LA CONVENZIONE DELL’AJA
2.1 I trust nell’attuale prospettiva comparatistica.
Dare una definizione unica di trust è compito alquanto arduo. Si può solo tentare, quindi, di darne una che sia «approssimativa», e questo sulla base di due assunti[1]:
- a) non esiste «il» trust, ma una innumerevole serie di trusts;
- b) ai trusts «classici» di diritto inglese si affiancano ormai trusts molto diversi in altre legislazioni.
Il termine inglese trust, tradotto come affidamento[2], ricorda proprio il sentimento che è alla base di questo rapporto giuridico[3].
Sinteticamente, gli elementi connotanti il trust di common law sono tre[4]:
1) l’affidamento[5]: cioè la perdita di ogni facoltà del disponente quale effetto naturale del trasferimento; il trustee riceve i beni per realizzare una finalità che gli è commessa dall’istituente; il beneficiario fa affidamento all’osservanza dello scopo[6] da parte del trustee; l’affidamento deriva dalla qualifica, cioè dallo status di trustee; l’affidamento diviene anche un criterio di giudizio, di valutazione del comportamento del trustee;
2) la segregazione[7] o la non confusione dei beni o dei diritti che sono oggetto del trust; essi appartengono al trustee, fanno parte del suo patrimonio, ma sono solo distinti dagli altri beni; i terzi non possono aggredirli;
3) la perdita, da parte di chi ha istituito il trust, del controllo sui beni e sui diritti trasferiti al trustee[8].
La verità, come è stato osservato[9], sta nel fatto che nella comparazione tra diversi sistemi giuridici ci si trova di fronte ad una vera e propria intraducibilità di concetti. Nell’approccio con istituti come quello in esame occorre non cadere nella tentazione di utilizzare schemi definitori astratti, tipicamente civilisti, e tentare, per quanto possibile, di osservare le forme e le manifestazioni di questo istituto nell’ordinamento in cui è stato elaborato. Per cui concludendo, in via approssimativa, possiamo definire il trust come «un rapporto fiduciario in virtù del quale un soggetto (settlor) che chiameremo disponente, «trasferisce la proprietà di determinati beni ad un suo fiduciario trustee investendolo di un obbligo che va a vantaggio di un beneficiary (che può essere tanto determinato quanto indeterminato), talora sotto la supervisione di un protector. Il trustee si impegna ad amministrare i beni ricevuti pagandone le rendite al beneficiario ed eventualmente a trasferirli alla morte del settlor ad un’altra persona detta remainderman»[10].
Si può osservare come il tutto sia caratterizzato dall’imposizione di un connotato fiduciario nell’esercizio dei diritti spettanti al trustee[11].
Leggendo i lavori preparatori della Convenzione dell’Aia del 10 luglio 1985[12] relativa alla legge applica bile al trust e alloro riconoscimento, salta all’occhio in più luoghi il convincimento radicato dei giuristi di common law che i civilisti non potessero capire il trust[13].
È interessante evidenziare sul punto la riflessione di un autorevole dottrina in materia[14]: “È questo un topos antico perché MAITLAND[15] racconta che provò a spiegare il trust a GIERKE[16], ma il sommo giurista tedesco, tuttavia, non lo comprese”. Nei lavori preparatori si trovano frasi del tipo: «ma inseriamo questo articolato o questa clausola, per non spaventare i civilisti».
La Conferenza dell’Aia ha cercato, quindi, di rispondere a due bisogni propri degli ordinamenti di common law[17]. Il primo riguardava le regole sui conflitti di leggi in materia di trust. Regole che gli ordinamenti di common law hanno scarsamente elaborato fino ad oggi, e che comunque non riescono ad esprimere in maniera uniforme. Il secondo, era di rendere i trusts (si, pensava, a quel tempo ai soli trusts di common law) agevolmente riconoscibili nei paesi di civil law.
Per cui la nozione di trust accolta dalla Convenzione si è allontanata dal modello inglese. Quindi, la Convenzione dell’Aia[18] non è una Convenzione di uniformazione di norme materiali, ma lo è soltanto di norme internazional privatistiche e ciò in linea, come si è detto, con l’esigenze che avevano i paesi di common law di avere criteri uniformi in tema di conflitti di leggi relative ai trusts, ma non di diritto sostanziale.
Dopo la fine della Conferenza dell’Aia che ha portato all’adozione della Convenzione relativa ai trusts del 10 luglio 1985, si è verificata la «corsa» per introdurre il trust negli ordinamenti nazionali[19].
In Italia, con la ratifica e l’entrata in vigore della Convenzione dell’Aia del 10 luglio 1985, il trust ha cessato di essere un istituto formalmente «sconosciuto».
Sebbene il trust è già menzionato nella Convenzione di Bruxelles e di Lugano sull’efficacia delle sentenze del 1968 (artt. 5, n. 6, 17, 3° e 4° comma)[20] e dalla Convenzione di Roma sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali[21] queste fanno entrambe riferimento al trust proprio della common law. Invece, il modello di trust adottato dalla Convenzione dell’Aia del l° luglio del 1985, se ne discosta in modo abbastanza evidente[22].
Una parte della dottrina italiana[23] si è impegnata ad inquadrare il trust in una prospettiva di rispetto per l’autonomia privata che implica anche il potere di progettare al di là dei tipi nominati dalla legge.
La Convenzione dell’Aia del 10 luglio 1985 ha indubbiamente cambiato in maniera radicale l’atteggiamento del giurista italiano nei confronti del trust[24].
Prima di essa, infatti se ne parlava come di un istituto di diritto straniero, rispetto al quale, per la sua singolarità rispetto ad altri dirItti continentali, in maniera ricorrente era sembrato naturale individuare somiglianze e rilevare differenze secondo il classico metodo del diritto comparato.
Con la ratifica della Convenzione, il trust non è diventato oggetto di una disciplina positiva da parte dell’ordinamento italiano poiché, appunto, la Convenzione regola il diritto applicabile ai trusts attraverso la disciplina dei criteri di individuazione della legge ad essi applicabile[25]. Pertanto la Convenzione stabilisce solo regole che riguardano il riconoscimento degli effetti prodotti dal trust, cioè permette di utilizzare tale istituto estraneo al nostro ordinamento, attraverso la scelta di una qualunque legge fra le tante che conoscono il trust o particolari tipi di trusts, preoccupandosi poi di assicurare il riconoscimento degli effetti prodotti dall’applicazioni di tali leggi.
Un autorevole studioso[26] ha ben evidenziato come sia essenziale fare ricorso alla logica del giurista comparatista per comprendere il fenomeno dei trusts, perché essa diviene funzionale al diritto interno, in quanto il comparatista dovrebbe essere “la coscienza” di un ordinamento giuridico aperto; dovrebbe essere cioè come colui il quale si pone come doganiere al confine e, pur senza il potere di impedire l’ingresso, che non tocca a lui, però proclama che cosa entra, come entra, e quali effetti può portare. Allora si potrà capire perché il trust tradizionale inglese “è soltanto uno fra i possibili eventi di trust”, e notare che “in Paesi di tradizione civilistica indiscussa esistono figure giuridiche perfettamente omologabili con il trust di modello inglese”. La locuzione “perfettamente omologabili” andrebbe, però, meglio chiarita in sede comparatistica: cioè se si individuano quali dati minimi per la comparazione, alcuni elementi strutturali del trust di modello inglese, quei medesimi elementi li troviamo in Paesi civilistici che conoscono istituti i quali, in forza di questa comunanza di dati minimi, sono omologabili con il trust di modello inglese[27].
