L’annosa questione sul concorso tra i reati di cui agli articoli 479 e 483 Cp
Con la sentenza che qui si annota(1), pubblicata in Diritto&Giustizia del 25 settembre 2007, le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno espresso un principio di diritto fondamentale, rispetto ad una tematica oggetto di contrasto giurisprudenziale tra le stesse Sezioni della Suprema Corte.
La problematica in questione attiene la configurabilità dei delitti ex artt. 110 e 483 cod. pen., in relazione all’art. 26 della legge n. 15/1968, in materia rispettivamente di concorso di persone nel reato e di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico, nonché dei delitti di cui agli artt. 48 cod. pen. in combinato disposto con l’art. 479 cod. pen. in materia di errore determinato dall’altrui inganno e falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici.
Da questi primi elementi è possibile individuare che l’incertezza su cui verte il conflitto interpretativo si riferisce alla sussistenza o meno di un rapporto di strumentalità della dichiarazione del privato rispetto alla falsità ideologica che il pubblico ufficiale ha posto in essere.
Orbene, il nodo interpretativo suddetto si pone in rapporto a due possibili visuali: il falso per induzione in errore del pubblico ufficiale sarebbe configurabile soltanto nell’ipotesi in cui la falsa attestazione provenga da questi sulla base di dichiarazioni del privato che però egli integri con una attestazione di rispondenza al vero?
O, di contro, di falso vi è solo la dichiarazione del privato, che ne è l’autore immediato, se la attestazione proviene da quest’ultimo e il pubblico ufficiale si limita a riprodurla nell’atto pubblico a sua firma?
Si tratta, dunque, di questioni di difficile approccio, che hanno trovato ampia trattazione nella sentenza in commento.
IL CASO
La vicenda oggetto del giudizio in parola ha visto affermata la responsabilità penale di S.D. e di L.B., quali rappresentanti legali di due società di capitali pugliesi.
Gli imputati, a parere degli inquirenti, avrebbero inviato, ai fini della partecipazione alla procedura di licitazione privata per l’appalto dei lavori di costruzione della nuova sede dell’Istituto polivalente di Manfredonia, due dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà, nelle quali affermavano falsamente che le società suddette erano iscritte all’Albo nazionale costruttori in data anteriore al 24.11.1999, requisito indispensabile per la partecipazione alla gara, giacché la detta iscrizione a quest’ultima doveva essere antecedente.
In realtà, la suddetta iscrizione era stata espletata posteriormente alla data sopra citata.
Gli imputati avevano partecipato alla licitazione privata per l’appalto dei lavori di costruzione sopra specificati, allegando le dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà, in cui attestavano la iscrizione delle società all’Albo in data anteriore al 24.11.1999.
La procedura si concludeva con l’aggiudicazione dell’appalto in loro favore, con la conseguenza che i relativi e successivi atti deliberativi e dispositivi erano stati redatti sulla base della condicio sine qua non dell’iscrizione all’Anc alla data del 24.11.1999.
A parere degli inquirenti tale, condotta configurerebbe il delitto di cui all’art. 483 c.p., in continuazione con il reato ex art. 479.
Nella prima fattispecie si delinea il reato di dichiarazione di falso ideologico di privato in atto pubblico, in relazione ad un obbligo di attestare il vero. Nella seconda, si configura un ulteriore reato di falso ideologico, questa volta per induzione in errore dei pubblici ufficiali, in quanto gli imputati, ponendo in essere la condotta dinanzi descritta, inducevano in errore il dirigente dei servizi tecnici e i componenti della Giunta provinciale sull’effettiva esistenza di un requisito indispensabile di partecipazione alla licitazione privata. Tali funzionari, infatti, sulla base delle suddette dichiarazioni, attestavano falsamente negli atti pubblici adottati che le due società erano iscritte all’Albo nazionale costruttori in data anteriore al 2.11.1999.
La Corte di Appello di Bari, con sentenza del 27.1.2006 confermava la pronuncia resa in data 3.12.2002 del Tribunale di Foggia, condannando gli imputati alla pena di un anno di reclusione.
