Il bacio quale atto idoneo a compromettere la libertà sessuale di un soggetto. Nota a Cass. Sez. III 2 luglio 2007, n. 25112
Approda in Cassazione lo scottante argomento dei “baci rubati”. Con un’attenta ed approfondita motivazione, la III Sezione della Suprema Corte con la sentenza n. 25112/07 pubblicata su Diritto&Giustizia del 4 luglio 2007, ha rigettato il ricorso di un cinquantenne napoletano, ex bidello di una scuola media, confermando la condanna dello stesso alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione perché colpevole del reato di cui all’art. 609 quater c.p. per aver baciato due volte sulle labbra una giovane alunna di anni tredici.
I giudici capitolini hanno infatti stabilito che anche il bacio circoscritto al semplice contatto delle labbra può configurare un atto sessuale idoneo ad invadere la sfera intima del soggetto passivo.
Il bacio stesso è, pertanto, sufficiente a configurare le fattispecie penali di cui agli artt. 609 bis (violenza sessuale) e 609 quater (atti sessuali con minorenne).
La soluzione della Corte non prescinde, comunque, da un’attenta valutazione del contesto sociale e culturale in cui si realizza la condotta stessa.
Nozione di atto sessuale.
La legge n. 66/1996 ha determinato un mutamento sostanziale dell’oggettività giuridica dei delitti in materia di libertà sessuale in quanto, diversamente dal passato, i delitti sessuali diventano delitti contro la “persona” e non più contro la moralità pubblica e il buon costume. Dopo l’entrata in vigore della legge in questione, l’individuazione della condotta tipica del reato di “violenza sessuale” è strettamente connesso a quella che è la definizione, il contenuto e i limiti della locuzione “atti sessuali”.
La problematica sottesa esige la disamina delle varie pronunce della Cassazione susseguitesi negli ultimi anni che hanno avuto ad oggetto diverse fattispecie configuranti il reato in esame.
Il codice penale non ci fornisce una precisa definizione di “atto sessuale”, nata dall’unificazione delle due separate categorie di violenza carnale e atti di libidine, lasciando all’interprete una valutazione caso per caso del singolo fatto.
La dottrina ha tentato di attribuire al concetto di “violenza sessuale” un significato univoco come l’esercizio di una forza fisica di notevole entità, anche se non spinta al massimo della brutalità, diretta a soppiantare la resistenza della vittima.
Occorre, però, prospettare una preliminare distinzione tra atti sessuali in senso soggettivo ed atti sessuali in senso oggettivo.
Atti sessuali in senso soggettivo sono quelli caratterizzati dal movente ovvero dall’atteggiamento interiore dell’individuo, capace di esternarsi in specifici comportamenti esterni, ad esempio, la parte del corpo oggetto di attenzione libidinosa, le modalità con cui avviene il contatto sessuale, ovvero le espressioni utilizzate. Difficoltosa risulta essere la distinzione tra atti di congiunzione carnale e atti di libidine violenta quali abbracci, carezze e sfregamenti. Mentre i primi hanno una chiara e implicita natura sessuale, i secondi, data la pluralità di accezioni, possono essere indifferentemente considerati come atti di libidine, ingiuria o violenza privata a seconda del movente psichico che ne accompagna l’esternazione, ovvero a seconda che siano indirizzati a soddisfare un impulso di libidine, ad offendere, e così via.
Atti sessuali in senso oggettivo sono quelli che prescindono dall’impulso interno o psicologico che spinge il soggetto ad agire e che richiedono un’approfondita analisi medico – psicologica e sociologica, come statuito dalla giurisprudenza della Suprema Corte[1].
In tal senso, dunque, un comportamento non può essere definito “sessualmente rilevante” a priori, necessitando di una contestualizzazione che tenga conto dei costumi, delle usanze, e del periodo storico in cui il soggetto agisce[2].