2.2 Le finalità della Convenzione (art. 1).
La Convenzione relativa alla Legge sui trusts ed al loro riconoscimento, firmata a l’Aja il 10 luglio 1985, è stata resa esecutiva in Italia con la L. 16 ottobre 1989 n° 364[28]. L’Italia fu, con premura abbastanza sorprendente[29], il secondo Stato a depositare il proprio strumento di ratifica della Convenzione, dopo la Gran Bretagna: e per essa dunque, gli effetti della Convenzione iniziarono a prodursi immediatamente dopo la sua entrata in vigore, che con la ratifica di un terzo Stato, l’Australia, avvenne il 10 gennaio 1992[30].
L’art. 1 Convenzione indica quali sono le finalità della Convenzione: stabilire la legge applicabile al trust e regolarne il riconoscimento[31]. Dopo aver indicato quali sono le finalità della Convenzione (art. 1) assume importanza fondamentale individuare la nozione di trust.
Le iniziali discussioni in seno alla commissione speciale condussero alla conclusione che la Convenzione avrebbe potuto riguardare anche istituti “analoghi” ai trust ma il primo articolato si riferì esclusivamente al trust di modello inglese[32]. Il successivo testo, soppresse alcuni dati scriminanti e la commissione speciale dette atto che, pur avendo redatto le varie norme pensando al trust “angloamericano”, non era riuscita a scrivere la norma contenente la definizione di trust in modo da escluderne gli istituti analoghi[33].
Mentre alcuni si opponevano ad una siffatta estensione[34] e altri ne prendevano semplicemente atto[35]. Numerosi delegati richiesero che la Convenzione non si limitasse al trust angloamericano,[36] e che di conseguenza la definizione che sarebbe stata fornita nell’art. 2 fosse espressa in termine tali da comprendervi istituti civilistici. Ne da atto la relazione finale: “La Quinzième session à (…) dècidè d’inclure des institutions autres que le trust de common law proprement dit, .à condition que ces institutions èspondènt aux critères de l’art. 2 [37]».
Così il trust che venne fuori dai lavori della conferenza, che un autorevole dottrina denomina “amorfo”[38], fu, dunque, una scelta cosciente della conferenza.
Così, il testo della Convenzione discusso e steso senza alcun riferimento agli istituti “analoghi” si trovò ad avere quale riferimento un istituto diverso: la figura che aveva dominato i lavori venne confinata in un preambolo, proposto ai delegati all’ultimo minuto[39]. Si preferì, quindi, adottare nell’art. 2, una nozione di trust per tutte le stagioni.
2.3 La nozione di trust secondo la Convenzione del 1985 (art. 2).
Tale Convenzione, quindi ha portata innovativa in un sistema giuridico, quale è il nostro, dove l’istituto del trust è sconosciuto, ed è anzi tradizionalmente menzionato come il prototipo delle istituzioni sconosciute[40].
Questo è ancor più vero se si osserva come tutte le volte che le trattazioni di diritto internazionale privato affrontavano le difficoltà provocate specie sul piano della qualificazione, dal fatto che un determinato istituto straniero non trovasse un equivalente nell’ordinamento del foro, era immancabile l’esempio del trust inglese, al quale si facèva riferimento per illustrarle concretamente[41].
Proprio per ovviare a tale lacuna dei paesi di ordinamento romano gemanistico, la Convenzione ha fornito una descrizione del trust. Nell’art. 2 della Convenzione viene data la definizione del trust rilevante ai fini della Convenzione stessa. In proposito, è stato rilevato[42] come la soluzione adottata abbia opportunamente evitato di definire l’istituto attraverso la qualificazione dei diritti del trustee e del beneficiario sui beni che costituiscono il trust. Un tale tentativo avrebbe prodotto contrasti ed incomprensioni insanabili fra paesi di common law e paesi di civil law, e sarebbe stato votato al fallimento. Si è così preferito evitare una vera e propria definizione e descrivere invece le relazioni giuridiche istituite dal costituente del trust[43]. In particolare le seguenti caratteristiche: i beni del trust costituiscono una massa distinta e separata e non fanno parte del patrimonio del trustee; i beni stessi sono peraltro intestati a nome del trustee o di altra persona per suo conto; il trustee ha il potere e l’obbligo di gestire o disporre dei beni secondo i termini del trust o disposizioni particolari della legge che lo governa la descrizione è completata dalla constatazione che non sono incompatibili con la figura del trust il fatto che il costituente dello stesso conservi alcune, prerogative o che il trustee possieda alcuni diritti in qualità di beneficiario.
L’esito negativo di tale giudizio comporta di necessità l’estraneità della fattispecie rispetto alla Convenzione[44].
L’art. 2 della Convenzione statuisce, quindi, che: “Ai fini della presente Convenzione, per trust s’intendono i rapporti giuridici istituiti da una persona, il costituente con atto tra vivi o mortis causa – qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine specifico. Il trust presenta le seguenti caratteristiche: a) i beni del trust costituiscono una massa distinta e non fanno parte del patrimonio del trustee; b) i beni del trustee sono intestati a nome del trustee o di un’altra persona per conto del trustee; c) il trustee è investito del potere e onerato dell’obbligo, di cui deve rendere conto, di amministrare, gestire o disporre beni secondo i termini del trust e le norme particolari impostegli dalla legge. Il fatto che il costituente conservi alcune prerogative o che il trustee stesso possieda alcuni diritti in qualità di beneficiario non è necessariamente incompatibile con l’esistenza di un trust”.
L’ambito di comprensività della Convenzione risulta, affidato[45] all’interpretazione e forma oggetto di ciò che è consueto definire come operazione di qualificazione. Per questa, poi, deve essere tenuta presente in modo particolare l’esigenza di interpretazione di carattere internazionale ed uniforme svincolata dall’aderenza ai principi e criteri propri dell’ordinamento giuridico del foro.
L’art. 2 della Convenzione, nell’indicare le caratteristiche che un trust deve possedere al fine dell’applicazione delle disposizioni convenzionali[46], rende evidente che si sono considerate essenzialmente le figure che, indipendentemente dal sistema di appartenenza, presentino i profili tipici del trust anglosassone.
Esatta o meno che sia, la descrizione contenuta nella regola convenzionale di cui all’art. 2 ha la sola funzione di indicare le caratteristiche proprie e comuni di figure di trust positivamente esistenti negli ordinamenti che lo prevedono[47]. Essa serve, quindi, solo ad individuare le note considerate essenziali nell’ottica della Convenzione.
Per tanto, è da escludere che la descrizione ex art. 2 sia intesa a configurare una sorta di figura autonoma di trust, creata dalla stessa Convenzione per astrazione dalle figure tipiche note ai vari ordinamenti, attraverso la posizione di norme sostanzialmente uniformi[48].
Si può sostenere, quindi, che la Convenzione dell’Aja non definisce cosa sia il trust, bensì lo descrive[49]. Per cui tutti i trusts che avranno quel minimum di caratteristiche richieste dalla Convenzione dovranno essere riconosciuti come tali ed essere regolati dalle norme di conflitto di leggi fissate dalla Convenzione stessa. Al fine, infatti, di evitare che nuovamente i paesi aderenti alla Convenzione fossero costretti ad eseguire operazioni ermeneutiche, si è ritenuto di far ricadere sotto la copertura della stessa solo gli istituti strutturalmente e non funzionalmente analoghi.
