutti quegli elementi che costituiscono l’essenza e la sostanza dell’intero contenuto informativo della notizia riportata.
I dati superflui, insignificanti ovvero irrilevanti, ancorché imprecisi, in quanto non decisivi né determinanti, cioè capaci da soli di immutare, alterare, modificare la verità oggettiva della notizia, non possono essere presi in considerazione, per ritenere valicati i limiti dell’esercizio del diritto di informazione ed escludere l’operatività della causa di giustificazione[58].
Inoltre, si afferma che la circostanza in cui una notizia sia stata riferita in forma dubitativa non sia idonea ad escludere l’idoneità a ledere l’altrui reputazione: anche le espressioni dubitative, come quelle insinuanti, allusive, sottintese, ambigue, suggestionanti, possono, infatti, essere idonee ad integrare il reato di diffamazione, quando, per il modo con cui sono poste all’attenzione del lettore, fanno sorgere in quest’ultimo un atteggiarsi della mente favorevole a ritenere l’effettiva rispondenza a verità dei fatti narrati[59].
Comunque, la verità della notizia deve essere accertata con riferimento al momento in cui essa viene diffusa: la forza lesiva della reputazione contenuta in una notizia non va individuata nel contorno, anche se censurabile (per via di un abuso di immagini, appellativi e illazioni) ma al nucleo della notizia stessa, la quale deve ritenersi lecita se all’epoca dei fatti era vera e verificata[60].
La regola generale poi vuole che il giornalista, in caso di pubblicazione di una notizia non vera, possa sempre legittimamente invocare l’esercizio putativo del diritto secondo il disposto contenuto nella prima parte dell’art. 59, ultimo comma, c.p.
La giurisprudenza si è sempre dimostrata restia a dare rilievo all’errore determinato da colpa ed ha assunto una linea molto restrittiva incline a riconoscere l’esimente putativa nel solo caso di errore incolpevole[61].
Ciò significa che l’affidamento riposto in buona fede nella fonte di informazione non rileva da sola come causa di giustificazione, gravando sul cronista l’obbligo di controllare, esaminare e verificare la fonte di provenienza della notizia, per assicurarsi della sua verità e solo in caso di esito positivo a tale scrupoloso accertamento potrà valutarsi l’attendibilità della notizia in termini di buona fede[62].
Va rilevato, come nell’ipotesi riferita non si configuri l’onere di fornire una prova in senso tecnico, contrario ai più elementari principi del vigente ordinamento giuridico-penale, quanto un onere di allegazione, consistente nell’espletamento di quel minimo di attività di collaborazione con l’ufficio, diretto a fornire le indicazioni necessarie all’accertamento richiesto[63], mentre il giudice di merito dovrà farsi carico di verificare se l’autore della notizia abbia o meno effettuato tale controllo sulla fonte originaria.
La ragione di tale rigore risiede principalmente nell’inesistenza di una fattispecie diffamatoria colposa, che determinerebbe di fatto una prevalenza del diritto di cronaca sul diritto al rispetto della reputazione e della personalità altrui, in contrasto, oltre che con i principi costituzionali in materia, anche i più generali principi ordinamentali della professione[64], con conseguente ed inevitabile impunità di condotte antigiuridiche.
Nello stesso tempo è evidente tuttavia come la soluzione adottata contrasti con il dato normativo, privandolo di ogni significato nel senso che, in concreto, si degrada la fattispecie diffamatoria a reato colposo e si distorce l’elemento psicologico, radicandolo nella colpa, mentre la responsabilità viene a coincidere con la violazione di regole precauzionali[65].
Una soluzione del problema, prospettata da una parte della dottrina[66], capace di soddisfare nel contempo la reale protezione della personalità umana e il rispetto del principio della legalità formale, potrebbe essere raggiunta con il far assurgere a requisito della scriminante de quo, quale valore sostitutivo della verità oggettiva, il diligente comportamento del giornalista volto all’accertamento di quella verità, tutte le volte che la notizia si sia rilevata successivamente falsa.
Ciò nonostante l’orientamento consolidato rimane nel senso di ritenere che solo lo svolgimento di controlli seri in merito alla verità del fatto narrato vale ad escludere la responsabilità del suo autore nell’ipotesi in cui la notizia riportata non corrisponda al fatto storico accaduto.
Il presupposto logico di tale impostazione risiede nell’opinione che non esistono fonti informative privilegiate o qualificate il cui vaglio, in un contesto di credibilità professionale o istituzionale, possa esaurire il compito di verifica del giornalista sì da esimerlo da responsabilità.
2.3 L’interesse sociale alla notizia: tra onore e riservatezza
Il secondo dei limiti del diritto di cronaca è quello relativo all’interesse sociale della notizia. L’esistenza di tale limite si giustifica, infatti, perché, laddove la notizia riguardi esclusivamente la sfera privata del singolo, non può essere tutelata sotto il profilo del diritto di cronaca proprio perché si porrebbe in contrasto con la tutela del bene riservatezza che, in assenza di una utilità sociale della notizia stessa, prevale sul diritto di cronaca.