La dottrina e giurisprudenza[3] che tende ad interpretare in senso oggettivo l’atto sessuale è spinta, prevalentemente, da due ordini di fattori:
1) in primo luogo, dalla necessità di chiarire i concetti, ormai abbondantemente superati, di atto di libidine e di congiunzione carnale, dai contorni sempre meno netti e inadeguati dal punto di vista culturale e sociale;
2) in secondo luogo, dall’esigenza di catalogare tassativamente le tipologie delittuose in esame, ignorando gli elementi soggettivi della vittima e dell’autore, i quali non risultano sempre e facilmente individuabili, eliminando, in tal modo, la necessità di svolgimento di ulteriori imbarazzanti indagini circa le concrete modalità di svolgimento del fatto.
Tale progetto interpretativo si è dimostrato inattuabile in considerazione del fatto che nemmeno nella letteratura scientifica è possibile reperire una nozione univoca di atto sessuale. Parte della dottrina[4] ha sollevato un problema di costituzionalità in relazione all’espressione “atti sessuali” che difetterebbe di determinatezza. Su tale questione si è pronunciata la Corte Costituzionale la quale ha dichiarato manifestamente inammissibile, con riferimento all’art. 25 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 609bis c.p., nella parte in cui difetterebbe di determinatezza per aver sussunto sotto una medesima disposizione di legge fatti che prima integravano i diversi reati di violenza carnale e di atti di libidine violenti, e unificando le condotte medesime mediante l’utilizzo della locuzione “atti sessuali”, senza alcuna ulteriore descrizione.
L’empasse viene superata se si accetta di concepire la nuova definizione di atti sessuali come conseguenza della fusione di due fattispecie di reato, quello di violenza carnale e di atti di libidine. Emerge quindi un concetto di atto oggettivamente ed univocamente sessuale[5], comprensivo di tutti gli atti da contatto fisico diretti verso quelle che, secondo il comune sentire della collettività, vengono definite come zone erogene sia del proprio che dell’altrui corpo, come tali dirette a compromettere la libera determinazione della sessualità del soggetto passivo.
Elemento soggettivo del reato.
In ossequio alla suddetta interpretazione oggettiva di “atto sessuale”, il dolo del reato si esplica nella “coscienza e volontà di compiere un atto lesivo della libertà sessuale della persona offesa, senza che rilevi l’ulteriore fine dell’agente, che, in genere, è quello di soddisfare la sua concupiscenza, ma può anche essere un fine ludico o di umiliazione della vittima”. Da ciò ne consegue che non può definirsi come atto sessuale quell’atto di concupiscenza che non incide sulla sfera di sessualità della vittima, ma offende solo il sentimento pubblico del pudore e la sua moralità pubblica. In sostanza, quindi, la condotta diventa penalmente rilevante quando l’atto corporeo pone in pericolo la libera autodeterminazione della sfera sessuale. In tal senso viene recepito l’orientamento consolidato[6] secondo il quale “l’intrusione nell’altrui sfera sessuale” non deve limitarsi alle zone genitali, ma includere parti dette, generalmente erogene, secondo criteri tecnico-scientifici. Dal punto di vista soggettivo, quindi, è sufficiente il dolo generico caratterizzato dalla consapevolezza dell’agente di compiere atti pervasivi dell’altrui sfera sessuale e che la condotta può estrinsecarsi, oltre che mediante violenza, anche con un’insidia in grado di superare il necessario consenso della persona offesa. Coerentemente con tale affermazione di principio, la Corte di Cassazione, nella pronuncia in commento, ha affermato che il comportamento di colui che bacia sulle labbra una tredicenne è da considerare come violenza sessuale su minorenne ai sensi dell’art. 609 quater c.p., in quanto tale comportamento è in ogni caso idoneo a compromettere la libertà sessuale del soggetto passivo, invadendo la sfera sessuale di questo mediante un rapporto corpore corpori[7].
In senso contrario, non integrano la suddetta fattispecie “tutti quegli atti che, pur essendo espressivi di concupiscenza sessuale, siano però inidonei ad intaccare la sfera della sessualità fisica della vittima, comportando essi soltanto offesa alla libertà morale di quest’ultima o (ricorrendone i presupposti) al sentimenti del pubblico pudore”[8].
