Veicolo sottoposto a sequestro: cosa rischia chi lo utilizza
La sentenza in esame (Cass. pen., sez. VI, n. 2168, pubblicata sul quotidiano il 25 gennaio 2008) affronta la problematica del rapporto sussistente tra il reato di cui all’art. 334 c.p. (“Sottrazione o danneggiamento di cose sottoposte a sequestro disposto nel corso di un procedimento penale o dall’autorità amministrativa”) e l’illecito amministrativo previsto dall’art. 213 cod. str.
In primo grado all’imputato veniva contestato di essere stato sorpreso circolare sulla pubblica via con un motociclo di sua proprietà. Tale motociclo, affidato alla sua custodia, era stato precedentemente sottoposto a sequestro amministrativo, in quanto privo della copertura assicurativa contro la responsabilità civile. Il Tribunale di Napoli riteneva di inquadrare il fatto nella previsione dell’art. 213/4 cod. str., che sanziona – sotto il profilo meramente amministrativo – il comportamento di “chiunque, durante il periodo in cui il veicolo è sottoposto a sequestro, circola abusivamente con il veicolo stesso”. Riteneva al contrario di escludere l’applicabilità dell’art. 334 c.p., in ossequio al principio di specialità, che avrebbe determinato la prevalenza dell’illecito amministrativo su quello penale, cui sarebbe stata riservata operatività residuale, solo nel caso in cui dalla circolazione del veicolo fosse derivato un deterioramento inteso come “apprezzabile e concreto deprezzamento del bene”. Pertanto, mancando tale evento specifico nel caso di specie, con sentenza del 3 novembre 2006, l’imputato veniva assolto dal capo di imputazione di cui all’art. 334 c.p., contestatogli, non essendo il fatto previsto dalla legge come reato.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso per Cassazione il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello, denunciando l’inosservanza e l’erronea applicazione della legge penale, ossia appunto dell’art. 314 c.p. in relazione all’art. 213 cod. str. Rilevava infatti il ricorrente che, essendo il delitto di cui all’art. 334 c.p. posto a protezione non del patrimonio ma della Pubblica Amministrazione e del suo buon andamento, esso avrebbe tutelato già l’interesse della stessa a mantenere intatto il vincolo imposto con il sequestro. Pertanto il concetto di “sottrazione”, richiesto per la configurabilità del reato contestato, sarebbe stato integrato anche dal mero spostamento della cosa senza preavviso agli organi competenti, non essendo dunque necessaria la circolazione del veicolo stesso, elemento costitutivo invece dell’illecito amministrativo. Ne derivava, a parere del ricorrente, l’inapplicabilità, nella specie, del principio di specialità amministrativa di cui all’art. 9 della legge 689/1981, presupponendo esso l’esatta coincidenza tra le due fattispecie, quella amministrativa e quella penale. Nel caso in esame, rilevava il Procuratore Generale, il fatto della circolazione su strada con veicolo sottoposto a sequestro amministrativo (art. 213 cod. str.) è condotta ben diversa da quella integrante il reato di cui all’art. 334 c.p., che ben può realizzarsi con la semplice amotio del veicolo, rispetto alla quale la circolazione costituisce manifestazione della condotta stessa.
CONCORSO O CONFLITTO APPARENTE DI NORME
La sentenza in esame affronta la controversa tematica del conflitto o concorso apparente di norme, in particolare quando il concorso nasca tra disposizione penale e altra sanzionata sotto il solo profilo amministrativo.
Il concorso o conflitto apparente di norme si verifica quando si osserva il confluire di più norme incriminatici nei confronti di un medesimo fatto, ma tale confluire non è reale, bensì solo apparente. In tali casi, essendo una sola la norma incriminatrice veramente applicabile all’ipotesi di specie, in luogo di configurarsi un concorso di reati, si ha unicità di reato.
In alcune disposizioni è lo stesso legislatore ad indicare esplicitamente, attraverso l’adozione di cosiddette clausole di riserva (si vedano ad esempio gli artt. 323, 420, 508, 513, 682 c.p. “salvo che il fatto non costituisca un più grave reato”) l’inapplicabilità di alcune delle norme apparentemente concorrenti, escludendo in radice il concorso.
Tuttavia quando, come nel caso di specie, il legislatore nulla disponga, la questione, e si tratta del resto di uno dei capitoli ad oggi più controversi nel diritto penale, è lasciata all’interprete.