Quanto alla pertinenza, si deve segnalare la sua sostanziale indeterminatezza, essendo difficile stabilire quando un determinato avvenimento interessi o meno la generalità dei consociati.
Tale indeterminatezza deriva, dalla non chiara individuazione del bene giuridico che si intende tutelare, quando si richiede che la notizia debba rivestire un interesse pubblico.
Se si considera che non posseggono il requisito della pertinenza quei fatti che riguardano la sfera intima della persona, ne consegue che il limite in discorso del diritto di cronaca non protegge il bene dell’onore, bensì un altro bene, che spesso non è stato sufficientemente distinto dal primo, e cioè quello della riservatezza[67].
La giurisprudenza, attraverso il limite della pertinenza il quale conduce a non far rientrare nei limiti del diritto di cronaca fatti attinenti alla vita privata va a tutelare non l’onore, ma un distinto bene giuridico, quale la vita privata.
Tale atteggiamento, se poteva essere giustificato prima del 1974, non appare del tutto coerente dopo che il legislatore ha introdotto un’autonoma fattispecie di indiscrezione, ovvero l’art. 615-bis c.p., in parte sulla falsariga del par. 145 del c.d. Alternativ-Entwurf[68], che prevedeva un vero e proprio Indiskretionsdelikt, del tutto distinto dalle offese all’onore.
Quest’accostamento tra la fattispecie italiana e quella tedesca sembra, però, non essere del tutto calzante perché, ad un più attento esame, l’art. 615-bis c.p., non appare costituire un vero e proprio delitto di indiscrezione, in quanto troppo ancorato alla tutela del domicilio di cui costituisce, in sostanza, un’estensione. Proprio questa circostanza, nonché la ridotta incidenza nella concreta prassi giurisprudenziale della norma in questione, spiegano allora perché la giurisprudenza continui ad utilizzare, quale limite al diritto di cronaca l’interesse sociale della notizia, evidentemente perché si rende conto che, mancando nel nostro ordinamento un autonomo Indiskretionsdelikt, è giocoforza supplire alla carenza legislativa attraverso una tutela giurisprudenziale più estesa della riservatezza.
2.4 La correttezza formale dell’esposizione ( c.d. continenza)
Il terzo requisito al quale viene ancorato il legittimo esercizio del diritto di cronaca è quello della continenza.
Tale limite equivale a moderazione, proporzione, misura in relazione non al contenuto ma alle modalità espositive della notizia[69].
Può così sostenersi, che il limite della continenza è superato tutte le volte che la forma ed il modo della rappresentazione del fatto sia eccedente rispetto alla funzione di divulgazione delle notiz[70], per la presenza di un contenuto di per sé superfluamente lesivo della reputazione altrui, indipendentemente dalla verità della notizia, e non funzionale o, addirittura, antitetico allo scopo informativo[71].
Per verificare che sia stato rispettato il limite in esame non sembra però adeguato considerare il solo testo letterale dell’articolo, ma la valutazione deve estendersi al complesso del veicolo informativo, costituito, oltre che dal testo, dal titolo, dalle immagini, dagli appellativi, dalle illazioni, dal contorno ed, in sintesi, al modo complessivo di presentazione della notizia[72].
Si tratta di un limite di non facile apprezzamento, caratterizzato da un quantum di indeterminatezza che influisce sulla corretta applicazione dello stesso.
Tale limite, troverebbe la sua fonte nell’art. 596 ultimo comma c.p., ma quest’assunto non influisce sulla critiche di indeterminatezza che ad esso possono essere mosse.
La giurisprudenza richiede, che l’esposizione dei fatti non deve trasmodare in una critica serrata, nella contumelia, negli attacchi personali, ma, per particolari materie, come la critica politica, sindacale ecc., giunge ad ammettere forme di cronaca più veementi.
In una simile situazione il principio di legalità ed il suo corollario della precisione della fattispecie entrano in profonda crisi, infatti, in queste ipotesi è il giudice che si sostituisce al legislatore nell’individuare i margini della fattispecie e l’ambito di operatività.
Ne è utile sostenere che un margine maggiore di indeterminatezza sarebbe consentito dal fatto che, essendo il diritto di cronaca afferente ad una causa di giustificazione, ed essendo quest’ultima non una norma penale, ma una norma generale dell’ordinamento, non sarebbe soggetta al principio di stretta legalità. Infatti l’esigenza di certezza riguarda tutte le norme, sia penali e sia extrapenali, ed anche quelle riconducibili nell’alveo dell’antigiuridicità[73].
Dunque il requisito della continenza del linguaggio non può intendersi in modo rigido e statico, essendo, per contro, un parametro elastico e relativo, che deve essere adattato ai singoli casi e concretamente riempito di contenuto in funzione del particolare ambito cui si riferiscono le affermazioni utilizzate[74]. Con la conseguenza che, in determinati contesti caratterizzati dalla contrapposizione polemica di punti di vista diversi, sostenuti con passione e con veemenza, il linguaggio assume caratteristiche espressive e tonalità molto distanti da quelle proprie ordinarie forme civili di comunicazione[75].