Appare evidente che la Convenzione dell’Aja sui trusts, pur nella sua sicura appartenenza alla categoria delle convenzioni internazionali in materia di diritto internazionale privato. Presenta alcune caratteristiche che ne fanno un unicum nell’ambito di tale categoria.
Si rende opportuno, fin da subito, sottolineare la particolarità cui da luogo l’interazione di questa definizione con la descrizione degli effetti del riconoscimento del trust operata anch’essa dalla Convenzione.
I redattori della Convenzione avevano due difficoltà[50], ignorate dai legislatori nazionali: trovare un minimo comune denominatore fra le configurazioni del trust interno della common law ed esprimerlo in un linguaggio comprensibile dai giuristi degli altri ordinamenti. La prima difficoltà, da molti prospettata come sfida intellettuale, era resa più ardua dalla presenza al tavolo convenzionale di Stati appartenenti all’area della civil law che avevano compiuto lo sforzo di definire legislativamente il trust (Israele e Venezuela). La Convenzione ha, quindi, cercato di utilizzare un linguaggio che fosse il meno possibile legato alla terminologia tipica del trust negli ordinamenti di provenienza. Quando la Convenzione nell’art. 2 ha esplicitato le caratteristiche del trust ha compiuto una scelta in senso strutturale: il rapporto giuridico definito nella prima parte dell’art. 2 configura un trust qualora i soggètti che vi intervengono e i beni che ne costituiscono l’oggetto siano legati da certe relazioni e non da altre. Un buon numero di Stati ha recepito legislativamente la definizione di trust contenuta nell’art. 2 della Convenzione[51], mentre altre sono rimasti fedeli, a definizioni più vicine al modello inglese: la fondamentale distinzione sta nel richiedere o meno il trasferimento al trustee del pieno diritto del disponente o, invece, come all’art. 2 della Convenzione, il solo controllo sui beni oggetto del trust.
I Paesi di civil law che hanno promulgano una legislazione sul trust sono molti[52]. Per citarne alcune: Etiopia; Giappone, Liechtenstien, Perù. Le leggi in questione evitano il concetto di contratto, e basano il rapporto sul trasferimento di un bene o un diritto al trustee e sulle obbligazioni da ciò derivanti, che vincolano il trustee in relazione allo scopo del trust. Tali leggi chiariscono che i creditori del trustee non possono attaccare i beni del trust; che il disponente perde completamente il controllo sui beni del trust; che essi non sono parte del suo patrimonio, nè di quello del trustee. Ne consegue che-gli ordinamenti civilistici possono comprendere il trust così a fondo da poter creare leggi che sono perfettamente coerenti con i fondamenti del trust espressi in common law.
Inizialmente la Conferenza dell’Aja si proponeva di esaminare il trust come figura unitaria, senza dare risalto alle figure analoghe. Con l’espressione “istituzioni analoghe”, si assimilano concetti giuridici profondamente diversi e gli istituti vengono studiati al di fuori del loro contesto nazionale e delle loro origini.
Il testo finale della Convenzione parla di “porre i beni del trust sotto il controllo del trustee” e non più di trasferimento in, proprietà, di modo tale che la Convenzione non pone più alcun requisito di fiduciarietà del rapporto[53], cosi ampliando ulteriormente l’ambito della definizione. Nella medesima direzione si colloca anche il capoverso dell’art. 2, laddove si consente al disponente di mantenere diritti e facoltà: ci si indirizza, in questo modo, verso il deposito e il mandato, senza peraltro fornirle alcuna linea di confine. Non è allora un caso che, mentre l’art. 11 interdice ai creditori del trustee il compimento di alcun atto dei beni in trust, la Convenzione disponga circa i diritti dei creditori del disponente.
La natura e l’estensione dei diritti dei beneficiari non sono mai menzionati[54]. Le obbligazioni in capo al trustee, non hanno alcuna origine: non dal trasferimento della proprietà, non da un contratto, che non è menzionato tra le fonti del trust. Il riferimento al rapporto fiduciario è scomparso.
Inoltre la Convenzione di Bruexelles del 1968 e quella di Lugano del 1988 sul riconoscimento delle sentenze, così come la Convenzione di Roma del 1980, si riferiscono al trust anglosassone. Quindi il trust oggetto della Convenzione dell’Aja, non è un trust secondo le altre Convenzioni e viceversa.
Il trust amorfo[55] una struttura elementare che può essere ritrovata in tutti i sistemi giuridici. La definizione della Convenzione è quindi idonea a definire trust[56], ai fini dell’applicazione della Convenzione, istituti giuridici di tutti gli ordinamenti (inclusi, ovviamente, gli ordinamenti civilistici)[57], in quanto sfumano le distinzioni tra le diverse forme di fiducia. Gli ordinamenti che non conoscono il trust sono soltanto quelli che non conoscono figure riconducibili all’art. 2 della Convenzione, probabilmente non esistono[58]. Ad esempio, la legge italiana n. l del 1992 sulle SIM prevede la possibilità di porre i beni sotto il controllo di una società di intermediazione mobiliare a vantaggio di un beneficiario[59]; perciò ne potrebbe conseguire che per la Convenzione dell’Aja, l’Italia è un trust country.
Dunque, l’art. 2 indica le caratteristiche che un istituto deve avere per rientrare nell’ambito di applicazione della Convenzione[60]. Durante i lavori preparatori, molti delegati si opposero alla eventuale elaborazione di una definizione esaustiva dell’ istituto del trust[61]. Ciò era dovuto, oltre alle ragioni già menzionate, anche al fatto che dare una definizione esauriente sarebbe stata notevolmente difficile, considerati i vari tipi di trust esistenti e le numerosissime e divergenti definizioni offerte dalla Common law la nozione di trust infatti non può che essere influenzata dalla funzione che l’istituto svolge, e il fatto che il trust realizzi più di una funzione crea ripercussioni sulla tipologia dell’ istituto e sulla stessa possibilità di trovarne una definizione unitaria. A tal proposito, si consideri che il trust negli ambienti di common law viene comunemente impiegato: in materia successoria, per la tutela degli incapaci, per la gestione di fondi pensione, nel settore commerciale, per fini di beneficenza, e per molti altri ancora[62]. Per tanto proprio la varietà di impieghi e la conseguente elasticità dell’istituto, rendono difficoltoso condensarlo in poche parole definitorie.
Con riferimento alla natura del trust la dottrina di common law è compatta nell’attribuirgli la caratteristica di costituire in capo a due diversi soggetti, il trustee ed il beneficiary un diritto che potremmo definire “reale” su uno stesso bene. Ma occorre subito precisare che, con l’attribuzione della qualifica di realità al diritto del beneficiary, non si è voluto identificare tale situazione giuridica con quella di un diritto reale, così some disciplinato negli ordinamenti di civil law, essendo troppe le differenze “esistenti tra i due sistemi in tema di proprietà e di diritti sulle cose in generale. Quindi il termine “reale” sta a significare che alcune caratteristiche del diritto del beneficiary possono essere in qualche parte assimilate ad alcune caratteristiche tipiche dei diritti reali quali lo jus sequelae e la tutela reale nei confronti dei terzi. Sull’altro versante i giuristi di civil law, si sono affannati a ricercare conclusioni rassicuranti: infatti, la mancanza di istituti analoghi al trust, ha portato tali giuristi, ad elaborare una molteplicità di definizioni richiamandosi ai numerosi istituti che sono stati di volta in volta avvicinati al trust: dalla fondazione al negozio fiduciario, a figure peculiari, quali quella dell’esecutore testamentario del deposito bancario in un libretto al portatore intestato ai terzi. Ricomposto brevemente il quadro nel quale si sono svolti i lavori preparatori, si può, ora, comprendere meglio l’art. 2 che, più che una disposizione, con efficacia prescrittivi, si presenta come una mera enumerazione delle caratteristiche del trust.
