Dubbi in tema di “mutatio” o “emendatio libelli” e di incapacità a testimoniare – Cassazione Sezione lavoro, sentenza n. 8993/08
Continua a far discutere la questione relativa alla mutatio o emendatio libelli e alla incapacità a testimoniare per il lavoratore che, non essendo parte in causa nel processo per il quale viene sentito, a sua volta abbia proposto separatamente un nuovo giudizio nei confronti dello stesso datore di lavoro.
Questa volta è la stessa Suprema Corte – sezione lavoro – del 7 Aprile 2008 n. 8993 (qui leggibile come documento correlato) a pronunciarsi sull’argomento, con una sentenza, che certo non mancherà di alimentare il dibattito.
Questi i fatti: un lavoratore affermava di aver prestato la propria opera professionale alle dipendenze di una società, tuttavia, in concreto la prestazione di fatto avveniva in favore di altro datore di lavoro; chiedeva pertanto la condanna in solido delle parti convenute in giudizio al pagamento delle differenze retributive.
Tuttavia nel corso del giudizio il lavoratore rinunziava alla domanda proposta nei confronti dei fratelli Molino.
Il giudice di prime cure accoglieva parzialmente la domanda di parte attrice nei confronti della società convenuta.
Avverso tale sentenza proponeva appello la società contumace e soccombente in primo grado. Sul rigetto della domanda di appello la stessa proponeva altresì ricorso per Cassazione.
Emerge palesemente dall’analisi della sentenza, la questione relativa al vizio di ultra ed extra petizione e della emendatio e mutatio libelli.
A tal proposito è noto che, sotto il profilo di teoria generale, il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato è una manifestazione del principio del contraddittorio e della difesa della controparte, che sarebbe inevitabilmente menomata dalla pronuncia ultra petita.
Tale principio impone al giudice di pronunciarsi su ciò che è domandato con l’esercizio dell’azione e non oltre, fermo restando che il ricorrente ha l’aspirazione a una pronuncia di merito e non a una pronuncia meramente processuale.
Si osservi che si ha vizio d’ultrapetizione quando il giudice pronunci più di quanto gli sia stato chiesto.
Si ha extrapetizione invece quando il giudice pronunci un provvedimento diverso da quello richiesto.
Ed invero, sul punto la giurisprudenza prevalente (Sezioni Unite n. 27/2000; Cassazione n 19051/2003, Cassazione n. 18068/2004;) afferma che “nel giudizio del potere di interpretazione e qualificazione della domanda, il giudice di merito, da un lato, non è condizionato dalle espressioni adoperate dalla parte, dall’altro ha il potere dovere di accertare e valutare il contenuto sostanziale della pretesa, quale desumibile non solo dal tenore letterale degli atti, ma anche dalla natura delle vicende rappresentate dalla parte e dalle precisazioni dalla medesima fornite nel corso del giudizio”.
Alla luce dell’analisi svolta, nel caso de quo possiamo ritenere che non sussiste tale vizio, ancorché supportato dall’ipotesi di mutatio o emendatio libelli riferito alla rinunzia alla solidarietà nei confronti dei fratelli Molino, posta in essere dal dipendente.
D’altro canto gli artt. 183 e 184 c.p.c., dispongono sul divieto di mutare la domanda e di ampliare l’oggetto del giudizio dovendosi in proposito distinguere tra mutazione consentita della domanda (cosiddetta emendatio libelli), la quale ricorre ogni volta che non si prospettano nuovi elementi di mutazione del fatto costitutivo del diritto, non aggiungendosi o sostituendosi al diritto controverso, come specificato nella domanda introduttiva, un diverso petitum, e modificazione non consentita (cosiddetta mutatio libelli) con cui si introduce nel processo un nuovo e diverso fatto giuridico, considerato quale presupposto oggettivo cui l’ordinamento attribuisce determinati effetti, in guisa da mutare il thema decidendum originario.
Ebbene, per divieto di mutatio libelli, si intende, infatti, il divieto di introduzione in giudizio di una domanda oggettivamente nuova, esorbitante dal thema decidendum fissato in limine litis con l’atto introduttivo e la memoria difensiva; non è, infatti consentita, perché, traducendosi in una nuova pretesa, diversa da quella originaria, introduce nel processo un tema di indagine completamente nuovo, determinando, così, uno spostamento dei termini di contestazione, con la conseguenza di disorientare la controparte e quindi di alterare il regolare svolgimento del processo.