La moderazione, la proporzione e la misura, connesse al concetto di continenza, non possono dunque intendersi in senso assoluto, non essendo vietati coloriture o toni aspri e polemici rientranti nel costume e termini oggettivamente offensivi che non abbiano equivalenti e non siano sovrabbondanti ai fini del concetto da esprimere[76].
Anche perché il giornalista è spesso portato a colpire l’attenzione del pubblico, a suscitarne l’interesse, ad indurlo a seguirlo nei suoi commenti e nelle sue tesi di fondo: quindi usare toni ed espressioni che siano atti al riguardo e che possono essere, a seconda dei casi, suadenti, suggestivi, ironici, mordaci, di valore ecc., e nei quali si rispecchiano, da un lato, la sua personalità e la sua professionalità, e, dall’altro, anche il linguaggio corrente con i termini invalsi ed accettati nella comune polemica, specialmente in determinati settori ed ambienti, con una conseguente vera e propria desensibilizzazione del significato offensivo di talune espressioni[77].
Entro il panorama così delineato, appare pertanto evidente che l’indagine sul carattere diffamatorio di un’espressione, comporta la necessità di risalire al significato da questa assunto in quel contesto spazio-temporale in cui la stessa è stata esplicitata.
Va altresì tenuto presente che il requisito della continenza viene generalmente valutato con maggiore benevolenza nell’ipotesi di esercizio del diritto di critica.
In questo caso, infatti, si ritiene che la valutazione della correttezza e della civiltà delle espressioni usate vada attenuata dalla necessità, connaturata alla natura della critica, di esprimere le proprie opinioni e la propria interpretazione personale dei fatti, in relazione ai quali sono da ritenersi legittime anche espressioni astrattamente offensive e soggettivamente sgradite alla persona cui sono riferite.
Con riguardo, invece, all’esercizio del diritto di cronaca i limiti fissati dalla giurisprudenza sono meno ampi e sono soggetti ad una valutazione più rigida rispetto a quella praticata per il diritto di critica; anche se ciò, ovviamente, non comporta che il linguaggio della cronaca debba essere necessariamente grigio e occulto[78].
Infatti si ammette che nella cronaca la narrazione dei fatti possa accompagnarsi all’uso di espressioni ironiche[79] o, nel caso della cronaca giudiziaria, che il giornalista possa utilizzare toni aspri o enfatici se questi appaiono in linea con gli schemi ed il gergo del giornalismo giudiziario e non viene distorto il contenuto veridico della notizia[80].
In estrema sintesi è ben possibile l’utilizzo di toni duri e veementi, a condizione che le frasi riportate, pur astrattamente configurabili come diffamatorie, siano funzionalmente correlate e strettamente connesse ai fatti oggetto della narrazione o della critica e non trascendono in contumelie gratuite ed ingiustificate[81].
[1] L’informazione, intesa quale strumento privilegiato per rendere pubbliche determinate notizie, trova il momento più elevato di esplicazione nell’attività giornalistica. I mass media, per la strepitosa forza espansiva e diffusiva che hanno assunto negli ultimi anni, pongono rilevanti problemi di contemperamento e bilanciamento degli interessi con cui volta per volta vengono a scontrarsi. Su questo sfondo si sono sviluppati i dibattiti più accesi e combattuti tra la dottrina e la giurisprudenza , tesi ad indicare i limiti che il diritto di informare incontra in uno Stato di diritto, fondato sulla preminente rilevanza che i diritti della personalità trovano nel nostro ordinamento: la loro incondizionata tutela fornita dalla Carta costituzionale è la dimostrazione di tale assunto.
[2] Aa.Vv. Libertà d’informazione, Torino, 1979.
[3] Senonché, in concomitanza con l’evoluzione del diritto dell’informazione che, scandisce le tappe della sempre crescente partecipazione del cittadino alla vita democratica, si è, purtroppo verificato nel paese, come ricordato dianzi, un sempre più vasto e penetrante deterioramento dei valori politici e sociali sicché le vicende che potevano interessare l’informazione e quindi i cittadini portatori del diritto di essere informati, divenivano sempre più numerose e soprattutto più problematiche.
[4] Barile P. e Grassi S., Informazione (libertà di) in App. Nss. Dig. It., Torino 1983.
[5] Pollack S., Diritto di cronaca, Milano 2005.
[6] La Corte Costituzionale, nella sentenza del 4 Febbraio 1965, n. 9, individua inequivocabilmente nella libertà di manifestazione del pensiero, una delle fondamentali caratteristiche del nostro ordinamento democratico: “Non è quindi la democrazia il fondamento e, con ciò stesso, il limite di tale libertà; ma è questa libertà a caratterizzare la nostra democrazia”. Ne consegue che la Repubblica, dovrebbe incentivare al massimo, la creazione di quanto più maggiori disponibilità, per la libera circolazione delle notizie e delle idee. Il riconoscimento per tutti, da parte della Corte Costituzionale, della libertà di manifestare il proprio pensiero con ogni mezzo, non può però significare, “che tutti debbano avere, in fatto, la materiale disponibilità di tutti i mezzi di diffusione, ma vuol dire, più realisticamente, che a tutti, la legge deve garantire la giuridica possibilità di usarne e di accedervi, con le modalità ed entro i limiti resi eventualmente necessari dalle peculiari caratteristiche dei singoli mezzi, o della esigenza di assicurare l’armonica coesistenza del pari diritto di ciascuno, o della tutela di altri interessi costituzionalmente apprezzabili”. Sarebbe infatti inverosimile pensare che qualunque individuo, possa scrivere e dire la propria, in ogni momento, su qualsivoglia testata, ma “l’interesse generale di una corretta ed esauriente informazione, in un regime di libera democrazia, deve implicare una pluralità di fonti di informazione, un libero accesso alle medesime, un’assenza di ingiustificati ostacoli legali, anche temporanei, ed una circolazione diffusa delle notizie e delle idee.