Come è noto, qualora tale fenomeno si verifichi tra più leggi penali o più disposizioni della stessa legge penale che regolano la stessa materia, l’unica disposizione che trova diretta applicazione è l’art. 15 c.p., il quale prevede che “la legge o disposizione di legge speciale deroga alla legge o disposizione di legge generale, salvo che sia diversamente stabilito”. Si tratta appunto del principio di specialità, in quanto una medesima situazione di fatto integra, in apparenza, gli estremi di più fattispecie astratte tipiche, regolate da più norme convergenti, una delle quali tuttavia è “speciale”, poiché contiene tutti gli elementi dell’altra (o delle altre) “generale”, ma presenta, in più, un elemento cosiddetta “specializzante”.
Dottrina e giurisprudenza non sono in realtà ancora giunte ad una posizione unitaria in merito all’ambito di operatività del principio in esame. In particolare si discute se esso debba applicarsi solo all’ipotesi di integrale sovrapposizione delle fattispecie concorrenti, e si parla allora di specialità “unilaterale”, oppure sia sufficiente una sovrapposizione delle fattispecie soltanto parziale, per cui il rapporto è detto di specialità “bilaterale” o “reciproca”.
Quanto alla cosiddetta specialità “unilaterale”, che è quella pacificamente ammessa, si suole poi normalmente distinguere tra specialità per aggiunta e specialità per specificazione. Nella prima ipotesi, la norma speciale presenta alcuni elementi specializzanti che si aggiungono a quelli costitutivi della norma generale. Tali elementi specializzanti determinano la diminuzione della sfera di applicazione della norma speciale, per cui il caso concreto, se la disposizione speciale non esistesse, verrebbe sussulto in quella generale. Nei casi di specialità “unilaterale” per specificazione invece si viene a realizzare un rapporto di genere a specie tra uno o più elementi costitutivi delle diverse fattispecie. Ne discende che, mentre nella specialità per aggiunta è la fattispecie speciale a includere tutti gli elementi descrittivi di quella generale, nella specialità per specificazione è la fattispecie generale che include sempre tutti gli elementi descrittivi della fattispecie speciale.
Al contrario si discute in merito al fenomeno definito di specialità “bilaterale” o “reciproca”, che si verifica quando lo stesso fatto concreto sia sussumibile in più fattispecie astratte che presentino alcuni elementi comuni tra loro ed altri, generici o tipizzanti, diversi.
Secondo un certo orientamento pure questo fenomeno rientrerebbe nella sfera operativa dell’art. 15 c.p.. Il concorso apparente di norme si risolverebbe con l’applicazione della disposizione caratterizzata da maggiore specialità rispetto all’altra, in relazione alla concreta fattispecie. Quanto alla maggiore specialità, essa dovrebbe essere individuata di volta in volta sulla base del contesto normativo in cui la norma è collocata (specialità tra leggi), dei soggetti destinatari dell’obbligo penale (specialità tra soggetti), e, da ultimo, in base al maggior numero di elementi tipizzanti che rendono la fattispecie astratta più vicina al fatto concreto. Di diverso avviso altra parte della dottrina, che esclude in radice l’applicabilità a questo fenomeno dell’art. 15 c.p., con la conseguenza che il concorso tra le disposizioni sarebbe “formale” e non “apparente”. Secondo una tesi intermedia infine, il concorso apparente di norme risulterebbe sussistere solo quando il rapporto tra fattispecie si atteggi nella “specialità reciproca per specificazione” o “parte per specificazione e parte per aggiunta”, escludendolo invece ogniqualvolta si ponga nei termini della “specialità reciproca bilateralmente per aggiunta”, ossia laddove entrambe le fattispecie presentino un elemento aggiuntivo rispetto all’altra.
Tali tentativi di estendere la portata del principio di specialità sono in realtà indotti dalla sensazione di inadeguatezza dell’unico criterio legislativamente previsto a soddisfare le esigenze concrete dell’interprete. Ciò ha indotto parte della dottrina non solo ad apportare al principio di specialità quei “correttivi” cui si è accennato, ma anche ad individuare ulteriori criteri di risoluzione del concorso apparente di norme. Si tratta, come è noto, dei principi di sussidiarietà e di assorbimento.