Avverso tale provvedimento, proponeva ricorso il difensore degli imputati contestando ed impugnando quanto affermato dalla Corte di Appello di Bari sul presupposto che il reato di falso ideologico per induzione in errore, ex artt. 48 cod. pen. e 479 cod. pen.. sia assorbito dalla previsione di legge ex art. 483 c.p. rubricato “Falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico”.
I CONTRASTANTI DICTA DELLA GIURISPRUDENZA ED IL VIVACE DIBATTITO DOTTRINALE
La condotta posta in essere dagli imputati è ascrivibile all’art. 483 c.p.. che punisce con la reclusione fino a due anni “chiunque attesta falsamente al pubblico ufficiale, in atto pubblico, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità”.
Oggetto giuridico tutelato dalla disposizione in commento è quello comune a tutti i reati di falso e cioè la tutela della fede pubblica: con questa espressione s’intende la fiducia riposta dalla collettività, ai fini di un più sicuro e spedito traffico giuridico- economico, sulla veridicità di determinate situazioni, di tal che questa vede attribuirsi la funzione di parametro di giudizio delle diverse condotte di falso. Questa, che si sostanzia in un bene giuridico immateriale, viene tutelata penalmente, in funzione però di altri beni giuridici giuridicamente rilevanti.
Occorre dapprima evidenziare che taluno ai fini della configurabilità dei reati in esame occorre prendere in considerazione anche gli scopi ulteriori che vengono perseguiti dall’autore del reato; si parla all’uopo di “illeciti penali plurioffensivi”, e cioè di reati che offendono una pluralità di interessi: all’offesa della pubblica fede si accompagna l’offesa ulteriore dell’interesse specifico sostanziale salvaguardato dalla norma.
Tale teoria non è però esente da critiche. Aderendo a tale tesi, si obietta, si dovrebbe richiedere anche la prova dell’offesa dell’interesse specifico, a scapito della fase di accertamento dell’offensività della condotta che ne risulterebbe appesantita.
Il dovere di dichiarare il vero è strettamente connesso all’efficacia probatoria dell’atto pubblico nel quale i fatti sono attestati. Secondo la Suprema Corte, deve ritenersi “pubblico” qualunque atto proveniente da un pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni e destinato ad inserirsi in un procedimento della pubblica amministrazione.
A differenza della scrittura privata, per cui può essere punito solo il falso materiale, nell’atto pubblico la tutela è estesa anche al falso ideologico in considerazione dell’aspettativa che si ricollega agli enunciati provenienti dalla p.a.
L’art. 483 c.p. è posto pertanto a presidio della veridicità sostanziale della dichiarazione ovvero della verità del fatto attestato dalla dichiarazione stessa. In tale fattispecie la falsità ideologica si presenta mediata e indiretta, poiché la falsa dichiarazione, pur riflettendosi in un documento pubblico, non è attribuibile all’autore di questo, cioè al pubblico ufficiale, bensì ad una terza persona, cioè il privato.
Nel caso disciplinato nell’art. 483, il pubblico ufficiale si limita a trasfondere nell’atto pubblico la dichiarazione ricevuta dal privato, della cui veridicità risponde soltanto quest’ultimo, in riferimento ad un preesistente obbligo di affermare il vero, mentre di contro il pubblico ufficiale risponde solo della conformità dell’atto alla dichiarazione presentata dal privato.
Nel panorama dottrinale e giurisprudenziale, le condotte di falso in atti vengono suddivise in “falsi materiali”, ove ad essere lesa è la genuinità del documento e “falsi ideologici”, dove invece il documento, anche senza essere contraffatto né alterato, contiene tuttavia dichiarazioni menzognere.
Secondo parte della dottrina (Antolisei, 1997) la classificazione suddetta rileva anche ai fini della disciplina da applicare, in quanto mentre le falsità materiali sono sempre punibili in quanto giuridicamente rilevanti, le falsità ideologiche, invece, richiedono anche la condizione di punibilità della violazione di un obbligo giuridico di attestare il vero. È dunque pacifico che la tutela giuridica prospettata dall’art. 483 consiste nella pubblica fede documentale attribuita agli atti pubblici non in relazione a ciò che attesta il pubblico, bensì in ordine al dovere giuridico del dichiarante di affermare la verità.