[7] Barile P., Libertà di manifestazione del pensiero, in Enc. Dir., XXIV, Milano 174.
[8] La critica che viene mossa all’ articolo 21 della nostra Costituzione, quindi, non è tanto quella che tende a sottolineare uno scarso interesse in riferimento ai temi dell’informazione, quanto quella di rivolgersi prevalentemente all’indietro, di essere sbilanciato a favore di una visione retrospettiva, e in non prospettiva della libertà di manifestazione del pensiero. Cfr. Chiola C., L’informazione nella Costituzione, Padova 1973.
[9] La stessa Corte costituzionale non ha potuto evitare di affermare che la stampa deve assolvere alla “ funzione sociale che le è propria,di offrire cioè al pubblico informazioni obiettive” (sentenza n.105/72 e n.86/74).
[10] Pace A., Petrangeli F., Diritto di cronaca e di critica, in Enc. Dir,, Milano 2002 338 ss.
[11] L’esigenza di un bilanciamento si pone con frequenza nei moderni sistemi costituzionali dal momento che è assai difficile che la tutela di una posizione soggettiva si realizzi utilizzando una sola disposizione costituzionale ovvero facendo riferimento ad un unico diritto. In genere, per individuare la norma applicabile si rende necessario realizzare una ponderazione tra i differenti principi in gioco: la quale deve avvenire come sostiene una consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale in aderenza ai criteri di ragionevolezza e di proporzionalità. Perché se è vero che l’informazione può invadere abusivamente la sfera privata delle persone, è altrettanto possibile che un’interpretazione troppo rigida ed astratta del diritto ad una vita privata potrebbe rappresentare un rischio grave al libero dispiegarsi del diritto di libertà di manifestazione del pensiero. Cfr. Melchionda A., Pascuzzi G., Diritto di cronaca e tutela dell’onore: la riforma sulla disciplina della diffamazione a mezzo stampa, Trento 2005.
[12] Bevere A., Il diritto di informazione e i diritti della persona: il conflitto della libertà di pensiero con l’onore, la riservatezza, l’identità personale, Milano 2006.
[13] Occorrerà sempre, un giudizio di comparazione del valore, tra i due interessi costituzionali che si trovano in competizione. Questa ponderazione tra valori contrapposti è affidata alla discrezionalità dei legislatori nazionali e regionali, alla Corte Costituzionale, e agli organi giurisdizionali, e tale giudizio dovrà rifarsi ad un unico canone, quello della ragionevolezza.
[14] Fanno parte dei limiti impliciti, di natura più strettamente individuale, tutti quelli legati ai diritti della personalità: il diritto alla libertà sessuale, all’oblio, all’identità personale, all’obiezione di coscienza, alla tutela dell’onore, alla riservatezza. Questi diritti individuali, hanno fondamento costituzionale nell’articolo 2 e nell’articolo 3 della Costituzione. Tali limiti derivanti dalla garanzia dei diritti della personalità, verranno esaminati, con particolare cura, nei successivi paragrafi, essendo diritti che comportano delle regole e delle normative del tutto proprie. Si tratta invece di limiti impliciti di natura pubblicistica, quelli riguardanti l’ordine pubblico, le esigenze di giustizia, la salvaguardia dell’onore delle istituzioni, e quelli riguardanti informazioni coperte da segreto. Quest’ultimo limite, può, in molti casi, bloccare in modo determinante il diritto all’informazione, data l’ampiezza della materia assoggettabile al vincolo della segretezza. Esistono infatti, atti, documenti, notizie, attività, tutelati dai segreti di Stato, dai segreti professionali, dai segreti d’ufficio e dai segreti giudiziari.
[15] La Corte Costituzionale, ha provato a delineare tale concetto, con la sentenza del 4 Febbraio 1965, n. 9, affermando che il buon costume non può essere fatto coincidere con la morale o con la coscienza etica, perché la legge morale vive nella coscienza degli individui, e così intesa, non può formare oggetto di regolamento legislativo; per cui il buon costume risulta da un insieme di precetti che impongono un determinato comportamento. Tale limite, nell’ultimo comma dell’articolo 21, non vieta solo le pubblicazioni a stampa, ma anche “gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni”. Inoltre la definizione di buon costume, ha subito nel tempo modifiche rilevanti; in senso stretto, il concetto di costume, varia notevolmente secondo le condizioni storiche d’ambiente e di cultura, e perciò con esso, è destinato a variare anche il concetto di buon costume: si tratta di un concetto storico/statistico, dunque, la cui relatività semantica rappresenta un elemento di longevità e modernità. E’ sempre stato oggetto di intensi dibattiti in dottrina e giurisprudenza, proprio a causa dell’indeterminatezza del concetto.