Il principio di sussidiarietà., tradizionalmente annoverato tra i criteri più consolidati di risoluzione del conflitto apparente di norme, intercorrerebbe tra norme che prevedono stadi o gradi diversi di offesa di un medesimo bene: in modo tale che l’offesa maggiore assorbe la minore e, di conseguenza, l’applicabilità dell’una norma è subordinata alla non applicazione dell’altra (lex primaria derogat legi subsidiariae).
Si ha invece un’ipotesi di assorbimento (o consunzione, ovvero anche c.d. ne bis in idem sostanziale) quando il fatto tipico previsto da una norma (di più ampia portata) ricomprende in sé anche quello descritto da altra norma (di portata minore), tanto che non risulti possibile commetter il reato più grave, senza commetter anche quello meno grave. Tale principio postula l’unitarietà (intesa in senso normativo-sociale) di un fatto, ma, diversamente da quello di specialità, implica un giudizio di valore, in base al quale l’apprezzamento negativo del fatto concreto appare tutto già compreso nella norma che prevede il reato più grave. Ne consegue che la contemporanea applicazione della norma che prevede il reato meno grave condurrebbe ad un ingiusto moltiplicarsi di sanzioni.
La legittimazione di tali criteri, di matrice dottrinale, a disciplinare il fenomeno del conflitto apparente di norme, è del resto tutt’altro che pacifica. In dottrina tra le più importanti obiezioni che vengono mosse ai criteri appena descritti è che tali meccanismi non sarebbero normativamente previsti e, pertanto, vertendosi in tema di diritto penale, non potrebbero trovare applicazione. Di contro autorevole dottrina sfugge a tale obiezione rinvenendo il fondamento normativo del criterio di sussidiarietà nelle formule che vengono spesso utilizzate in apertura delle disposizioni incriminatici (a titolo meramente esemplificativo “qualora il fatto non costituisca più grave reato”, “fuori del caso indicato nell’art. […]”). Il criterio della consunzione a sua volta sarebbe disciplinato dalla disposizione relativa al reato complesso di cui all’art. 84 c.p., in base al quale “le disposizioni degli articoli precedenti (concernenti il concorso di reati) non si applicano quando la legge considera come elementi costitutivi, o come circostanze aggravanti di un solo reato, fatti che costituirebbero, per sé stessi, reato”. Sarebbe del resto lo stesso art. 15 c.p. a lasciare spazio a criteri diversi dalla specialità, nel momento in cui precisa, nell’inciso finale “salvo che sia altrimenti stabilito”.
La giurisprudenza sul punto è oscillante. Un arresto giurisprudenziale che avrebbe dovuto essere definitivo in quanto proveniente dalle Sezioni Unite è individuabile nella sentenza n. 47164 del 20 dicembre 2005 in materia di concorso tra il delitto di ricettazione e il delitto previsto dall’art. 171-ter della legge n. 633 del 1941. Preso atto del contrasto giurisprudenziale in merito all’esistenza di un concorso apparente di norme, la Suprema Corte concludeva in senso negativo, ritenendo di non dare applicazione al principio di consunzione o assorbimento, che riteneva principio infondato. Come si è avuto modo di osservare infatti il criterio di consunzione è criterio di matrice dottrinale. Peraltro l’inciso finale dell’art. 15 c.p., che parte della dottrina interpreta come formula di rinvio ad ulteriori principi di concorso apparente non disciplinati dalla norma, alluderebbe, secondo le Sezioni Unite, unicamente alle clausole di riserva previste dalle singole norme incriminatrici. Esse, in deroga al principio di specialità, prevedono sì, talora, l’applicazione della norma generale, anziché di quella speciale, considerata sussidiaria, ma si riferiscono appunto solo a casi determinati, non generalizzabili. In questo modo, negando la legittimazione dell’inciso finale dell’art. 15 c.p. all’applicazione del criterio della consunzione, le Sezioni Unite sembravano escludere anche la legittimità della sussidiarietà tacita laddove affermavano che soltanto “un’esplicita clausola normativa di riserva” è idonea a derogare al principio di specialità prevedendo talora l’applicazione della norma generale anziché di quella speciale.
(Del resto a parere della Suprema Corte i giudizi di valore che il criterio di assorbimento richiederebbe sono tendenzialmente in contrasto con il principio di determinatezza e tassatività, perché fanno dipendere da incontrollabili valutazioni intuitive del giudice l’applicazione di una norma penale.)