È opinione, altresì, condivisa che la norma dell’art. 483 non stabilisca in capo al privato un obbligo assoluto e generale di attestare il vero, bensì che la norma presupponga l’obbligo del dichiarante di dire la verità, la cui violazione rappresenta la fonte del rimprovero.
La condotta degli imputati, ancora, trova fondamento sull’obbligo derivante dalla legge Bassanini bis e ter, poi trasfuso nel D.P.R. 28.12.2000, n. 445 (Testo unico in materia di documentazione amministrativa), in virtù del quale, “le dichiarazioni sostitutive rese ai sensi degli artt. 46 e 4 sono considerate come rese a pubblico ufficiale”.
La fattispecie in esame richiama, ulteriormente il dettato di cui all’art. 479 c.p. il quale punisce la condotta del “pubblico ufficiale che, ricevendo o formando un atto nell’esercizio delle sue funzioni, attesta falsamente che un fatto è stato da lui compiuto o è avvenuto alla sua presenza, o attesta come da lui ricevute dichiarazioni a lui non rese, ovvero omette o altera dichiarazioni da lui ricevute, o comunque attesta falsamente fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità”.
La norma, quindi, colpisce la condotta posta in essere da un pubblico ufficiale, non essendo possibile al privato formare atti di siffatta portata.
In tale contesto normativo si inserisce l’art. 48 c.p. Trattasi di una norma di portata generale astrattamente configurabile in capo ad ogni figura di reato. Essa dispone che “se l’errore sul fatto che costituisce il reato è determinato dall’altrui inganno (….) del fatto commesso dalla persona ingannata risponde chi l’ha determinata a commetterlo”.
Il reato di falso ideologico di cui all’art. 479 cod. pen. è reato a fattispecie multipla a condotta tipica. Tutte le ipotesi delittuose della norma attengono all’attività di attestazione del pubblico ufficiale. Perché sia configurabile la fattispecie di falso ideologico è necessario che la attestazione provenga dal suo autore apparente, che sia cioè genuina, in quanto è irrilevante se sia veritiero un atto materialmente falso.
La falsità ideologica si distingue da quella materiale, poiché l’atto, pur provenendo da chi ne risulta autore e non presentando alterazioni, contiene una attestazione non veritiera effettuata al momento della sua elaborazione. Invece, integra la ipotesi di falsità materiale ogni aggiunta successiva all’atto, anche se operata dal suo autore, sempre che non si configuri come mera correzione dell’atto, in questo caso non punibile.
La falsità ideologica si determina ogniqualvolta la non veridicità colpisca non già la materialità dell’atto, bensì il suo contenuto ideale, nel senso che quest’ultimo, pur provenendo dall’autore apparente, non è veritiero rispetto al suo contenuto.
Ai fini della configurabilità del reato di falsità ideologica in atto pubblico costituisce elemento irrilevante l’omessa menzione nell’atto stesso del compimento da parte del pubblico ufficiale dell’attività di accertamento dell’attestazione.
Il falso ideologico presuppone, invece, il necessario occultamento della situazione reale.
La condotta criminosa, infatti, è scindibile in due momenti: l’attestazione del fatto non vero e l’occultamento di quello vero: il reato di falsità in atto pubblico sussiste se la falsità concerne atti che il pubblico ufficiale abbia attestato come da lui compiuti, a patto che l’attestazione sia funzionale rispetto all’atto e rilevante rispetto al contenuto e alla funzione del documento.
In quest’ottica il panorama giurisprudenziale si presenta connotato da un contrasto interpretativo, che vede opposti due diversi orientamenti.
Da un lato, si attesta la posizione delle Sezioni Unite, che con sentenza 24 febbraio 1995, n. 1827, ha disposto che l’atto pubblico redatto sulla base di un altro atto ideologicamente falso, è anch’esso da considerarsi tale.