[16] Cassazione, SS. UU., 7 Luglio 1981, n. 4414
[17] Definizioni tratte da: Gardini G., Le regole dell’informazione. Principi giuridici, strumenti, casi, Milano, 2005, pag. 42.
[18] Pertanto, nell’interpretazione costituzionale prevalente il concetto di buon costume è meglio riferito al complesso di regole che l’opinione pubblica riconosce valide, in un determinato contesto storico, al fine di proteggere la convivenza contro offese alla morale sessuale, alla pubblica decenza, al comune senso del pudore (Corte Costituzionale, sentenze del 4 Febbraio 1965, n. 9; del 21 Novembre 1968, n. 120; del 10 Marzo 1971, n. 49; del 24 Novembre 1988, n. 1063[18]) e garantire nella convivenza i principi costituzionali inviolabili della tutela della dignità umana e del rispetto reciproco tra le persone.
[19] Corte Costituzionale, sentenza del 15 Giugno 1972, n. 105. Testo tratto dal sito internet: www.giurcost.org.
[20] Partiplo M., Le notizie e la persona: dalla diffamazione alla tutela della privacy, Milano 2005.
[21] Non esistendo perciò, solo la parte del fatto in una notizia, ma essendo essa composta anche di commenti, di opinioni e di critiche, che sono le espressioni più proprie della libertà di manifestazione e di diffusione del pensiero, è stato costituito il diritto di critica, che riveste gli aspetti lasciati scoperti dal diritto di cronaca. Il sottile limite che c’è tra questi due specifici diritti, rappresenta la differenza sostanziale tra cronaca e critica giornalistica.
[22] Fois S., Il cosiddetto decalogo dei giornalisti e l’articolo 21 della Costituzione, in Dir. Inf., 1985, pp. 152 ss.
[23] In dottrina sull’argomento senza presunzione di completezza: Amato A., Osservazioni in tema di critica, in Giur. di Merito, 1973, II, 407; Alpa-Bessone-Boneschi-Caiazza C., L’informazione ed i diritti della persona, Milano, 1983; Zanelli C., La Suprema Corte interpreta il diritto di cronaca, in Corriere Giur., 1984, 579; Ferri G., Tutela della persona e diritto di cronaca, in Quadrimestre, 1984, 609; Rapisarda A., La diffamazione giornalistica fra principi consolidati ed esigenze di rimeditazione, in Foro It., 1984, II, 386; Dogliotti A., La Cassazione e i giornalisti: cronaca, critica e diritti della persona, in Giust. Civ., 1985, I, 356; Pardolesi A., Libertà d’informazione, tutela della reputazione e tecniche risarcitorie, in Riv. critica dir. privato, 1985, 307; Id., Rettifica, diffamazione e cronaca giudiziaria, in Foro It., 1985, I, 2781; Vincenti A., Esercizio del diritto di critica e diffamazione a mezzo stampa, in Giur. di Merito, 1990, II, 120; Roppo A., Diffamazione per “mass media” e responsabilità civile dell’editore, in Foro It., 1993, I, 3360; Pelissero C., Diritto di critica e verità dei fatti, in Riv. It. Dir. e Proc. Pen., 1992, 1227; Ioffredi A., Sulla risarcibilità del danno da diffamazione a mezzo stampa, in Nuova Giur. Comm., 1993, I, 639; Zeno Zencovich A., La responsabilità professionale del giornalista e dell’editore, Padova, 1995; Chiarolla A., Offesa alla reputazione e legittimo esercizio del diritto di cronaca, in Danno e Resp., 1997, 627; Id., Delitto (diffamazione a mezzo stampa) e castigo (risarcimento del danno): istruzioni per l’uso, in Foro It., 1995, I, 1023.
[24] App. Roma, 18 marzo 1993, in Dir. informazione e informatica, 1994, 939.
[25] Cfr., per una prospettiva generale circa l’attuale orientamento giurisprudenziale in materia di esercizio del diritto di cronaca ed in particolare sui doveri-poteri del giornalista, Manna A., Diritto di cronaca: realtà e prospettive nel delitto di diffamazione a mezzo stampa, in Giur. cost., 1984, I, 770;. Burlando A., Diritto all’onore e libertà di manifestazione del pensiero, in Nuova giur. civ. commentata 1997, II, 325; Cesari C., Privacy, diritto di cronaca, intercettazioni: le ricerche di nuovi equilibri nelle proposte all’esame del parlamento, in Dir. pen. e processo, 1997, II, 1280; Dogliotti A. , La Cassazione e i giornalisti: cronaca, critica e diritti della persona, in Giust. civ., 1985, I, 356; Giocoli Nacci C. , Limiti logici, limiti positivi, limiti impliciti e limiti opportuni al diritto di informazione, in Amm. politica 1984, fasc. 4, 3; Nuvolone A., Il diritto penale della stampa, 1972, 52; Bettiol A., Sui limiti penalistici alla libertà di manifestazione del pensiero, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1965, 625; ancora, circa il dovere del giornalista di informare e del dirtto dei cittadini di essere informati, Albamonte A. , Il diritto di critica e di cronaca quale causa di giustificazione dei delitti contro l’onore, in rapporto al diritto all’informazione, in Cass. pen., 1978, 1305.