Tuttavia con la successiva sentenza Cass. pen., sez. I, n. 7629 del 24/01/2006, la prima sezione penale, ignorando i complessi problemi esaminati dalle Sezioni Unite, riabilita il principio di consunzione (e con esso, implicitamente, pure quello di sussidiarietà). Infatti si è ritenuto, nel caso di specie, che, se il reato di crollo di costruzione previsto dal secondo comma dell’art. 434 c.p. sia commesso cagionando l’incendio della costruzione (art. 423 c.p.), dovrà trovare applicazione solo la norma che incrimina il crollo. Ciò appunto in base al principio di consunzione tra norme che prevedono stati o gradi diversi di offesa di un medesimo bene (nel caso: la pubblica incolumità), in quanto l’offesa maggiore assorbe quella minore e, di conseguenza, l’applicabilità di una norma è subordinata alla mancata applicazione dell’altra.
CONCORSO O CONFLITTO DI NORME TRA DISPOSIZIONI PENALI E AMMINISTRATIVE E PRINCIPIO DI SPECIALITÀ
La sentenza in epigrafe, dovendo dirimere la questione della sussistenza di un conflitto apparente di norme tra l’art. 334 c.p. e l’art. 213 cod. str., affronta la delicata problematica del concorso di norme, così come prospettata, con l’ulteriore complicazione data dal fatto che si tratta di concorso tra una disposizione penale ed una amministrativa.
Il concorso apparente di norme tra disposizioni che prevedono illeciti penali ed amministrativi è espressamente disciplinato dall’art. 9 l. 689/1981, in base al quale “quando uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa (…) si applica la disposizione speciale”.
Considerato che il richiamo normativo è indirizzato unicamente al principio di specialità di cui all’art. 15 c.p., si pone la problematica se, in relazione a questo specifico fenomeno, ossia il concorso di norme tra disposizioni penali e amministrative, trovino applicazione pure gli ulteriori criteri, di sussidiarietà e consunzione, cui si è accennato.
La Corte sembra optare per la soluzione negativa, specificando che la stessa estensione del principio di specialità effettuata dall’art. 9 della l. 689/1981 costituisce una deroga al principio generale, e all’opinione tradizionale, secondo cui sarebbe possibile ravvisare un rapporto di genus ad speciem solo tra fatti inquadrabili in schemi propri di uno stesso ramo dell’ordinamento. La disposizione in esame stravolge pertanto il rapporto di rango tra il maggiore disvalore dell’illecito penale rispetto a quello dell’illecito amministrativo e rinuncia a considerare come appartenenti a distinti rami dell’ordinamento le norme punitive penali e amministrative, rendendo inoperante l’effetto deterrente della sanzione penale in tutti quei casi nei quali la fattispecie amministrativa presenti elementi specializzanti. Pertanto la stessa disciplina prevista dal legislatore del 1981, con il riferimento al principio di specialità, andrebbe interpretata e applicata, a parere della Suprema Corte, in senso rigorosamente restrittivo, escludendosi in radice il rinvio ad ulteriori criteri di matrice prettamente dottrinale.
Del resto nella giurisprudenza che affronta questa problematica, appunto del concorso apparante di norme tra disposizioni penali e amministrative, non si rinviene l’applicazione di criteri ulteriori rispetto a quello di specialità.
La Cassazione ha ritenuto ad esempio esistente (Cass. pen., sez. II, n. 12489 del 10/03/2005) un rapporto di specialità tra l’art. 16 della legge 248/2000 e la fattispecie disciplinata dall’art. 648 c.p. Ciò in considerazione della presenza nella prima fattispecie di tutti gli elementi strutturali della seconda, oltre quelli che gli attribuiscono e qualificano la sua specialità, in considerazione della particolare natura dei beni acquistati dall’agente. Da ciò, in forza di quanto disposto dall’art. 9 della legge 689/1981, e in applicazione del principio della legge più favorevole, l’inapplicabilità della sanzione penale conseguente alla sussistenza dell’ipotesi di ricettazione.
Analogamente conclude Cass. pen., sez. V, n. 39997, 11 ottobre 2005, secondo la quale tra l’art. 23 d.lgs. n. 152/1999 e l’art. 624 c.p. sussiste un concorso apparente di norme perché, a fronte dell’omogeneità della materia regolata (sottrazione e impossessamento di un bene altrui per il proprio vantaggio), l’art. 23 presenta carattere speciale rispetto alla disposizione codicistica.