Il ragionamento che si pone alla base di questa interpretazione è tale per cui se funzione di un atto pubblico è quella di certificare attestazioni presumendole vere, qualora le attestazioni medesime siano false, conseguentemente sarà falso anche l’atto pubblico che vi si basa.
L’opposto orientamento, invece, ritiene che non si configurerebbe delitto di falso per induzione in errore del pubblico ufficiale, allorquando l’atto pubblico, adottato a seguito della presentazione dell’atto falso da parte del privato, non è volto ad accertare “il fatto” oggetto della attestazione falsa, bensì “l’atto”, in cui ha trasfuso l’attestazione di un certo fatto. Dunque, secondo questo seconda interpretazione, il pubblico ufficiale se si limita a riportare l’attestazione del privato, rivelatasi successivamente mendace, non porrebbe in essere una falsa attestazione, bensì, presupponendo come vero il fatto attestato dal privato, svolgerebbe semplicemente un argomentazione errata.
Ed invero ritornando al caso in commento i giudici di appello di Bari argomentavano la loro sentenza, fondandola sul presupposto dell’esistenza del concorso dei due reati di falso ideologico per induzione in errore, ex artt. 48 e 479 cod. pen. e di falso ideologico del privato, ex art. 483 cod. pen., considerando che la falsa dichiarazione del privato, configurando già di per se ipotesi di rato, si pone anche in rapporto strumentale con la falsità ideologica posta in essere dal pubblico ufficiale.
Gli avvocati difensori degli imputati chiedevano di ritenere assorbito il reato ex artt. 48 e 479 c.p. in quello ex art. 483 c.p., fondando tale richiesta sul diverso orientamento, in virtù del quale il reato di falso per induzione in errore del pubblico ufficiale si configurerebbe soltanto nell’ipotesi in cui la falsa attestazione venga integrata dal pubblico ufficiale medesimo con una attestazione di rispondenza al vero.
Di contro, nei casi in cui il pubblico ufficiale si limita a riprodurre la attestazione proveniente dal privato, allora dovrà riconoscersi falsa solo la dichiarazione del privato , mentre non si configurerebbe l’ipotesi di falso per induzione con autore mediato.
L’errore può anche derivare dall’inganno in cui l’agente sia tratto per opera di un’altra persona. A tale riguardo, l’art. 48 cod. pen. stabilisce “Le disposizioni dell’articolo precedente si applicano anche se l’errore sul fatto che costituisce reato è determinato dall’altrui inganno; ma, in tal caso, del fatto commesso dalla persona ingannata risponde chi l’ha determinata a commetterlo”.
Dal punto di vista strutturale, l’errore deve ricadere su di un elemento costitutivo del reato, giacché esso non escluderebbe il dolo e la responsabilità permarrebbe.
Sono, pertanto, privi di efficacia scusante gli errori vertenti sui motivi, sulle circostanze e simili.
L’inganno, come fonte dell’errore, deve essere rappresentato dall’impiego di mezzi fraudolenti sostanzialmente assimilabili agli artifici e ai raggiri del delitto di truffa.
Ciò che rivela è che l’inganno determini una falsa rappresentazione della realtà.
L’inganno si configurerebbe soltanto allorquando si connoti di una particolare idoneità causale a provocare l’errore.
Dunque, l’errore verrebbe meno se fosse evitabile con l’uso della normale diligenza.
La suddetta tesi, tuttavia, non è convincente, in quanto richiamando l’art. 48 cod. pen. il precedente art. 47, la legge ammette la possibilità che l’inganno del decipiens e la colpa del deceptus concorrano a determinare una falsa rappresentazione e che, conseguentemente, quest’ultimo debba rispondere a titolo di colpa.
Al fine di definire un ipotesi di responsabilità è sufficiente la sola condotta ingannatrice, in quanto il fatto di generare in altri un errore è concepibile come efficace mezzo di determinazione dell’altrui volontà.