La sentenza in parola peraltro conferma il precedente orientamento giurisprudenziale della medesima sezione della Suprema Corte, la quale con sentenza del 26.03.2007 n° 12425 ha ricompreso nel concetto di atti sessuali non solo quelli che involgono la sfera genitale, ma anche quelli che interessano zone erogene su persona non consenziente; pertanto integra la fattispecie de qua anche il mero sfioramento con le labbra sul viso altrui per dare un bacio, quando l’atto, data la sua “rapidità ed insidiosità”, sia tale da sopprimere la contraria volontà del soggetto passivo.
Interessante appare, inoltre, la pronuncia dei giudici[9] capitolini, in base alla quale anche l’inerzia incosciente della persona offesa, ossia quello stato di inattività che non dipende dalla rinuncia ad una resistenza attiva, ma dall’ignoranza assoluta dell’intenzione dello stesso, può costituire forma di aggressione alla libertà sessuale compiute con una repentinità di azione tale da limitare la libertà di autodeterminazione della vittima e da inibire ogni sua capacità di resistenza.
La valutazione dell’attendibilità della prova, la deposizione della persona offesa da reato.
Una volta acquisita la prova, si impone la rilevante questione della valutazione delle affermazioni del minore e del loro grado di attendibilità.
Principio generale nel nostro sistema processuale è che il testimone debba essere estraneo ai fatti di causa. È possibile, tuttavia, che tale figura possa coincidere con quella della persona offesa, che ha nel processo un interesse privato a che l’agente venga punito. Questa situazione configura una situazione ambigua dal momento che il medesimo soggetto ricopre il ruolo conflittuale di offeso e testimone.
Il legislatore, in tal senso, ha rifiutato l’antico brocardo del nullus idoneus testis in re sua intelligitur a favore dell’ampliamento applicativo del principio del libero convincimento, in base al quale una parte, o comunque un soggetto interessato, possa ricoprire il ruolo di testimone. Chiaramente tale principio presenta un limite importante che è quello della valutazione dell’attendibilità della testimonianza stessa. La Corte di Cassazione, infatti, ha affermato un principio fondamentale, tra l’altro del tutto condivisibile, secondo il quale ciò che rileva ai fini di una condanna non è semplicemente la presentazione di una serie di querele o denunzie della persona offesa, ma occorre, piuttosto, sottoporre la testimonianza della stessa [e aggiungiamo anche l’eventuale interrogatorio dell’imputato], ad un’intrinseca e particolarmente rigorosa valutazione di attendibilità. Il giudice, in realtà, può fondare il proprio convincimento anche sulla sola deposizione della persona offesa purché, però, questa venga sottoposta ad “un esame particolarmente penetrante e rigoroso attraverso la conferma di altri elementi probatori e ad un riscontro di credibilità oggettiva e soggettiva”[10]. Nel processo, del resto, la persona offesa assume la qualità di teste, pertanto, il giudice deve sottoporre la sua deposizione al vaglio di credibilità e attendibilità in relazione alle risultanze processuali. Questo perché la persona offesa non è, chiaramente, immune da sospetti, in quanto portatrice di interessi in antagonismo con quelli dell’accusato (Cass 1.12.1999 n.1423, CP, 2000, 1879). Il giudice, quindi, sul piano concreto e pratico e in un’ottica sicuramente garantista dei vari interessi in gioco, ha l’obbligo di vagliare l’analisi di qualsiasi elemento risultante dal processo e di ricostruire tutte quelle che sono le storie di vita e di quotidianità dei soggetti coinvolti nel processo stesso.