Naturalmente, ove si tratti di concorso non apparente, ma formale, di norme penali ed amministrative, esse troveranno applicazione entrambe: ad esempio, “è configurabile il reato previsto dall’art. 674 c.p. nelle emissioni di onde elettromagnetiche generate da ripetitori radiotelevisivi, purché siano superati i valori indicativi dell’intensità di campo fissati dalla normativa specifica vigente in materia, a nulla rilevando la concreta idoneità delle immissioni stesse a nuocere alla salute umana, né potendo ipotizzarsi, in virtù del principio di specialità previsto dall’art. 9 l. n. 689/1981, la prevalenza della disposizione dettata dall’art. 15 l. n. 36 del 2001 – che contempla una sanzione amministrativa per il superamento dei limiti di inquinamento elettromagnetico – stanti i diversi beni tutelati da quest’ultima norma e da quella del c.p.” (Cass. pen., sez. I, n. 23066/02).
Si circoscrive dunque la questione all’applicabilità, tra l’art. 334 e l’art. 213 cod. str., del principio di specialità, escludendosi in radice l’operatività dei principi di sussidiarietà ed assorbimento.
CIRCOLAZIONE ABUSIVA DI VEICOLO SOTTOPOSTO A SEQUESTRO E ART. 334 C.P.
Questione preliminare alla problematica di fondo, ossia il rapporto sussistente tra il reato di cui all’art. 334 c.p e l’illecito amministrativo previsto dall’art. 213 cod. str., è se effettivamente la condotta di circolazione abusiva del veicolo sottoposto a sequestro amministrativo, condotta posta in essere dall’imputato, sia inquadrabile in una delle condotte previste dall’art. 334 c.p.
Solo in questo caso infatti, come è ovvio, potrà determinarsi quella confluenza di più norme incriminatici nei confronti di un medesimo fatto, che potrà risolversi in un concorso formale o meramente apparente di norme.
La mera circolazione, da cui non derivino la soppressione, distruzione o dispersione del veicolo è compatibile unicamente con le condotte di sottrazione e deterioramento, previste dalla fattispecie. In effetti la Cassazione ritiene che stessa circolazione non autorizzata del veicolo “implica, di per sé, la sottrazione del bene al vincolo d’indisponibilità della misura reale ed è pertanto condotta sufficiente a integrare il reato (oltre ovviamente l’illecito amministrativo ex art. 213 cod. str.).”
In questo senso si ritiene di non far coincidere il concetto di sottrazione con quello di appropriazione, essendo sufficiente anche la mera amotio del bene in oggetto per configurarsi il reato di cui all’art. 334 c.p..
È necessario tralasciare in questa sede i copiosi dibattiti dottrinali che hanno investito i concetti di sottrazione e di impossessamento in materia di delitti contro il patrimonio.
SOLUZIONE ADOTTATA DALLA CASSAZIONE: SPECIALITÀ “UNILATERALE” E “BILATERALE”
Appurato che effettivamente la condotta di circolazione abusiva del veicolo sottoposto a sequestro amministrativo è condotta riconducibile apparentemente sia all’art. 334 c.p. che all’art. 213 cod. str., che tra disposizioni penali e amministrative assume rilevanza ai fini del concorso apparente unicamente il principio di specialità, si pone la problematica, affrontata specificamente dalla sentenza in esame, del rapporto sussistente tra il reato di cui all’art. 334 c.p e l’illecito amministrativo previsto dall’art. 213 cod. str.. Ossia se tra tali fattispecie sussista o meno un rapporto di specialità.
La Suprema Corte dà atto dell’orientamento, sostanzialmente avallato dal giudice di merito, secondo il quale il principio di specialità opererebbe, almeno in astratto, a favore della norma dettata dal codice della strada. La specialità di tale norma si desumerebbe tenendo conto del contesto normativo in cui essa è inserita, che disciplina specificamente e compiutamente il sequestro amministrativo del veicolo, nonché dal fatto che la “circolazione” abusiva del veicolo sequestrato dall’organo di polizia concreta una condotta specifica di “sottrazione”, sia pure limitata nel tempo. Inoltre, secondo questa tesi, l’elusione del vincolo è elemento comune alle due fattispecie, ma l’uso del bene, per assumere rilievo sotto il profilo sanzionatorio penale, dovrebbe comportare il suo deterioramento, inteso come danneggiamento da verificarsi in concreto e non come mero logorio conseguente all’uso occasionale, ché altrimenti rientreremmo nuovamente nell’ambito operativo dell’art. 213 cod. str.