[26] Cass., 18 ottobre 1984, in Foro it., 1984, II, 2712, con nota di Pardolesi A., Diffamazione indiretta e responsabilità civile, i cui principi vennero successivamente ripresi, ancor più marcatamente, nella sentenza delle sez. un., penali del 30 giugno 1984, in Foro it., 1984, II, 531, con nota di Fiandaca A. , Nuove tendenze repressive in tema di diffamazione a mezzo stampa?; la Corte poneva il requisito della verità oggettiva della notizia quale presupposto imprescindibile del diritto di cronaca e senza il quale veniva precluso ogni ulteriore indagine circa la sussistenza dell’interesse pubblico e della continenza formale.
[27] I confini che delimitano l’ambito di operatività del diritto di cronaca giornalistica, oltre il quale si configura il reato di diffamazione a mezzo stampa, vengono tradizionalmente individuati dalla giurisprudenza nella necessità di riferire notizie vere che posseggano un certo interesse per l’opinione pubblica, utilizzando a tale scopo formule espressive formalmente corrette, solo la compresenza di questi requisiti esclude l’antigiuridicità della condotta diffamatoria, rendendo operativo l’art. 51 c.p., cfr. tra le pronunce più recenti, Cass., sez. V, 9 giugno 2000, in Cass. pen., 2002, 1400, Cass. 25 luglio 2000, in Danno e responsabilità, con nota di Maccaboni A. , Illecito diffamatorio a mezzo stampa e diritto di critica; Cass. 9 aprile 1998, in Foro it., 1998, I, 1834, con nota di Laghezza A. , Il diritto di cornaca esiste (e si vede), ma anche Rapisarda C. , La diffamazione giornalistica tra principi consolidati ed esigenze di rimediazione, in Foro it. 1984, II, 386, Cass., 29 gennaio 1997, in Cass. pen. 1998, 808.
[28] Cfr., Cass., sez. I, 14 gennaio 1999 in Giur. it., 1999, 1582; Cass., sez. III, 24 gennaio 2000, in Resp. civ. e prev. 2001, 156 nota di Gennari A. , La discrezionalità del giudice nel valutare la portata diffamatoria di un articolo giornalistico privilegia il criterio dei due pesi e delle due misure; Cass., sez. III, 13 febbraio 2002, in Giust. civ. 2002, 230; Cass., sez. III, 7 ottobre 1998, in Dir. Fam. 1999, 82.
[29] Cass., 18 ottobre 1984, n. 5259, in Giur. It., 1985, I, 1, 762; in Dir. informazione e informatica, 1985, 143; in Foro It., 1984, I, 2711; in Giust. Civ., 1985, I, 355; in Quadrimestre, 1985, 609; in Corriere Giur., 1984, 579.
[30] Tra le sentenze più recenti: Cass., 22 gennaio 1996, n. 465, in Foro It., 1996, I, 493; Id., 7 febbraio 1996, n. 982, ibid., I, 1252; Trib. Roma, 26 febbraio 1997, ivi, 1997, I, 1958; Cass., 4 luglio 1997, n. 6041, in Mass. Giust. Civ., 1997, 1138; Trib. Roma, 18 settembre 1993, in Giur. It., 1994, I, 2, 98; Id. Roma, 11 febbraio 1993, in Dir. informazione e informatica, 1993, 413; Cass., 11 giugno 1992, n. 7154, in Foro it., 1992, I, 2177.
[31] In questi termini tra le altre Cass., 7 febbraio 1996, n. 982, in Foro It., 1996, I, 1252.
[32] Cass., 23 aprile 1986, in Riv. Pen., 1987, 602.
[33] Cass., 27 aprile 1992, in Giur. It., 1993, II, 688.
[34] Trib. Napoli, 8 aprile 1995, in Gius., 1995, 2821
[35] Ferri G., Tutela della persona e diritto di cronaca, in Quadrimestre, 1994, 619.
[36] Cass., 15 ottobre 1987, in Giust. Pen., 1989, II, 353; nello stesso senso: Cass., 23 aprile 1986, in Cass. Pen., 1988, 276; Id., 3 giugno 1983, in Giust. Pen., 1984, II, 67.
[37] Chiarolla A., Delitto (diffamazione a mezzo stampa) e castigo (risarcimento del danno): istruzioni per l’uso, in Foro It., 1995, I, 1026.
[38] Trib. Roma, 28 settembre 1993, in Foro It., 1995, 1021
[39] Cass., 9 aprile 1998, n. 3679, in Foro It., 1998, 1834, con nota di Laghezza A.; in tale sentenza viene riconosciuta l’esistenza del diritto all’oblio. Su tale diritto si veda in dottrina: Napolitano A., Il diritto all’oblio esiste (ma non si dice), in Dir. informazione e informatica, 1996, 427; Ferri G., Diritto all’informazione e diritto all’oblio, in Riv. Dir. Civ., 1990, I, 801.