La valutazione attenta e rigorosa che il giudice deve compiere per indagare la credibilità soggettiva ed oggettiva della dichiarazione in questione, diventa ancora più complessa quando promana da un minorenne. Consolidata giurisprudenza[11] ritiene che le sole dichiarazioni testimoniali del minore-persona offesa siano idonee a fondare una responsabilità penale. Chiaramente, l’attendibilità delle dichiarazioni del minore stesso deve necessariamente essere subordinata al vaglio positivo della sua attitudine psico-fisica a riferire in maniera corretta e della sua attitudine psicologica a tenere fede al contesto delle situazioni interne ed esterne. Tali paramentri di giudizio sono costituiti dall’accertamento della capacità della giovane vittima di recepire ed esprimere le informazioni e correlarle con altre, di contestualizzarle adeguatamente in relazione all’età, alla natura dei vincoli familiari e alle condizioni emozionali, dalla valutazione di come il minore ha vissuto e rielaborato l’accaduto, individuando il confine tra menzogna, sincerità e travisamento.
L’ammissibilità della prova testimoniale nel processo da parte di soggetti che siano contemporaneamente parti e testimoni hanno suscitato non poche perplessità. Si è, in primis, sollevato un problema di costituzionalità della disposizione che prevedeva l’obbligo della parte civile di deporre. La questione è stata trasposta in riferimento alla vigente disciplina che non prevede, al contrario, alcuna causa di incompatibilità. Si era denunciata la violazione degli artt. 3 e 4 della Costituzione poiché, da una parte, emergeva una forte disparità di trattamento per il soggetto danneggiato che inserisca l’azione civile nel processo penale e colui che, invece, scelga di adire la giustizia civile, dal momento che solo la parte civile e non anche l’imputato può rendere testimonianza; dall’altro veniva leso il diritto di difesa dell’imputato le cui dichiarazioni non avevano la medesima garanzia di veridicità della parte civile. Tale lamentata disparità di trattamento è stata superata mediante l’applicazione del principio del libero convincimento che permette di valutare l’attendibilità delle dichiarazioni sia della parte civile che dell’imputato stesso.
La corte di Cassazione ha, invece, stabilito che la testimonianza dell’imputato nel processo è autonomamente dotata di pieno valore probatorio, ma nella sua valutazione il giudice deve seguire le note regole di comune esperienza dell’analiticità, coerenza logica e verosimiglianza.
La formula “al di là di ogni ragionevole dubbio”
Dal principio di presunzione di innocenza deriva una regola di giudizio secondo la quale, qualora le prove dell’accusa non consentano di giungere ad un giudizio “oltre ogni ragionevole dubbio”, non è possibile porre in essere una condanna.
A tal proposito sarebbe opportuno citare l’illustre opera del prof Stella, “Giustizia e Modernità” che annovera la presunzione di innocenza tra i principi fondamentali della giustizia penale. La condanna, in tal senso, deve fondarsi oltre ogni ragionevole dubbio, ossia, in caso di insufficienza o contraddittorietà della prova di colpevolezza l’imputato va assolto, da qui la massima secondo la quale è meglio lasciare liberi cento colpevoli che condannare un innocente.
Stella ha colto l’intrinseco significato di tali principi, tra l’altro presenti in molte sentenze della Corte Suprema degli Stati Uniti, in particolare nella sentenza in re Winship del 1970, che egli stesso definisce “stella polare della giurisprudenza americana”. Questa, oltre che a cogliere l’estrema rilevanza nell’ambito dell’amministrazione della giustizia penale della presunzione di innocenza e della regola dell’oltre ragionevole dubbio, qualifica la libertà, la reputazione e il buon nome come valori di estrema importanza, c.d. trascendenti, messi in gioco nel processo penale.
Tuttavia, lo stesso Stella sostiene che nel nostro Paese l’effettivo rispetto di tali regole di giudizio è ostacolato da un altrettanto principio cardine dell’ordinamento penale, quale quello del libero convincimento del giudice, cioè da quelle che sono “le convinzioni che si formano ‘nel crogiuolo’ del suo spirito, le sue intuizioni, emozioni e sentimenti”. Questa situazione, infatti, impedisce un’effettiva applicazione del principio in questione dal momento che si tratta di regole di giudizio tra loro configgenti. Pertanto, a detta di Stella stesso, sarebbe auspicabile che il libero convincimento lasci il posto alla regola dell’”oltre ragionevole dubbio” e che compito del giudice sia prevalentemente accertare la verità giudiziale, ovvero stabilire se le prove presentate dall’accusa, oggettivamente considerate, lasciano spazio a dubbi, non gravi, sostanziali, o immaginari, ma fondati sulla ragione
Questa analisi permette affermare che, in realtà, nei sistemi di diritto continentale la protezione dell’innocente e la regola dell’”oltre ragionevole” dubbio viene declassata a mera enunciazione dei principi, dottrinali e costituzionali, nei paesidi common law, invece, questa costituisce diritto “concretamente vissuto” nell’esperienza giudiziaria quotidiana.