In questo senso, ritenendosi sufficiente per l’applicazione del principio di specialità una sovrapposizione delle fattispecie soltanto parziale, tale orientamento sembra legittimare anche la categoria, pur molto contestata, della specialità “bilaterale” o “reciproca”. Essa si verifica, come si è detto, quando lo stesso fatto concreto sia sussumibile in più fattispecie astratte che presentino alcuni elementi comuni tra loro ed altri, generici o tipizzanti. In tal caso il concorso apparente di norme si risolverebbe con l’applicazione della disposizione caratterizzata da maggiore specialità rispetto all’altra, verificando tale caratteristica sulla base del contesto normativo in cui la norma è collocata (specialità tra leggi), dei soggetti destinatari dell’obbligo penale (specialità tra soggetti), e, da ultimo, in base al maggior numero di elementi tipizzanti che rendono la fattispecie astratta più vicina al fatto concreto. Sono proprio questi gli elementi su cui poggia l’argomentazione di questo primo orientamento.
La Cassazione tuttavia, nella sentenza in epigrafe, sposa al contrario la tesi della specialità “unilaterale”, ritenendo necessaria l’integrale sovrapposizione delle fattispecie concorrenti, perché possa operare il principio di specialità. Il rapporto di specialità viene inteso come un rapporto di continenza strutturale tra due norme, nel senso che le relative fattispecie possono iscriversi – come due cerchi concentrici aventi un raggio disuguale – l’una nell’altra, per cui una di esse deve contenere in sé tutti gli elementi presenti nell’altra e, allo stesso tempo, presenta uno o più elementi specializzanti, per specificazione o per aggiunta, e la fattispecie speciale ha un ambito di applicazione logicamente minore rispetto a quella della fattispecie generale. Così delimitato l’ambito di operatività del principio di specialità, si potrà parlare di conflitto apparente di norme solo quando esse “sanzionino in modo convergente uno stesso fatto, intendendosi per tale, secondo un canone di tipo strutturale, la medesima situazione di fatto, la cui verifica comporta il raffronto tra le due fattispecie”.
La Suprema Corte, effettuata la verifica in ordine alla medesimezza del fatto oggetto delle due fattispecie, conclude in senso negativo, rilevando che l’art. 334 c.p. e l’art. 213 cod. str. sono due norme eterogenee e strutturalmente diverse, disciplinanti differenti situazioni di fatto e quadri di vita sociale.
Si sottolinea infatti nella pronuncia in esame che, in primo luogo, sono differenti le stesse condotte considerate dalle due norme: mentre la disposizione penale prevede una serie di comportamenti, tra loro equivalenti e alternativi, individuati nella sottrazione, soppressione, distruzione, dispersione, deterioramento della cosa sottoposta a sequestro nel corso di un procedimento penale o dall’autorità amministrativa, la sanzione amministrativa è prevista per un’unica condotta, la circolazione abusiva del veicolo durante il periodo in cui lo stesso è sottoposto a sequestro ex art. 213 Cod. Str..
Inoltre, si rileva, mentre il reato di cui all’art. 334 c.p. è reato proprio, essendo necessaria nel soggetto attivo la qualifica di “custode”, “proprietario-custode” o semplice “proprietario”, la disposizione amministrativa si rivolge genericamente a “chiunque”, avendo quindi come destinatario anche il soggetto che non riveste la qualifica di proprietario o di custode.
Infine, a mera conferma di quanto già sostenuto, la Suprema Corte rileva che pure il bene giuridico tutelato dalle due disposizioni è diverso. Come si è già avuto modo di notare infatti, il reato in considerazione è previsto a tutela della Pubblica Amministrazione, del buon andamento e dell’imparzialità della stessa. Tali beni giuridici riceverebbero certamente un pregiudizio dalla violazione degli obblighi di custodia, in quanto risulterebbe frustrato o comunque reso più difficoltoso il raggiungimento degli scopi caratteristici dei singoli procedimenti cautelari. L’illecito amministrativo mira invece a sanzionare “perché irregolare, l’abusiva circolazione stradale del veicolo sequestrato, tanto che, oltre al pagamento di una somma di denaro, prevede anche la sospensione della patente di guida, sanzione accessoria -questa- tipica del diverso interesse protetto, che è quello della sicurezza stradale”.