Il primo comma dell’art. 2 dell’istituto della Convenzione mette in rilievo alcune caratteristiche del trust[63] sostenendo che tale termine si riferisce ai “rapporti giuridici istituiti da una persona, il costituente con atto tra vivi o mortis causa – qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine specifico”. Si utilizza il tono “neutro” parlando di “rapporti giuridici”, mentre non si ha più alcun riferimento alla natura fiduciaria del rapporto o comunque alla dimensione fiduciaria[64]. Si tratta di un’assenza assai rilevante per chi vede nell’affidamento l’essenza del modello di trust di diritto inglese. La Convenzione non caratterizza né la fattispecie del trust convenzionale, né le obbligazioni del trustee (non enuncia chi può pretendere l’adempimento degli obblighi del trustee) sotto alcun profilo fiduciario. Questa omissione si accompagna ad alcune altre, una fra le quali sembra sovrastarle tutte e avallare la tesi della presenza di un modello di trust definito “amorfo”: la mancata individuazione del rapporto fra il trustee e gli altri soggetti (non fornisce alcuna indicazione circa il rapporto fra trustee e beneficiario, dei quale appena si enuncia l’esistenza). La Convenzione, infatti, non chiarisce se si tratti di un rapporto trilaterale (eventualmente ancipite per la mancanza di beneficiari) o di un rapporto bilaterale e, in quest’ultimo caso, se all’altro estremo sia il disponente o siano i beneficiari[65]: evidentemente il trust amorfo consente entrambe queste possibili strutture. Assai poco da spartire, dunque, con il modello del trust tradizionale di diritto inglese, una grande apertura, viceversa, a modelli diversi: l’oggetto della Convenzione è, in quanto “amorfo”, estremamente più vasto[66].
Inoltre[67], si tralasciano voluta mente questioni spinose, quali la duplicità del diritto di proprietà.
Tale soluzione risponde ad una scelta di politica legislativa volta a non urtare la sensibilità dei sistemi di civil law, infatti, uno dei principali ostacoli che si frappongono alla recezione del trust negli ordinamenti di civil law, concerne proprio il principio di unicità del diritto di proprietà, che si considera irrimediabilmente contrastante con la “scissione” del diritto di proprietà su cui si baserebbe e da cui trarrebbe origine il trust.
L’impiego del termine “legal relationship” utilizzato nel testo convenzionale, ha quindi superato elegantemente le difficoltà insite in una definizione che rischiava di richiamare tutti i problemi connessi alla scissione del diritto di proprietà.
2.4 Il criterio di estraneità del trust.
Va subito posto come premessa che le norme della Convenzione dell’Aja, nulla aggiungono alla normale competenza della legge regolatrice del trust[68]: che al trust debbano essere ricollegate le conseguenze previste dalla legge ad esso applicabile non deriva da alcuno specifico riconoscimento, ma direttamente dall’applicazione della legge competente, come per qualsiasi altro istituto. In particolare dall’impiego del termine “riconoscimento” non devono essere tratte conseguenze erronee: perciò non si deve ritenere che la Convenzione assimili il trust ad una persona giuridica, per la quale si pongano problemi di riconoscimento[69].
Nel sistema della Convenzione non esiste il trust “straniero”[70], né quello “internazionale”[71]. L’accezione da attribuire al termine “straniero”[72], qualora i dati di estraneità riguardanti i soggetti e gli oggetti del trust non esplicano alcuna rilevanza quando si prospetta il “riconoscimento”, è quella di indicare che il trust è regolato dalla legge straniera; questo è l’unico necessario – elemento dal quale discende l’obbligatorietà del riconoscimento. L’elemento di estraneità che conduce all’applicazione della Convenzione è esclusivamente quello della diversità della legge regolatrice del trust rispetto all’ordinamento nel quale se ne chiede il riconoscimento[73]. A fianco di questa prescrizione, poi, la Convenzione pone una serie di precisazioni e limitazioni. L’estraneità del disponente o del trustee o del beneficiario o dei beni del trust o della sua amministrazione o della realizzazione dei suoi scopi: tutti questi elementi vengono presi in considerazione dalla Convenzione per fini diversi senza pregiudicare il riconoscimento del trust.
L’art. 11 della Convenzione dispone che un trust sia riconosciuto negli Stati contraenti alla sola condizione di essere stato istituito in conformità al capo II (artt. 6-10)[74]. L’art. 6, quindi, sancisce l’illimitata libertà dal disponente nello scegliere la legge del trust, gli Stati contraenti sono quindi tenuti a riconoscere i trust regolati da una legge straniera. Sarebbe stato possibile limitare il riconoscimento, come l’Italia aveva chiesto[75], ai soli trusts retti dalla legge di uno Stato contraente. La maggioranza decise, invece, nel senso dell’ universalità (qualunque legge straniera)[76].
Si tratta propriamente dell’obbligazione internazional privatista assunta di applicare nel foro una legge straniera, regolatrice del trust[77]. La peculiarità della Convenzione sta nel consentire il compimento nel foro di atti che, in mancanza della Convenzione, potrebbero non essere validi; in quanto questi atti riguardano beni che sono nel foro, è difficile comprendere perché essi sarebbero consentiti solo a soggetti stranieri e non anche, a parità di tutte le altre condizioni, a soggetti italiani. Il fatto è che la Convenzione non può essere una pura convenzione di diritto internazionale privato, perché essa regola anche rapporti di puro diritto interno.
2.5 Il campo d’applicazione ratione personae della Convenzione.
L’art. 2 , al l°comma, individua il soggetto del trust nel settlor, che potrà essere una persona fisica, ma anche giuridica, benché l’art. 2 utilizzi l’espressione persona[78].
Quindi, il silenzio della Convenzione su un riferimento soggettivo omogeneo alla figura del trustee e del beneficiary, non sembra impedire che un legal entità possa rivestire tali qualifiche.
A supporto di tale tesi vi è la stessa pratica di common law che conosce casi in cui il trustee è un legal entity diversa dalla persona fisica. In genere si può affermare che negli ordinamenti che riconoscono il trust anche le persone giuridiche possono ricoprire la carica di trustee purché vi sia un’espressa previsione in tal senso da parte di uno statute[79].
Nel caso in cui vi sia una dichiarazione di trust, per mezzo della quale un soggetto si proclami trustee di un diritto del quale sia già titolare, tutti convergono che questa rimane fuori dalla Convenzione, come fuori dalla Convenzione deve rimanere qualunque atto di trasferimento al trustee[80]. Nella disciplina della Convenzione si presuppone che disponente e trustee siano soggetti diversi (vedi art. 2, 1°comma), e si propende per la risposta negativa.
Nella Convenzione manca un elemento strutturale che invece caratterizza il trust del modello inglese: il distacco fra il disponente ed il trustee[81].