La regola dell’oltre ragionevole dubbio è stata inserita nel nostro codice di procedura penale solo con la legge n. 46 del 20 febbraio 2006 (c.d. Legge Pecorella), infatti l’art. 5 di tale legge prevede che “All’articolo 533 del codice di procedura penale, il comma 1 è sostituito dal seguente: 1. Il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio. Con la sentenza il giudice applica la pena e le eventuali misure di sicurezza”.
L’art. 533 c.p.p. è stato modificato nel senso che la colpevolezza dell’imputato deve risultare “al di là di ogni ragionevole dubbio”. E’ la formula che da secoli caratterizza il diritto anglosassone e costituisce la traduzione letterale della formula: “Beyond any reasonable doubt”.
In realtà questa viene già citata in molte nostre sentenze, in quanto considerata di fondamentale importanza nell’ambito dell’iter metodologico che viene posto in essere per giungere alla condanna. Diversi processualisti italiani hanno scritto che quella formula esprime nel miglior modo la “regola-principe del giudizio penale” e si pone quasi come un prolungamento del dettato costituzionale che sancisce la presunzione d’innocenza nei confronti del cittadino.
Il nuovo testo sembra quasi accantonare in maniera definitiva quel “principio del libero convincimento” che, in realtà non trova alcun riscontro scritto nel codice stesso e che, per la sua ambiguità, ha generato molteplici discussioni e diverse ingiustizie; tanto che i primi rimedi, peraltro insufficienti, furono già adottati dall’art. 192 dell’attuale codice di procedura penale.
La nuova formulazione dell’art. 533 c.p.p. introduce la regola di tradizione anglosassone del diverso e maggiormente rigoroso criterio di valutazione della prova e delinea in maniera netta la regola probatoria e di giudizio del processo penale che, attualmente, peraltro, vede la scienza come uno strumento al servizio del giudice e garante della decisione giudiziaria.
Il rigore scientifico nella valutazione della prova deve essere regola assoluta; esso è stato chiaramente sancito dal nuovo art. 533 c.p.p[12].
Conclusioni
Con tale decisione, i giudici di Cassazione hanno confermato la condanna dell’ex bidello ricorrente stabilendo che anche il bacio circoscritto al semplice contatto delle labbra può configurare un atto sessuale idoneo ad invadere la sfera intima del soggetto passivo. Ad integrare, dunque, le fattispecie penali di cui agli artt. 609 bis (violenza sessuale) e 609 quater (atti sessuali con minorenne) il bacio stesso è da ritenere sufficiente. La chiave di lettura, quindi, per una corretta valutazione riguardo alla decisione in questione è rappresentata dalla riconducibilità nell’ambito degli “atti sessuali” di un bacio privo del consenso. In realtà tutti i principi riferiti dalla Cassazione sono ampiamente supportati da una ormai consolidata giurisprudenza che tende a tutelare il soggetto passivo. Ciò che preme, tuttavia, evidenziare è che la Cassazione stessa non prescinde, comunque, da un’attenta valutazione del contesto sociale e culturale in cui si realizza la condotta stessa. I giudici capitolini, infatti, per non rischiare di cadere nell’errore di cristallizzare principi di diritto su un tema che può assumere diverse connotazioni, hanno introdotto un dettagliato excursus sui baci rubati che possono qualificarsi come leciti e quelli che, d’altro canto, fanno rischiare il carcere. La fattispecie incriminatrice in questione, infatti, implica una valutazione umana e sociale per cui non si può evitare il riferimento ai costumi ed alle rappresentazioni culturali di una società. Non può, certamente, configurarsi come “atto sessuale” il “bacio alla russa” perché “scambiato come forma di saluto”, allo stesso modo “in certi contesti familiari o parentali, in cui il bacio sulla bocca tra parenti è solo un segno di affetto, privo di connotazioni sessuali penalmente irrilevanti”.