Pertanto l’art. 48 disciplinerebbe un’ipotesi di autorità mediata: il decipiens si servirebbe del deceptus come mero strumento esecutivo del reato, cosicché il vero ed unico autore del fatto criminoso non sarebbe l’esecutore immediato del fatto, bensì l’autore mediato dell’inganno.
Tutto ciò premesso le Sezione Unite penali della Corte Suprema, data l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale sono pertanto intervenuto al fine di dirimere gli opposti ed oscillanti orientamenti sin’ora delineatisi.
Il punto nodale della questione attiene all’interpretazione se il reato di falsità del privato determina un’altra falsità, quella ideologica in atto pubblico, posta in essere dal pubblico ufficiale, il quale, tuttavia, non ne risponde per mancanza di dolo.
La problematica da definire, quindi, è capire se la condotta dei pubblici ufficiali abbia dato luogo o meno ad un atto pubblico ideologicamente falso.
Secondo l’accusa, nella fattispecie specifica, i pubblici ufficiali si limitarono a prendere atto dell’attestazione degli imputati.
LA DECISIONE DELLA CORTE
Ed invero le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno sanato il contrasto interpretativo su esposto, dichiarando la colpevolezza degli imputati, ascrivendone i reati alle norme degli artt. 483 c.p. e artt. 48 e 479 c.p.
Innanzi tutto, la Suprema Corte ha individuato gli elementi costitutivi del delitto di cui all’art. 483 cod. pen., posto che gli imputati hanno falsamente attestato il possesso in capo alle società da loro rappresentate del requisito indispensabile, ai fini dell’aggiudicazione della gara di appalto, della iscrizione all’Albo nazionale costruttori.
Il reato in esame si presenta come un delitto omissivo doloso, in quanto caratterizzato da una dichiarazione mendace posta in essere dal privato.
Tale falsità determina un’altra falsità, ideologica in atto pubblico, posta in essere dal pubblico ufficiale. Compito delle Sezioni unite è consistito nello stabilire se il reato di falsa attestazione del privato concorra con il delitto di falsità per induzione in errore del pubblico ufficiale nella redazione dell’atto pubblico.
La Corte nella sua decisione richiama espressamente uno degli orientamenti giurisprudenziali sopra esposti ed in particolare la sentenza delle Sezioni Unite del 1995.
La Suprema Corte, in quella occasione, dichiarò che “tutte le volte in cui il pubblico ufficiale adotti un provvedimento, a contenuto descrittivo o dispositivo, dando atto in premessa, anche implicitamente, della esistenza delle condizioni richieste per la sua adozione, desunte da atti o attestazioni non veri prodotti dal privato, si è in presenza di un falso del pubblico ufficiale del quale risponde, ai sensi dell’art. 48 cod. pen., colui che ha posto in essere l’atto o l’attestazione non vera”.
Conseguenza logica, dunque, è che se i presupposti dell’atto sono falsi, è falsa altresì l’attestazione circa l’esistenza dei presupposti medesimi.
Tutte le volte in cui il pubblico ufficiale adotti un provvedimento, dando atto in premessa, anche implicitamente, dell’esistenza delle condizioni richieste per la sua adozione, desunte da atti o attestazioni non veri fornite dal privato, si è in presenza di un falso del pubblico ufficiale , del quale risponde colui che ha posto in essere l’atto o la attestazione non vera.
A parere della Corte il falso ideologico si consumerebbe anche in relazione delle attestazioni anche soltanto implicite dell’atto.
Infatti, le condotte necessarie e sufficienti a determinare i delitti in questione sono riscontrabili nel comportamento del privato consistente nella falsa attestazione che ha poi determinato l’induzione in errore del pubblico ufficiale, non necessitando la fattispecie di alcunché di aggiuntivo rispetto alla falsa dichiarazione o all’atto mendace prodotto.
Pertanto si delineerebbe, un rapporto di causa-effetto tra l’attestazione non veritiera del privato e il contenuto dispositivo dell’atto del pubblico ufficiale, con la conseguenza che la falsità del primo si riversa sul secondo.
Quindi, il provvedimento del pubblico ufficiale è ideologicamente falso.