Nel caso di specie la rinunzia alla solidarietà ex art. 1311 c.c., non può esser annoverata fra i casi di mutatio libelli, poiché la stessa è insita nel carattere dell’obbligazione, consiste, infatti, nel vincolo solidale che consente di agire nei confronti di ciascun debitore per ottenere l’integrale adempimento dell’obbligo, essa pertanto lascia inalterata l’intera obbligazione, non integrando l’ipotesi di mutamento di domanda. Il creditore conserva l’azione nei confronti degli altri debitori non destinatari della rinuncia. Gli stessi debitori, potranno agire in azione di regresso anche nei confronti di chi abbia beneficiato della rinunzia.
Sono, infatti, irrilevanti per i coobbligati i rapporti che si instaurano tra il creditore e un obbligato in solido, così come parimenti sono irrilevanti per gli altri creditori solidali i rapporti che si instaurano tra un creditore e l’obbligato (F. Gazzoni, Manuale di diritto privato; Napoli Edizioni Scientifiche Italiane, 2004).
In virtù di quanto sopra esposto, a mio avviso corretto e logico appare l’applicazione dl principio espresso dalla Suprema Corte, per cui non esiste alcun mutamento della domanda e pertanto la società non ha titolo per dolersi della rinunzia.
SULLA IRRITUALITÀ DELLA RINUNZIA E MANCATA NOTIFICAZIONE DELL’INTERROGATORIO FORMALE
Altro aspetto analizzato nella sentenza è quello relativo alla presunta irritualità della rinunzia.
A tal proposito occorre sottolineare che la rinunzia poste in essere dal dipendente non ha alcun rilievo giuridico – procedurale, avendo, abbondantemente, chiarito la fonte di tale aspetto all’interno dell’obbligazione stessa. Nondimeno, appare opportuno spendere qualche osservazione in merito alla denunciata irritualità della rinunzia, poiché recente giurisprudenza (Cassazione 1439/2002) afferma che “la rinunzia alla domanda o ai suoi singoli capi, qualora si atteggi come espressione della facoltà della parte di modificare ai sensi dell’art 420 c.p.c., le domande e le conclusioni precedentemente formulate, rientra fra i poteri del difensore (che in tal guisa esercita la discrezionalità tecnica che gli compete nell’impostazione della lite e che lo abilita a scegliere in relazione anche agli sviluppi della causa, la condotta processuale da lui ritenuta più rispondente agli interessi del proprio rappresentato) distinguendosi così, dalla rinunzia agli atti di giudizio, che può essere fatta solo dalla parte personalmente o da un suo procuratore speciale, nelle forme rigorose, previste dall’art. 306 c.p.c., e non produce effetto senza l’accettazione della controparte.” Pertanto, a seguito di quanto esposto, e alla luce dei fatti, la rinunzia, essendo intesa come rinunzia alla domanda sarebbe, comunque, valida ed efficace.
Volendo ora analizzare l’istituto dell’interrogatorio formale, è doveroso ricordare che con l’espressione interrogatorio della parte si fa abitualmente riferimento anche all’interrogatorio formale: è il codice di procedura civile ad usare il termine “interrogatorio” per designare entrambi gli istituti…quasi suggerendo che la distinzione formale – non formale individui soltanto diverse modalità di manifestazione dello stesso fenomeno, mentre. la struttura, la funzione e gli effetti dei due tipi di interrogatorio sono così diversi da dare luogo in realtà ad istituti distinti (FERRI, Interrogatorio diritto processuale civile, Enc. giur., XVII, 1989, 1,).
Del resto, basta confrontare l’art. 183 c.p.c. con la puntuale disciplina dell’interrogatorio formale; che deve essere preventivamente formulato per articoli separati e specifici (art. 230 c.p.c.), tendendo alla confessione giudiziale (che, per l’art. 228 c.p.c., è spontanea o provocata mediante interrogatorio formale); all’assunzione, nei modi e termini contenuti nell’ordinanza che l’ha ammesso, procede il giudice istruttore (art. 230, comma 2, c.p.c.) Ai sensi dell’art. 102, disp. att. c.p.c. “Nell’ordinanza che ammette l’interrogatorio o la prova testimoniale non è necessario che siano ripetuti i capitoli relativi, se il giudice fa richiamo a quelli contenuti nell’atto di citazione e nella comparsa di risposta o nei processi verbali di causa”. È evidente un onere di informazione a carico dell’interrogato anche se lo stesso sia rimasto contumace e, dunque, per l’art. 292 c.p.c., l’ordinanza gli sia stata personalmente notificata; tant’è che, in quest’ultimo caso, si ritiene (Cass. 1 settembre 1997, n. 8340, in Foro it. Rep., 1997, v. Procedimento civile, n. 246) che al contumace non debba essere comunicato il rinvio dell’udienza fissata per l’interrogatorio.