L’art. 2 ignora il rapporto fra il disponente e l’oggetto del trust (a parte il trasferimento del “controllo” al trustee)[82]; mentre viene esplicitato che i creditori del trustee non possono agire su ciò che il trustee “controlla”. Nessuna menzione è fatta dei creditori del disponente (così pure nulla è detto circa il rapporto fra disponente e trustee e circa l’individuazione del soggetto titolare del diritto di rendiconto). Tale omissione circa la posizione dei creditori del disponente, consente, quindi, di considerare trust per i fini della Convenzione quella vasta gamma di rapporti nei quali il disponente gode di diretta tutela nei confronti del trustee: ad esempio i rapporti fiduciari ai quali non si accompagni un trasferimento del diritto di proprietà al trustee, o quelli che abbiano per oggetto posizioni di sola legittimazione.
Nell’atto costitutivo del trust è stabilito che il costituente, per istituire un trust, deve porre dei beni sotto il controllo del trustee. Anche in questo caso, trattando della definizione di trust come “rapporti giuridici” ex art. 2, non si fa riferimento alla questione della titolarità o meno dei beni in capo al trustee. E’ comunque chiaro che, come viene affermato ripetuta mente in ogni commento della Convenzione, “The transfer or the assets is a prior condition to the creation or trustee”[83] e non una semplice condizione moda le della costituzione di un trust.
L’art. 2, 10 comma si conclude con l’indicazione dei beneficiari in senso lato del trust, che possono essere sia una persona, il beneficiary, sia più in generale, uno scopo specifico.
Un particolare cenno merita, poi, la figura del Cheritable trust. Per Cheritable trust, si intende un Trust la cui trust property sia destinata all’“accomplishment of purposes which are beneficial or may be supposed to be beneficial to the community[84]. A prescindere dalle singole ipotesi che in genere sono ricondotte a queste beneficial purposes, è fondamentale notare che il beneficio deve essere rivolto nei confronti della generalità delle persone di un substantial segment che deve essere definito in relazione ad una determinata area geografica, ai membri di una determinata organizzazione o altro. Il beneficio può essere conferito anche a poche persone, se queste beneficeranno a loro volta un’indefinita massa di persone, oppure se i pochi beneficiari sono selected tra un gruppo indefinito di soggetti[85].
2.6 Il campo d’applicazione ratione materiae della Convenzione.
L’art. 2, 1° comma, prevede che l’istituzione del trust avvenga sia con atto tra vivi che mortis causa[86]. Quest’ultima prevista dai cosiddetti testamentary trust.
Infatti, spesso accade che un soggetto, cittadino di uno Stato che riconosce il trust, disponga dei suoi beni mortis causa costituendo in trust parte del suo patrimonio. Il problema sorge quando i beni o parte dei beni oggetto della trust property sono situati nel territorio nazionale di uno Stato che non conosce il trust. A questo proposito la legge di riforma che regola la fattispecie è pur sempre quella della cittadinanza del de cujus al momento della morte, ex art 46 della legge n. 218 del 1995. Ma sebbene in passato, i giudici generalmente non applicavano la legge straniera disciplinante il trust in quanto la riteneva contraria con l’ordine pubblico interno[87], oggi assistiamo ad un’inversione di tendenza della giurisprudenza. Da notare, comunque, che questo richiamo non opera in relazione alle “questioni preliminari relative alla validità dei testamenti” (art. 4) e, soprattutto, che la Convenzione non potrà ostacolare l’applicazione delle disposizioni inderogabili di legge previste dalle regole di conflitto del foro in materia di testamenti e di devoluzioni de beni successori (art. 15).
2.7 Forma dell’atto istitutivo e degli atti modificativi del trust.
Un altro, problema che si pone in relazione ai limiti del riconoscimento del trust estero nell’ordinamento giuridico italiano, è quello della forma dell’atto istitutivo e degli atti modificativi del trust.
L’art. 8 Convenzione prevede che la legge applicabile ai trusts per scelta del disponente ne regola la validità sostanziale[88]: ma sulla validità può incidere la forma dell’atto istitutivo come nel caso di trust istituito per testamento (art. 48 legge 31/5/1995 n. 218 d.Lp.). Mentre l’art. 26 preleggi indicava la legge regolatrice della forma degli atti, il nuovo sistema di diritto internazionale privato italiano non detta una norma generale in materia di forma; le disposizioni sulla forma si trovano nella disciplina dei vari atti (art. 56 donazioni; art. 48 forma del testamento). Per gli atti tra vivi, con l’eccezione delle donazioni, la legge n. 218/1995, con l’art. 57, rinvia alla Convenzione di Roma sulle obbligazioni, alla quale è stata data esecuzione con legge 18/12/1984 n. 975: essa prevede i requisiti di forma all’art. 9 ma, come già ricordato, non prevede, all’art. 1, l’applicabilità della Convenzione “alla costituzione di trusts ne ai rapporti che ne derivano tra i costituenti, i trustees e i beneficiari”. Si può ritenere che l’atto sia valido se soddisfa i requisiti di forma previsti dalla lex causae legge che regola la sostanza dell’atto, legge scelta dal disponente) o dalla lex loci actus (legge del luogo in cui viene concluso il negozio, legge italiana, principio della conservazione delle forme).
Nel caso di stipula dell’atto istitutivo del trust per atto pubblico, l’atto soggiacerà a tutte le norme sulla forma previste dal codice (testamento, donazioni) e dalla legge notarile; la pubblicità dell’atto (anche a prescindere dagli obblighi di registrazione ed eventualmente di trascrizione, voltura catasta le, registro imprese, PRA, ecc.) implicherà la mancanza di qualsiasi – riservatezza perchè il notaio è tenuto a rilasciare copie degli atti ricevuti e conservati e a consentirne la lettura. In tema di rilascio di copie varranno gli artt. 2714 c.c. e 743 c.p.c., già citati.
Sembra che nella prassi si tenda a ricorrere alla forma della scrittura privata autenticata depositata presso il notaio autenticante (o anche presso un altro notaio). Si è sostenuto[89] che “l’atto istitutivo medesimo o l’incarico fiduciario possano dettare la disciplina del rilascio di copie o estratti”. Si ipotizza cioè, da un lato, un deposito formale regolato dalle norme della legge notarile, dall’altro, un deposito fiduciario. Nel caso di deposito fiduciario il notaio rilascia in originale la scrittura privata autenticata, le parti la affidano al notaio in deposito fiduciario, nell’incarico fiduciario al notaio può essere indicata la disciplina del rilascio di copie ed estratti. Una soluzione di questo genere assicura una notevole riservatezza (se si prescinde dagli obblighi di registrazione e di pubblicità) ma non e’ scevra di difficoltà connesse essenzialmente alla cessazione del notaio dalle sue funzioni. Ben difficile e’ ipotizzare un sistema sicuro che consenta il passaggio dell’incarico fiduciario ad un altro notaio; non è previsto il deposito presso l’Archivio Notarile delle scritture private autenticate non formalmente depositate in atti. Nel caso, invece, di deposito formale varranno le norme della legge notarile: art. 1 legge notarile: il notaio conserva il deposito degli atti ricevuti. Art. 61 L. n. 364: il notaio deve (custodire (rilegandoli eccetera) con i relativi allegati (tale e’ l’atto depositato rispetto al verbale di deposito) gli atti ricevuti, gli atti presso di lui depositati per disposizione di legge o per volontà delle parti. Art. 67 L. n. 364: solo il notaio ha diritto di rilasciare le copie, di permettere la lettura e l’ispezione degli atti da lui ricevuti o presso di lui dépositati (n.b. se una scrittura privata e’ stata autenticata da un notaio e depositata presso un altro, solo il secondo può rilasciare le copie; il notaio che abbia rilasciato in originale la scrittura privata autenticata, non può rilasciarne copie a meno che gli venga presentato l’originale; in definitiva solo chi può disporre dell’originale può rilasciarne copia). Art. 1 R.D.L. 14/7/1937 n. 1666: il notaio può “ricevere in deposito atti pubblici, in originale o in copia, scritture private, carte e documenti, anche se redatti all’estero” (n.b. il notaio, qualunque notaio, può rilasciare copia dei documenti che gli vengono esibiti). Art. 68 Regolamento L. n. 280: il notaio deve redigere verbale (atto pubblico) del deposito di un documento; il depositante ha diritto ad averne la restituzione sempre che dall’atto di deposito risulti che il deposito stesso fu fatto nel suo esclusivo interesse; il notaio deve redigere verbale della restituzione trascrivendo in esso per intero il documento restituito. La scrittura privata autenticata, dal punto di vista della riservatezza, in conseguenza del deposito formale, diventa identica all’atto pubblico. Va notato che sia il verbale di deposito con allegata la scrittura privata depositata, sia l’eventuale verbale di restituzione contenente il testo dell’atto depositato, dovranno essere depositati all’Archivio Notarile nel caso di trasferimento o cessazione del notaio. L’Archivio sarà legittimato al rilascio delle copie.
