STUDI DI SETTORE: ONERE DELLA PROVA
“La procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema unitario che non si colloca all’interno della procedura di accertamento di cui al D.P.R. 29 settembre 1973 n. 600, art. 39, ma la affianca, essendo indipendente dall’analisi dei risultati delle scritture contabili, la cui regolarità per i contribuenti in contabilità semplificata, non impedisce l’applicabilità dello standard, né costituisce una valida prova contraria, laddove, per i contribuenti in contabilità ordinaria, l’irregolarità della stessa costituisce esclusivamente condizione per la legittima applicazione della procedura standardizzata”. Tale procedura di accertamento “costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli standard in sé considerati – meri strumenti di ricostruzione per l’elaborazione statistica della normale redditività – ma nasce solo in esito al contraddittorio – contraddittorio che risulta attivato e svolto nel caso in esame – da attivare obbligatoriamente, pena nullità dell’accertamento, con il contribuente. In tale sede, quest’ultimo ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli standard o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello standard prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente. L’esito del contraddittorio, tuttavia, non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli standard al caso concreto, da dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte. In tal caso, però, egli assume le conseguenze di questo suo comportamento, in quanto l’Ufficio può motivare l’accertamento sulla sola base dell’applicazione degli standards, dando conto dell’impossibilità di costituire il contraddittorio con il contribuente, nonostante il rituale invito, ed il giudice può valutare, nel quadro probatorio, la mancata risposta all’invito”. (Cass. Sez. Un., 18 dicembre 2009, n. 26635).
Questo è quanto pronunciato e ribadito dalla Suprema Corte di Cassazione – Sezione Tributaria – con la sentenza n. 25983 – 20 novembre 2013, in occasione del ricorso avanzato da un contribuente della provincia di Potenza, nella specie, un professionista- architetto, il quale – sottoposto a procedura di accertamento tributario standardizzato ex L. 28 dicembre 1995, n. 549, art. 3, commi 181 e 183, chiedeva che venissero accertate e accolte le sue ragioni.
All’esito della procedura di accertamento ed, in particolare, all’esito del contraddittorio instaurato con lo stesso contribuente, erano stati accertati mediante l’applicazione dei parametri approvati con il d.P.C.M. 29 gennaio 1996 – maggiori ricavi IRPEF nonché maggiori volumi d’affari IVA, rispetto a quelli dallo stesso dichiarati per l’anno 1996.
Già la Commissione Tributaria Regionale della Basilicata si era espressa in senso favorevole, in sede di appello proposto dalla Agenzia delle Entrate, Ufficio di Potenza, accogliendo il ricorso da quest’ultima avanzato e confermando la legittimità dell’avviso di accertamento relativo all’anno 1996; non ritenendo, al contrario, di alcuna rilevanza le ragioni avverse, dedotte dalla ricorrente.
Lo scostamento tra reddito dichiarato e maggiori compensi accertati era di proporzioni importanti, posto che le giustificazioni da quest’ultimo dedotte si fondavano essenzialmente sulla “impossibilità che la sua attività di architetto fosse produttiva di un reddito superiore a quello dichiarato, atteso che lo scarso impegno pomeridiano della sua attività di insegnante nell’arco dell’intero anno scolastico e quello, davvero irrisorio, connesso alla sua attività di consigliere comunale di Marsicovetere non costituivano elementi ostativi ad un più ampio esercizio dell’attività di architetto, cui egli poteva aver dedicato una congrua parte del tempo, con effetti proficui sul piano reddituale, considerata anche la non disprezzabile entità della struttura professionale.
(…) Nella specie, poi, il contribuente non aveva addotto elementi di crisi intrinseci all’attività esercitata, bensì fattori ad essa estrinseci tali da non esprimere alcuna capacità di incidere sulla redditività dell’attività medesima; non risultavano operare, insomma, le variabili negative che di solito confluiscono nel giudizio globale formulato in materia di accertamenti parametrici (…)”.
Elementi, questi ultimi, da soli sufficienti a far sì che la Corte rigettasse il ricorso de quo, perché non meritevole di accoglimento.