Già la Cassazione del 1997 si pronuncia conformemente alla sentenza in analisi, sottolineando l’onere a carico del soggetto a cui è deferito l’interrogatorio.
Durante l’interrogatorio formale, non possono farsi domande su fatti diversi da quelli formulati nei capitoli, ad eccezione delle domande su cui le parti concordano e che il giudice ritiene utili; ma il giudice può sempre chiedere i chiarimenti opportuni sulle risposte date (art. 230, comma 3, c.p.c.); la parte interrogata deve rispondere personalmente (art. 231, comma 1, c.p.c.); se la parte non si presenta o rifiuta di rispondere senza giustificato motivo (art. 232 c.p.c.), il giudice, dopo aver valutato ogni altro elemento di prova, può ritenere come ammessi i fatti dedotti. La Cass. 7 marzo 1996, n. 1812 (in Foro it. Rep., 1996, v. Interrogatorio civile, n. 4) afferma che “In tema di interrogatorio formale, l’inciso contenuto nell’art. 232 c.p.c. – secondo il quale il giudice può ritenere ammessi i fatti dedotti nell’interrogatorio se la parte non si presenta o si rifiuta di rispondere senza giustificato motivo, valutato ogni altro elemento di prova – va interpretato nel senso che la mancata risposta non equivale ad una confessione, ma può assurgere a prova dei fatti dedotti secondo il prudente apprezzamento del giudice (art. 116 c.p.c.), il quale può trarre elementi di convincimento in tal senso non solo dalla concomitante presenza di elementi di prova indiziaria dei fatti medesimi, ma anche dalla mancata proposizione di prove in contrario”.
Sommariamente descritta la disciplina dell’interrogatorio, conviene soffermarsi su un punto controverso che influenza soprattutto il giudizio di ammissibilità del mezzo istruttorio.
Si è sostenuto, infatti, che “l’interrogatorio formale può produrre esiti diversi dalla confessione stricto sensu intesa, e comunque rilevanti sul terreno probatorio, talché appare eccessivamente riduttivo limitarne la funzione alla provocazione di dichiarazioni contra se dotate di efficacia di prova legale” (FERRI, op. cit., 7..
La tesi, è evidente, spezza il legame tra confessione e interrogatorio e ne ridimensiona la tradizionale funzione provocatoria, finalizzata alla formazione di una vera e propria confessione giudiziale, dato che quest’ultima non è una conseguenza costante e (per così dire) automatica dell’interrogatorio. Con il risultato che dal mezzo il giudice potrà acquisire anche prove libere o elementi di prova indiziaria, comunque dotati di un’efficacia inferiore a quella legale, e non già soltanto una confessione a pieno titolo (Comoglio, La confessione e l’interrogatorio, in Le prove civili, Torino, 1998, 329).
Relativamente all’ammissibilità della prova, si ritiene che essa, in genere,
attiene alla (valutazione della) conformità del mezzo al modello normativo; il giudizio di rilevanza, invece, imporrebbe la previa verifica dell’idoneità della prova ad assicurare l’accoglimento, totale o parziale, di domande o eccezioni.
Nell’applicare tali nozioni occorre ricordare, da un canto, che per l’interrogatorio formale non esistono regole particolari di ammissione salvo, a norma dell’art. 2733, comma 2, c.c., che per la materia dei diritti indisponibili, la quale non potrà formarne oggetto (Della Pietra, L’interrogatorio della parte: interrogatorio libero e interrogatorio formale, Giur. Merito, 2002, 4-5, 1107).
In merito all’eccezione relativa all’omessa notifica del provvedimento di ammissione dell’interrogatorio formale, come ha correttamente osservato il giudice di secondo grado, la mancata notificazione alla parte dell’interrogatorio formale comporta soltanto che degli effetti di un’impropriamente asserita mancata risposta non possono essere tratti argomenti di prova, così come dispone l’articolo 232 c.p.c.. Ciò, però, non impedisce al giudice di tener conto di tutti gli altri elementi acquisiti al processo e, sulla base di questi, decidere la controversia. Tanto si è verificato nel presente giudizio e la Corte di appello – rilevata la inutilizzabilità della mancata risposta all’interrogatorio appunto perché non ritualmente notificato alla parte contumace in primo grado – ha valutato le altre risultanze processuali, pervenendo alla conclusione che i fatti posti a fondamento della domanda sono risultati provati, e, quindi, non censurabile in questa sede di legittimità.