La stipula dell’atto istitutivo del trust per scrittura privata corrisponde alla forma richiesta ad probationem dalla Convenzione. Le parti, quindi, potranno certamente stipulare l’atto istitutivo del trust per scrittura privata tenendo ben presente che essa sarà priva della autenticazione e della efficacia probatoria da essa derivante (artt. 2702 – 2703 – 2704 c.c.) e della data certa. Anche la scrittura privata potrà essere depositata fiduciariamente o formalmente presso un notaio (deposito di documento ex art. 1 R.D.L. n. 1666/1937) con le conseguenze già indicate. Ovvio che il deposito nulla aggiunge alla natura della scrittura privata; in particolare il deposito non può supplire alla forma richiesta per la pubblicità immobiliare (artt. 2657 – 2821 – 2835 c.c.). Nel caso di stipula dell’atto istitutivo del trust per atto pubblico, per scrittura privata autenticata, per scrittura privata, le parti potranno convenzionalmente stabilire la forma delle future modifiche e prevedere, nel caso di scrittura privata autenticata depositata, che anche le successive scritture debbano essere fiduciariamente depositate al medesimo notaio.
Con riferimento al tema della modifica degli atti istitutivi: possibilità di stipulare una convenzione ex art. 1352 c.c. che vincoli le parti a stipulare l’atto istitutivo e gli atti modificativi di esso in una forma vincolata; possibilità del disponente di richiedere per l’accettazione del trustee una – forma determinata; possibilità di stipulare l’atto istitutivo (atto pubblico, scrittura privata autenticata, scrittura privata) prevedendo all’interno di esso la convenzione sulla forma degli atti modificativi. Resta da approfondire il problema della forma degli atti modificativi particolarmente nel caso in cui tali atti non richiedano forme di pubblicità. Vengono in campo diversi interessi. Quello alla riservatezza sull’esistenza del trust o, almeno, sulle norme che lo regolano; quello della opponibilità ai terzi soprattutto agli effetti della segregazione del patrimonio; quello della certezza e della trasparenza dei rapporti tra i soggetti del trust. In un ordinamento giuridico come il nostro che, da un lato, prevede forme di pubblicità come onere per rendere opponi bile ai terzi determinati atti e, dall’altro, prevede il principio della responsabilità del debitore con tutti i suoi beni presenti e futuri (art. 2740 c.c.) e il divieto del patto commissorio (art. 2744 c.c.), ben difficile e’ ottenere un elevato grado di riservatezza. Sembra completamente inutile discutere di segretezza dell’esistenza del trust perfino nell’ipotesi di segregazione di somme di denaro l’esistenza del trust non potrà non risultare nei rapporti bancari. Se si accetta, invece, che la pubblicità possa essere effettuata senza che il trustee riveli il contenuto dell’atto istitutivo ma si limiti ad agire nella sua qualità, si potrà anche ammettere che, palese l’esistenza del trust, possano rimanere riservati il rapporto istitutivo e le norme che lo regolano:ovviamente però con i limiti prima accennati con riferimento alla natura pubblica non solo dell’atto notarile istitutivo ma anche degli atti di deposito di esso. Più delicato e’ il problema della trasparenza e certezza dei rapporti tra i soggetti del trust basti pensare alla modifica del nome del trustee, al cambiamento della legge regolatrice. Prevedere una forma vincolata non e’ sufficiente a garantire la continuità della informazione, la trasparenza dei rapporti. Se nell’atto istitutivo si e’ prevista una forma convenzionale per le modifiche, potrà succedere che l’atto modificativo, pur redatto nella forma prevista, non sia di fatto rintraccia bile e conoscibile con tutte le conseguenze da qualcuno degli interessati se esso non sia soggetto a forme di pubblicità (esempio: atto istitutivo per atto pubblico o per scrittura privata autenticata e depositata presso il notaio X; modifica per atto pubblico o scrittura privata autenticata depositata presso il notaio Y). Per assicurare un collegamento tra i due atti si può prevedere o l’obbligo di ricorrere al medesimo notaio o l’obbligo di comunicazione del secondo al primo notaio che dovrà annotare l’atto di modifica sul suo atto istitutivo in analogia con quanto la prassi prevede per la revoca della procura (l’art. 59 L. n. 364 vieta però al notaio di fare annotazioni sopra gli atti, salvo i casi specialmente determinati dalla legge). Possono sorgere però le stesse difficoltà già accennate nel caso di cessazione del notaio che ha ricevuto l’atto istitutivo. Procedure analoghe, e con le medesime difficoltà, si potrebbero prevedere per il caso di scritture private depositate fiduciariamente presso notaio. Troppo macchinosa e costosa sembra l’ipotesi da qualcuno fatta[90] di modifiche da apportare unicamente sul testo originale dell’atto istitutivo stipulato per scrittura privata autenticata e depositata o per scrittura privata formalmente depositata o per scrittura privata fiduciariamente depositata. Nei primi due casi (scrittura privata autenticata o scrittura privata formalmente depositate) si dovrebbe applicare la procedura deposito, restituzione con conseguente trascrizione dell’atto originale nel verbale annotazione della modifica sull’originale nuova autentica e registrazione, nuovo deposito dell’originale modificato. Meno macchinosa e, quindi più accettabile sarebbe la procedura ipotizzata nel caso di depositi fiduciari: ma presenterebbe la difficoltà già evidenziata della cessazione del notaio depositario – fiduciario. Si potrebbe anche ipotizzare, a carico del trustee, un obbligo di tenuta di un registro sul quale annotare gli atti istitutivi e modificativi del trust sarebbe un obbligo di forma ex art. 1352 c.c. possibile se si accetta la tesi secondo cui le parti possono scegliere qualsiasi forma convenzionale, anche la più strana. Non ci si può però nascondere che tutte le ipotesi fatte hanno un elevato tasso di aleatorietà e non risolvono il problema delle conseguenze derivanti dalla violazione dei meccanismi consensualmente previsti. Non a caso legislazioni che prevedono il trust hanno anche previsto forme di pubblicità degli atti istitutivo e modificativo e albi o registri dei trustee; non a caso nella proposta di legge unificata, in materia di conflitto di interesse, approvata dalla camera dei Deputati il 22 aprile 1998, prevedendo che i soggetti politici che si trovino in conflitto di interesse possono conferire ad un trust le proprie attività, si prevede un albo dei trustee (per altro chiamati gestori); non a caso il Secit nella sua delibera n. 37[91] segnala la necessità di evidenziare i trust costituiti in Italia mediante catalogazione meccanografica che ne permetta la conoscibilità ai fini giuridici e fiscali. Con riferimaneto