[40] Così Laghezza A., Il diritto all’oblio esiste (e si vede), in Foro It., 1998, 1837.
[41] Cass., 22 gennaio 1996, n. 465, in Foro It., 1996, I, 493.
[42] Cass., 13 febbraio 1985, in Cass. Pen., 1986, 1540, ed in Giust. Pen., 1986, II, 621.
[43] Cass., 23 aprile 1986, in Cass. Pen., 1988, 276; Id., 3 maggio 1985, in Cass. Pen., 1987, 76.
[44] Trib. Padova, 4 novembre 1987, in Giur. di Merito, 1988, 577.
[45] Sulla continenza formale in senso relativo: Cass., 3 maggio 1985, in Cass. Pen., 1987, 76; Id., 15 novembre 1984, in Riv. Pen., 1985, 1037; Trib. Roma, 24 maggio 1985, in Foro It., 1987, II, 253.
[46] Occorre considerare che l’art. 2 della L. 3 febbraio 1969 (legge sull’ordinamento della professione di giornalista) dispone che: È diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà di informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede.
[47] Così Cass., 7 aprile 1992, in Cass. Pen., 1994, 930.
[48] Così Cass., 24 settembre 1997, n. 9391, in Mass. Giust. Civ., 1997, 1767.
[49] Cass., 23 luglio 1996, in Riv. Pen., 1996, 1093.
[50] Cass., 5 aprile 1995, Dir. e proc. pen., 1995, 686.
[51] Cass., 12 novembre 1999, n. 1632, Guida al Diritto, 2000, 10, 88; Iacoviello A., Commentario del Codice Penale, a cura di Lattanzi e Lupo , Napoli, 2000, sub art. 595, 432
[52] Cass., 22 maggio 2000, in Cass. pen., 2001, 2087, ma ancora prima, Cass. 13 maggio 1987 in Giur. it. 1998, II, 115; per la dottrina, Polvani A., La diffamazione a mezzo stampa, Padova, 1998.
[53] Nuvolone A., voce Cronaca (Libertà di), in Enc.dir., vol. XI, Giuffrè, 1962, p. 421 s.
[54] Cfr., Polvani C., Diffamazione a mezzo stampa, Bologna 1995, p. 10-11
[55] Nuvolone A., voce Cronaca (Libertà di), cit., p. 424 s.
[56] Vassalli A., Scritti giuridici, Mialno, 1997, vol. II, p. 361 s. il quale però, aderisce alla possibilità di limitare la libertà di stampa solo col richiamo a limiti costituzionali; altresì sia consentito il rinvio a Manna A., Diritto di cronaca: realtà e prospettive nel delitto di diffamazione a mezzo stampa, in Giur.cost., 1984, I, p. 773.
[57] Cass., 14 dicembre 1993, in Cass. Pen., 1995, 558.
[58] Cass., 25 febbraio 1993, in Dir. informazione e informatica, 1994, 377; nello stesso senso Cass., 3 marzo 1987, in Riv. Pen., 1988, 317. In senso differente si veda Trib. Roma, 2 novembre 1994, in Foro It., 1995, I, 1018; Id. Roma, 17 aprile 1987, in Dir. informazione e informatica, 1987, 989, secondo cui: il lecito esercizio del diritto di cronaca rimane escluso quando siano state riportate, in aggiunta a fatti veri, pur essi obiettivamente lesivi dell’altrui onore e reputazione, altre circostanze non veritiere, o anche solo d’incerta rispondenza al vero, altrettanto lesive di tali fondamentali diritti della persona.
[59] Cass., 8 giugno 1992, in Cass. Pen., 1994, 592.
[60] Trib. Roma, 22 aprile 1989, in Dir. informazione e informatica, 1989, 964. Si veda anche Trib. Roma, 25 febbraio 1992, ivi, 1993, 141; Cass., 17 aprile 1991, in Riv. Pen., 1991, 912; Trib. Roma, 5 novembre 1991, in Dir. informazione e informatica, 1992, 478.
[61] Vedi, ad es., Cass. 2 dicembre 1999, in Cass. pen. 2001, 1469; Cass., 2 aprile 1987, in Giur. it., 1988, II, 434; Cass. 31 marzo 1999, in Cass. pen. 2001, 137; vale ricordare poi che opportunamente dottrina e giurisprudenza prevalente hanno distinto tra errore di diritto ed errore di fatto, riconoscendo valore esimente soltanto a quest’ultimo e riconducendo il primo nell’alveo di operatività dell’art. 5 c.p., cfr. al riguardo Nuvolone A., Il diritto penale della stampa, Padova, 1972; ma anche, Grosso A., Difesa legittima e stato di necessità, 1964, 384.
[62] L’obbligo del giornalista di dimostrare la verità della notizia si scontra con la presunzione di non colpevolezza dell’imputato di cui all’art. 27 Cost., cfr, sul punto, Illuminati C. , Exceptio veritatis e presunzione di non colpevolezza dell’imputato, in Tutela dell’onore e mezzi di comunicazione di massa, 1979, 125.