A conclusione di quanto sopra affermato, ulteriore giurisprudenza afferma che nell’ipotesi di mancata risposta all’interrogatorio formale, non è necessaria una specifica istanza dell’interessato, poiché quest’ultimo ha già manifestato l’intenzione di voler conseguire tale obiettivo deferendo l’interrogatorio.
SULLA INCAPACITÀ A TESTIMONIARE
Continuando l’analisi della sentenza in rassegna, si necessita di brevi cenni relativamente all’incapacità testimoniale prevista dal Codice di Procedura Civile, l’art. 246, dispone espressamente che l’incapacità testimoniale resiste solo in capo a quei soggetti che hanno interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio, tale interesse è quello giuridico, personale, concreto, comportante la legittimazione a proporre l’azione ovvero ad intervenire in un giudizio (Cassazione n. 15197/2004). il legislatore opera una valutazione a priori in ordine alla credibilità del teste. Il terzo interessato viene equiparato alla parte e non può testimoniare. Il giudice adotta un criterio di natura oggettiva per valutare subito se un teste è attendibile o meno, l’articolo, infatti non si pronuncia esplicitamente su chi ha la capacità a testimoniare, afferma, invece, che è incapace a testimoniare, perché sarebbe non credibile, chi ha una posizione giuridica determinata rispetto al giudizio e all’oggetto di esso. Il legislatore si riferisce a persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio. Quindi l’attenzione non è rivolta tanto alla posizione soggettiva presa di per sé, ma alla posizione del soggetto in relazione alla causa. A tal proposito è utile quanto affermato in giurisprudenza circa la rilevanza del thema decidendum piuttosto che del decisum: l’interesse che genera l’incapacità deve essere valutato in concreto con riferimento allo specifico oggetto della pretesa dedotta in giudizio, così come determinata dal contenuto delle domande e delle eccezioni.
L’interesse a partecipare al giudizio, previsto come causa di incapacità a testimoniare, si identifica con l’interesse a proporre la domanda e a contraddirvi ex art. 100 c.p.c., pertanto si considera incapace, chiunque si presenti legittimato all’intervento in giudizio, senza che possa distinguersi fra legittimazione attiva e legittimazione passiva, tra legittimazione primaria e secondaria (intervento adesivo dipendente) tra intervento volontario e intervento su istanza di parte. In particolare, è incapace a testimoniare chi potrebbe o avrebbe potuto essere chiamato dall’attore, in linea alternativa o solidale, quale soggetto passivo della stessa pretesa fatta valere contro il convenuto originario, nonché il soggetto da cui il convenuto originario potrebbe, o avrebbe potuto pretendere di essere garantito. La sussistenza di detta incapacità, va valutata indipendentemente dalle vicende che rappresentano un posterius rispetto alla configurabilità di quell’interesse a partecipare al giudizio, che determina l’incapacità stessa (Cass. n. 1469/2002, Cass. n. 10382/2002, Cass. n. 6894/2005).
La valutazione della sussistenza o meno dell’interesse che dà luogo ad incapacità a testimoniare, ai sensi dell’art. 246 cod. proc. civ., è rimessa – così come quella inerente all’attendibilità dei testi e alla rilevanza delle deposizioni – al giudice del merito, ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivata, copiosa giurisprudenza afferma, infatti, che la valutazione delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione sono oggetto di apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tette le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. n. 4391/2007).
Volendoci ora soffermare sul caso de quo vediamo che la società ricorrente riteneva che la testimonianza resa agli atti del processo da un lavoratore anch’egli ricorrente in analogo giudizio sempre contro la società stessa, fosse da ritenere inammissibile, ma alla luce di quanto sopra esposto, non si ravvisa un interesse di tal genere, ed altresì giurisprudenza si è espressa molte volte proprio affermando che nelle controversie fra datore di lavoro e dipendente, possono essere sentiti, come testi, altri dipendenti i quali abbiano istaurato a loro volta altri separati analoghi giudizi nei confronti del comune datore di lavoro (Cass. 387/87).
CONCLUSIONI
A mio avviso ritengo che la pronuncia della Corte abbia propeso verso la soluzione più corretta del caso, lo si deduce, altresì dalle numerose recenti sentenze che la Cassazione ha depositato e che vertono sulle stesse argomentazioni qui affrontate e ampiamente motivate.