agli atti dispositivi,il trasferimento di beni al trustee può far nascere il problema della garanzia dei creditori del disponente: certamente costoro disporranno delle tutele previste dalla legge (azione revocatoria, procedure fallimentari, etc:). Essi si troveranno di fronte ad un atto “debole”: nel senso che, anche a non voler:lo qualificare come donazione o come atto di liberalità, si tratta di un atto che, nella maggior parte dei casi,non fa entrare nel patrimonio del disponente un corrispettivo del bene alienato. Il trasferimento dei beni al trustee pone al notaio l’obbligo di accertare la qualità di costui: non per il disposto dell’art. 54 Regolamento Lègge Notarile, la cui inapplicabilità alla fattispecie mi sembra indiscutibile, ma dal punto di vista delle conseguenze di tale trasferimento. Il disponente vuole la segregazione dei beni trasferiti al trustee. Il notaio dovrà quindi conoscere l’atto istitutivo del trust, dovrà indagare la volontà delle parti, dovrà verificare la qualità di trustee per far conseguire alle parti lo scopo voluto: quello della segregazione dei beni trasferiti rispetto al patrimonio del trustee, segregazione che, lo noto per inciso, ma il problema andrebbe approfondito, anche l’effetto “che i beni del trust non facciano parte dei regime matrimoniale dei beni del truste: la qualità di trustee varrà quindi, tra l’altro, ad escludere i beni dalla comunione legale. Se il trustee dovrà alienare beni, il notaio (ma non in applicazione dell’art. 54 Regolamento LN.) dovrà accertarne qualità e poteri: non solo per una evidente esigenza di certezza ma anche perché potrebbe essere preciso interesse dell’acquirente quello di acquistare beni “segregati” (diverso e’ acquistare un bene da Tizio col rischio delle azioni dei suoi creditori, dall’acquistare un bene da Tizio-trustee senza alcun rischio). In conclusione, se le parti vogliono un intervento qualificato ed efficiente del notaio (che si assumerà le conseguenti responsabilità) dovranno richiedere la stipula dell’atto istitutivo del trust e degli atti modificativi di esso per atto pubblico o per scrittura privata autenticata, senza ricorrere a mezzi poco idonei come il deposito in atti di scrittura privata[92]. Non va dimenticato, che e’ necessario conoscere la legge sostanziale applicabile per scelta del disponente non dimenticando l’art. 15 della legge n. 218/1995 d.i.p. che stabilisce che la legge straniera e’ applicata “secondo i propri criteri di interpretazione ed applicazione nel tempo” . Il notaio che redige un atto istitutivo di trust oltre a conoscere la legge straniera scelta dal disponente, dovrà porsi rispetto ad essa nella stessa posizione in cui si porrebbe l’interprete straniero dell’ordinamento richiamato. Non e’ inutile sottolineare che il controllo di legalità del notaio ex art. 28 LN. abbraccia anche il contenuto degli atti da lui non ricevuti o autenticati ma semplicemente depositati nei suoi atti; che la legge straniera non e’ applicata se i suoi effetti sono contrari all’ordine pubblico (art. 16 legge n. 218/1995 d.i.p.) da intendersi come ordine pubblico internazionale.
2.8 Le clausole di salvaguardia” operanti in sede di riconoscimento del trust.
Non esiste pertanto secondo la Convenzione alcun limite di carattere generale ed assoluto alla creazione di un trust nell’ambito di un ordinamento che non prevede l’istituto nel proprio diritto interno[93]. La Convenzione pone invece una serie di limitazioni specifiche, contenute in clausole che sono state dette di “salvaguardia”, in relazione ad ipotesi particolari. Si tratta degli artt. 15, 16, 18 e 19 della Convenzione, riguardanti le garanzie dell’applicazione delle norme imperative applicabili in determinate materie, le norme di applicazione necessaria, l’ordine pubblico e la piena competenza degli Stati contraenti in materia fiscale.
Gli artt. 15 e 16 della Convenzione[94], tracciano limiti di efficacia al riconosCimento, distinguendo tra due tipi di norme interne che dovrebbero impedire al trust di funzionare:
- a) norme semplicemente cogenti e sottratte ai punti da a) a f) dell’art. 15 della Convenzione;
- b) norme di applicazione necessaria che devono comunque essere applicate sul territorio dello Stato, indipendentemente dal collegamento con altro ordinamento della fatti specie internazionale (art. 16).
Principale fra questa è la disposizione contenuta nell’art. 15, che fa salva in via generale l’applicazione delle norme imperative contenute nella legge applicabile secondo le norme di conflitto del foro, particolarmente nelle materie ivi elencate. L’elencazione, neppure di carattere tassativo, comprende la protezione dei minori e degli incapaci, gli effetti personali e patrimoniali del matrimonio, i testamenti e la devoluzione delle successioni, in particolare la legittima, il trasferimento della proprietà e le garanzie reali, la protezione dei creditori in caso di insolvenza, la protezione dei terzi in buona fede sotto altri profili.
Risaltano i richiami al diritto ereditario (la legittima) ed alla costituzione del diritto di proprietà. La lex hereditatis e la lex rei sitae, determinate secondo la legge del giudice (le regole di conflitto del foro) prevalgono dunque sulla legge applicabile al trust. Il settlor italiano che trasferisce beni ad un trustee deve sapere che quest’ultimo, al momento dell’ apertura della successione, dovrà trasferire agli eredi necessari la proprietà delle quote di legittima. Il settlor italiano deve anche sapere che per trasferire al trustee la proprietà dei beni situati in Italia, dovrà rispettare le norme italiane sul trasferimento di proprietà. E’ proprio sul fronte della portata limitativa dell’art. 15 che il delegato britannico HAYTON, gran specialista di trust, ha potuto scrivere che la Convenzione fa un passo nella giusta direzione: i dieci in avanti li fa con l’art. 11 ed i nove indietro con l’art. 15[95]. Se a ciò si aggiungono gli strumenti generali di difesa degli interessi fondamentali del sistema giuridico del foro, norme di applicazione necessaria ed ordine pubblico, fatti salvi dagli art. 16 e 18, la piena competenza degli Stati in materia fiscale che rimane impregiudicata del tutto dalla Convenzione, secondo l’art. 19 ed il potere discrezionale riservato agli Stati membri dall’art. 13, è facile constatare come la libertà di organizzare trusts in base alle norme di conflitto, poste dalla Convenzione, rimane pur sempre circondata da notevoli e consistenti cautele.
In passato si era sostenuta l’incompatibilità del riconoscimento del trust con il nostro sistema ravvisata soprattutto nell’idea del “numero chiuso” dei diritti reali e nella “tipicità” delle cause negozia li, o più esattamente di attribuzione e di sposta menti patrimoniali[96].