[63] Bonanno C., Diffamazione a mezzo stampa e limiti del diritto di cronaca, in Riv. it. proc. pen., 1985, 272, secondo il quale l’onere sussiste ove, allegata la prove di ciò che rende giustificato ed attendibile l’errore, si possa fondatamente supporre la persistenza, nella mente del giornalista, di dubbi ed incertezze, come, ad es., qualora la notizia provenga da una fonte qualificata, ma confidenzialmente e non ufficialmente; così, Cass., sez. un., 26 febbraio 1972, in Giur. it., 1972, II, 433.
[64] Cfr., art. 2, comma 1, l. 3 febbraio 1963, n. 69, Ordinamento della professione di giornalista.
[65] Per una rassegna sulle posizioni della dottrina, Corrias Lucente A., Il diritto penale dei mezzi di comunicazione di massa, Padova, 2000, 90; Napoleoni A. , Diritto di cronaca e verità putativa, in Cass. pen., 1983, 1102; Fois A., Principi costituzionali e libera manifestazione del pensiero, Roma 1957, 211.
[66] Per la quale l’erroneo convincimento del cronista di narrare fatti veri ha comunque l’effetto di escludere la punibilità per mancanza di dolo, pretendere al contrario che il giornalista debba acquisire la certezza assoluta della veridicità equivarrebbe a compromettere l’effettivo esercizio del diritto di cronaca, cfr per un approfondimento, Nuvolone A. , Il diritto penale della stampa, cit., 80.
[67] Vassalli A., La protezione della sfera della personalità nell’era della tecnica, in Id., Scritti giuridici, cit., p. 339 s.; Bricola C., Prospettive e limiti della tutela penale della riservatezza, in Id., Scritti di diritti penale, Milano, 1997, p. 2289 s.; Patrono C., voce Privacy e vita privata (diritto penale), in Enc.dir., vol. XXXV, Milano, 1986, p. 557 s.
[68] Par. 145, Pubblica compromissione: “Chiunque compromette un altro attraverso il fatto che discute pubblicamente, o attraverso la diffusione di scritti la di lui vita altamente personale, in particolare la vita famigliare o sessuale, o le condizioni di salute, è punito con la pena della reclusione fino ad un anno”.
[69] Ferrante A., Giornalismo e diffamazione, in Giur.merito, 1985, IV, p. 1010 s.
[70] Sez. V, 23 ottobre 1987, Buti C., in Cass. Pen., 1989, p. 201, n. 178.
[71] Fumo M., Limite della continenza- Nozione, in D&G n. 13, 2001, p. 67 ss.
[72] Sez. V, 12 dicembre 1991, Benincasa A., in Dir.inf., 1992, p. 954 s.
[73] Palazzo A., Il principio di determinatezza nel diritto penale, Padova, 1979, p. 294 s.
[74] In questo senso si veda anche Cass. civ. , 22 gennaio 1996, n. 456, in Foro it., 1996, I, 497, secondo la quale le espressioni adoperate nella narrazione dei fatti non si possono fondare su parametri universali e oggettivi, sicché la continenza formale deve essere verificata in stretta aderenza al contesto nel quale si deve operare.
[75] Così, testualmente, Trib. Roma , 11 febbraio 1993, in Dir. inf., 1993, 420, che ha ritenuto lecito l’utilizzo di alcune espressioni caricaturali riportate in un articolo, a firma Gianpaolo Pansa, il quale volendo mostrare di quale pasta siano fatti i palloni gonfiati messi in aria dal potere, attribuiva al giornalista Bruno Vespa il nomignolo Coniglietto Mannaro, descrivendolo con lo sguardo del sicario, bovino umidoso, e con lampi di sadismo che promettono sfracelli. Sempre a firma Gianpaolo Pansa è stato ritenuto lecito un articolo – recante il titolo nel quale Paolo Berlusconi veniva messo alla berlina con la qualifica di Berluschino, Berlusconi numero due, quello di seconda scelta e con lo sconto e deposito di brillantina (Trib. Roma, 5 giugno 1991, in Dir. inf., 1992, 67).
[76] Cass. pen., 3 maggio 1985, Diaconale, in Riv. pen., 1986, 730. Per quel che concerne la valenza offensiva delle espressioni utilizzate, si veda inoltre Cass. pen., 18 marzo 1981, Guarino, in Riv. pen., 1981, 843 (m), secondo la quale nella lotta politica, e per il raggiungimento dei fini cui questa si ispira, si è determinata una vera e propria desensibilizzazione del significato offensivo di certe parole e di certe frasi usate dalle persone che in essa si trovano coinvolte, dimodoché può talora ritenersi legittimo l’uso di espressioni le quali comunemente, nell’ambito di rapporti privati, sarebbero offensive.
[77] Trib. Roma, 11 febbraio 1993, in Dir. inf., 1993, 423.
[78] Psaro M., La diffamazione a mezzo stampa, Milano, 1998, 74
[79] App. Milano, 11 marzo 1993, in Foro it., 1994, II, 96.
[80] Trib. Milano, 8 aprile 1991, in Dir. inf., 1992, 56.
[81] Cfr. al riguardo Trib. Roma, 24 febbraio 1989, in Dir. inf., 1989, 936.