Dall’analisi condotta, la Suprema Corte desume l’inapplicabilità tra le disposizioni in esame del principio di specialità e la conseguente presenza di un concorso formale di norme, almeno nell’ipotesi in cui sia stato effettivamente il proprietario o il custode, come nel caso di specie, l’autore della circolazione abusiva del veicolo sottoposto a sequestro amministrativo. Sono infatti corollari logici di questa ricostruzione interpretativa il fatto che: se a circolare con il veicolo sequestrato sia lo stesso proprietario o custode, egli risponderà sia dell’illecito amministrativo in esame, sia del reato previsto dall’art. 334 c.p., qualora sia invece un terzo (non proprietario né custode) egli risponderà del solo illecito amministrativo, essendo il reato previsto dall’art. 334 c.p., come detto, un reato proprio. Tale ricostruzione non esclude peraltro, ovviamente, la possibilità di configurare un concorso doloso (334 c.p.) o colposo (335 c.p.) del proprietario o del custode che abbiano agevolato la sottrazione del veicolo in sequestro da parte del terzo, né d’altra parte l’eventualità di un concorso dell’extraneus nel reato proprio, qualora il terzo abbia fornito un contributo causale alla condotta di sottrazione del bene attuata dal proprietario o dal custode.
PRINCIPIO DI SPECIALITÀ E CONCETTO DI “STESSA MATERIA”
La soluzione giurisprudenziale appare dunque conforme, ad uno sguardo conclusivo, con quelli che sono gli orientamenti dottrinari e giurisprudenziali maggioritari. In particolare, in relazione alla delimitazione dell’ambito dell’operatività del principio di specialità, il quale richiede, come previsto dallo stesso art. 15 c.p. che le disposizioni in concorso regolino la “stessa materia”.
La Cassazione afferma espressamente che “la verifica comporta il raffronto tra le due fattispecie, al fine di stabilire se tra le stesse, considerate in astratto, vi sia omogeneità, quanto agli elementi costitutivi dell’illecito, all’ambito dei soggetti attivi, all’oggetto giuridico e all’interesse protetto, salva la presenza nella norma speciale di quel quid pluris che ne determina l’applicabilità in via esclusiva”.
Da ciò si desume non, come si ha già avuto modo di sottolineare, che non viene accolta la teoria della specialità “bilaterale” o “reciproca”, ma anche che non ha trovato applicazione neppure la teoria della cosiddetta “specialità in concreto”. Secondo tale teoria il principio di specialità opererebbe non solo nei rapporti tra un fatto e più figure criminose, l’una delle quali rientra necessariamente e sempre in tutti i suoi elementi costituitivi rientra necessariamente e sempre in tutti i suoi elementi costitutivi nell’altra, ma anche quando uno stesso fatto concreto sia riconducibile in tutti i suoi elementi ad entrambe le figure, pur se tra le medesime in astratto non sussista una relazione da genere a specie. La sentenza in epigrafe al contrario, seguendo la giurisprudenza maggioritaria (Cass. Sez. Un. n. 12/01), ha svolto una comparazione tra le fattispecie astratte, intese quali settori, aspetti dell’attività umana, non prendendo invece in considerazione direttamente l’episodio in concreto verificatosi, e la sua ipotetica sussumibilità sotto più norme giuridiche.
Peraltro, utilizzando la diversità dei beni giuridici solo quale argomento ad abundantiam per sostenere l’inapplicabilità del principio di specialità, la Suprema Corte prende posizione anche in merito ad altro orientamento dottrinario. Infatti secondo alcuni, peraltro autorevoli, Autori, l’espressione “stessa materia”, andrebbe riferita a norme che siano poste a tutela del medesimo bene giuridico, o, quantomeno, di beni giuridici omogenei. In realtà si tratta di orientamento che ormai trova ben poco seguito, obiettandosi a tale interpretazione la pretesa di inserire, tra i presupposti dell’art. 15 c.p., un elemento che ne stravolge la funzione.