[1] “La condotta vietata dall’art. 609 bis c.p. (violenza sessuale) ricomprende se connotata da costrizione (violenza, minaccia o abuso di autorità), sostituzione ingannevole di persona ovvero abuso di condizione di inferiorità fisica o psichica, qualsiasi atto – anche se non esplicitato attraverso il contatto fisico diretto con il soggetto passivo – che sia finalizzato ed idoneo a porre in pericolo il bene primario della libertà dell’individuo attraverso l’eccitazione o il soddisfacimento dell’istinto sessuale dell’agente” (Cass. sez. III, pen., 1.12.2000, n. 12446).
[2] A tal proposito: “L’espressione “atti sessuali”, di cui all’art. 609bis, c.p., include tutti quegli atti che siano idonei a compromettere la libera determinazione del soggetto passivo nella sfera sessuale, e quindi non solo quelli che involgono la sfera genitale in senso stretto, ma anche quelli che riguardano zone del corpo note, secondo la scienza medica, psicologica, antropologico-sociologica, come erogene” (Cass., sez. III, pen., 21.6.2002, n. 23869).
[3] Per la dottrina, si veda Fiandaca “ Violenza sessuale” in Enc. diritto, XLVI, 1993; Borgogno, “Il delitto di violenza sessuale”, in AA. V.V., I reati sessuali,Giappichelli, 2000. Per la giurisprudenza si veda: Cass., sez. III, pen., 3.11.1999, n. 2941. Si veda, anche, La Tribuna, Rivista Penale, 2000, 1 pag.31.
[4] Musacchio, Le nuove norme contro la violenza sessuale un’opinione sull’argomento, in Giust. Pen., 1996, II 118-119; Pecoraro Albani, Violenza sessuale e arbitrio del legislatore, pagg. 29 ss.
[5] Cass., sez. III, pen., 3.11.1999, n. 2941
[6] Galdieri, M. “L’atto assume rilevanza penale se lede la libertà di autodeterminazione” in Il Sole 24 ore” del 23 settemre
[7] Ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 609 bis c.p. è necessario, alla luce di quanto statuito nella sentenza oggetto del presente commento, che il soggetto agente ponga in essere una “condotta idonea a compromettere la libertà sessuale del soggetto passivo invadendo la sfera sessuale di quest’ultimo mediante un rapporto corpore corpori che non deve necessariamente riguardare le zone genitali, ma può estendersi anche a tutte le altre zone ritenute erogene dalla scienza non solo medica, ma anche psicologica, antropologica e sociologica”.
[8] Cass., sez. III, n° 234786/2006; Cass. Sez. III, n° 228498/2004; Cass. Sez. III, n° 230041/2004; Cass. Sez. III, n° 232901/2005; Cass. Sez. III, n° 234174/2006 in Pisa P. e Monteverde S. “Pareri motivati di diritto penale” Cedam, 2007 pag. 7.
[9] Cass., III sez., n° 19808/2006.
[10] Cass, sez. VI, n°4946/1997.
[11] Cass. sez. V, n°214871/1999; Cass., sez. III n°208447/1997.
[12] La definizione di “ragionevole dubbio” data nella sentenza del caso Simpson: «Il ragionevole dubbio non è un mero dubbio possibile, perché qualsiasi cosa si riferisca agli affari umani è aperta a qualche dubbio possibile o immaginario; esso è quella situazione che, dopo tutte le considerazioni, dopo tutti i rapporti sulle prove, lascia la mente dei giurati nella condizione in cui non possono dire di provare una convinzione incontrollabile sulla verità dell’accusa» (cfr. Stella F., Giustizia e modernità, Milano, 2001, pag. 137)