Tuttavia, di tale falso non risponde il pubblico ufficiale medesimo, giacché in buona fede e tratto in inganno, bensì il soggetto che lo ha indotto in inganno.
La Suprema Corte nella sentenza che qui si annota sulla scorta del dictum della giurisprudenza del 1995 ha statuito che si è in presenza di un falso del pubblico ufficiale, del quale peraltro ai sensi dell’art. 48 c.p. risponde colui che ha posto in essere la falsa attestazione, ogni qualvolta il primo adotti un provvedimento nella cui premessa viene dato atto, anche implicitamente di condizioni desunte da dichiarazioni o attestazioni prodotti dal privato dimostratisi poi non vere e necessarie per la sua adozione; ciò a prescindere dalla natura descrittiva o dispositiva del documento.
Con riferimento alla seconda tipologia infatti, la falsità ideologica atterrebbe comunque alla parte “descrittiva” dello stesso, e nello specifico alla mendace attestazione dell’esistenza di un presupposto indefettibile dell’atto richiesto, indifferentemente dalla natura esplicita o meno della stessa: l’omessa menzione di una determinata attività del pubblico ufficiale infatti a nulla rileva quando costituisce condizione normativa dell’attestazione, facendosi quindi riferimento al contenuto implicito dell’atto stesso.
Appare quindi non condivisibile la soluzione dottrinale (A. Nappi, Falso e legge penale, 1989, p. 110) secondo la quale il falso ideologico può attenere anche ad un atto dispositivo scevro da qualsiasi attestazione, anche implicita, circa l’esistenza di una presupposto indefettibile.
Il pubblico ufficiale compirebbe perciò una falsa attestazione di rispondenza a verità – connessa alla funzione fidesfaciente che la legge assegna alle dichiarazioni dei privati – circa la presenza effettiva dei requisiti richiesti, non limitandosi quindi, come invece sostenuto da altro orientamento2, ad una mera attestazione delle dichiarazioni del privato, e pervenendo pertanto ad una conclusione errata. La falsità dell’atto del privato, ponendosi come presupposto del provvedimento emanato dal pubblico ufficiale in un rapporto di causa-effetto, inficia anche quest’ultimo diventando falsità sua propria: in tal modo la falsa attestazione del decipiens diventa anche falsa attestazione del pubblico ufficiale sui fatti dei quali l’atto pubblico deve provare la verità, ma che falsamente sono stati dichiarati dal primo.
Quest’ultimo porrebbe in essere quindi una prima condotta redigendo la falsa attestazione; una seconda, consistente nella produzione di tale attestazione, si concretizzerebbe invece nell’induzione in errore del pubblico ufficiale, di tal modo configurando un concorso materiale tra i due reati.
Rispetto alla dichiarazione mendace prodotta dal privato, nell’atto del pubblico ufficiale può non riscontrarsi, tra l’altro, un quid pluris, consistente in una situazione di fatto più ampia rispetto alla dichiarazione mendace del privato. Il reato di cui all’art. 479 c.p. può essere infatti commesso con varie modalità, tra cui la falsa attestazione di “fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità” dalla quale discende la falsità della premessa, che deve avere riguardo circa l’esistenza di un presupposto indefettibile dell’atto.
La Suprema Corte ha enunciato quindi il principio secondo il quale, quando la falsa attestazione del privato riguardi fatti da provare con l’atto pubblico e sia prevista di per sé come reato, quest’ultimo può concorrere con quello di falsità per induzione in errore del pubblico ufficiale.
Nel caso in esame le false dichiarazioni degli imputati, che già di per loro configurano la fattispecie di cui all’art. 483 c.p., sono state a ben vedere ritenute strumentali agli atti pubblici successivamente redatti, sussistendo quindi anche il reato di cui agli art. 48 e 479 c.p.
1 Cass. 24 settembre 2007, n. 35488.
2 Cass. 26.10.2001, n. 38453. Secondo questa sentenza condizione necessaria per l’applicabilità dell’art. 48 c.p. ai reati di falso sarebbe il compimento di una attestazione mendace da parte del soggetto ingannato, e non anche una mera argomentazione errata.