All’infuori delle cause tradizionali, vendendi, donandi, solvendi ( e di quella di garanzia), non vi sarebbero ragioni ammissibili di spostamento patrimoniale, ed il trust sembrava sottrarsi ad ogni possibile inserimento tra le ragioni consentite. Oggi, i motivi di incompatibilità si sono certo attenuati. Quanto al “numero chiuso” dei diritti reali, si è messa in evidenza la spiegazione storica risalente al codice napoleonico, che trovava la sua giustificazione nel primato della proprietà. Per affermare il dominio come garanzia di libertà della persona, le limitazioni erano viste come eccezionali, e la proprietà destinata a riespandersi ogni volta che le restrizioni venissero meno: da qui l’esigenza avvertita dal legislatore liberale, di un catalogo chiuso e invalicabile dei diritti reali. Ma, quando si è messa in luce la non unitarietà dell’idea proprietaria, e non solo in termini di esistenza di “statuti diversi”, ma anche ed in primo luogo nel senso della relatività del concetto, venne meno il principale motivo di pregiudiziale rifiuto di una figura come il trust, in cui si vedeva un attentato al carattere chiuso dei diritti reali diversi dalla proprietà.
Anche la perseguita intangibilità dei beni da parte dei creditori del trustee ex art. 11 della Convenzione può sembrare in contrasto con l’art. 2740 c.c., rendendo impraticabile la strada del trust nel nostro ordinamento[97].
In realtà non è così. Se si guarda al 1 comma della norma[98], vi si trova una regola imperativa ed inderogabile, ma non necessariamente traducibile in un divieto per il trust.
Anzitutto si può dire, in generale che se la contrarietà a norme imperative prevista dall’art. 1418 c. c. significa violazione di un divieto posto dall’ordinamento, il semplice darsi di una norma imperativa non significa posizione del divieto per la violazione del quale ai sensi di detta norma il contratto viene inficiato di nullità. Un divieto per essere tale deve essere espresso nei termini precisi di un dovere di non fare alcunché. Quando una norma si limita invece a prevedere un certo effetto come inderogabile questo significa semplicemente che i soggetti privati non possono porre in essere atti di autonomia volti a conseguire effetti contrastanti con il primo: c’è solo un difetto del potere di conseguire l’effetto contrastante con la regola posta, non un dovere di non porre in essere atti idonei a conseguirlo. L’effetto perseguito non si può realizzare ma questo non rende il contratto che sia inteso a perseguirlo contrario a norme imperative, non c’è contrapposizione tra atto di autonomia e divieto, per il semplice fatto che il divieto non sussiste. L’atto posto in essere è caratterizzato da un difetto di potere dell’autonomia privata: non è antitetico a una norma imperativa come dovrebbe essere perchè ne derivi la nullità.
Altro è, invece, il piano sul quale il contratto si attesta quando non perii suo contenuto ma per taluno soltanto degli effetti che intende conseguire risulti in contrasto cori una norma imperativa. In questo caso l’assenza del divieto e in pari tempo l’assenza del potere dei soggetti privati di conseguire l’effetto che il contratto sarebbe in grado di produrre non danno luogo a nullità ma a semplice inefficacia del contratto per la parte contrastante con la norma imperativa. Così nel caso dell’art. 2740, 1 comma. Esso non formula un divieto ai soggetti privati di disporre una separazione dei beni; è, invece, la separazione dei beni un effetto come tale non perseguibile perché dalla norma in questione si ricava il principio per cui le ipotesi di separazione patrimoniale possono essere prevedute soltanto dalla legge e rimane fuori dall’ambito proprio dell’autonomia privata un effetto simile. Un contratto che contrasti con una norma imperativa come nella materia nostra la regola della totalità (dei beni) nella responsabilità patrimoniale, potrà essere nullo soltanto quando il conflitto con la norma imperativa o con il principio di cui essa è espressione ammonti a illiceità della causa, cosa che ricorre quando l’effetto specificamente perseguito dalle parti sia quello che la norma vuole impedire.
2.9 Iscrizione del trust e relativo ambito di applicazione.
Se si considera che il testo originale della Convenzione sul trust è redatto nella doppia lingua francese e inglese[99], si può ben ipotizzare sotto questo profilo, una mancanza di coordinamento nella traduzione italiana. Conviene, qui, menzionare la circostanza che dei trattati multilaterali di solito “fanno fede due o più versioni linguistiche tra le quali spesso, come anche in questo caso, non è l’italiana[100]: nella Gazzetta Ufficiale, insieme alla legge che autorizza la ratifica e ordina l’esecuzione, viene pubblicata la versione italiana, se “fa fede” altrimenti una delle versioni “autentiche” seguita da una traduzione italiana di cui si sottolinea il carattere “non ufficiale”; quest’ultimo è il caso della legge n. 364 del 1989 che autorizza la ratifica e contiene l’ordine di esecuzione della Convenzione del 1 luglio 1985 o relativa ai trust, allegandone una traduzione non ufficiale[101]. E’ doveroso ricordare, inoltre, che alla “interpretazione dei trattati autenticati in due o più lingue” è dedicata l’art. 33 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1968 il quale sancisce fra l’altro la presunzione “che i termini e le espressioni di un trattato abbiano lo stesso senso nei vari testi autenticati”.
Resta fermo, pertanto, l’obbligo per l’interprete italiano di attenersi alla traduzione ufficiale. Ma proprio da questa sorgono i problemi interpretativi in relazione al termine “iscrizione”.
Il testo francese parla espressamente di inscription, mentre quello inglese parla più genericamente di registration; evidentemente i termini vanno coordinati con i diversi sistemi pubblicitari adottati dai Paesi firmatari della Convenzione.
Un diverso problema interpretativo nasce dalla locuzione “iscrivere nel registro[102] che tuttavia si comprende, nella sua atecnicità, come riferibile ad un ampia gamma di ipotesi, data la vasta applicabilità della Convenzione, tale da riferirsi a trascrizioni, iscrizioni, registrazioni, annotazioni[103]. Seguendo la classificazione fornita dal prevalente orientamento dottrinale[104], il nostro sistema di diritto positivo conosce come noto tre forme di pubblicità immobiliare: quella costitutiva quella dichiarativa e la pubblicità notizia. Si tratta di stabilire in quali delle tre forme rientri il trust Sembrerebbe strano e non conforme al sistema della pubblicità immobiliare italiano, ritenere che il termine “iscrizione” indicato dal legislatore in relazione al trust sia tale da attribuirne il significato proprio: come noto, infatti, unica ipotesi di iscrizione del nostro sistema è quella collegata al diritto di ipoteca che è l’unico esempio di pubblicità costitutiva. Il che verrebbe ad affermare che, secondo la Convenzione, non esisterebbe trust senza la sua iscrizione. Non sembra che la norma abbia inteso anzitutto introdurre una nuova ipotesi di pubblicità costitutiva e, quindi, il suo significato non può altro che essere inteso nel sènso di “trascrizione”. Del resto non si deve dare eccessiva importanza formale al termine “iscrizione” considerato, da alcuni[105] la base normativa per escludere la pubblicità del trust nel diritto italiano: il nostro legislatore, infatti, non è stato mai molto attento alle questioni linguistiche e molto spesso queste variazioni di linguaggio non hanno alcun significato sostanziale. Ad esempio, la legge fallimentare all’art. 88 afferma che la sentenza dichiarativa di fallimento, in quanto il fallito sia titolare di beni immobili, deve essere annotata. Anche qui il termine usato è sicuramente improprio perché si tratta di una vera e propria trascrizione. A tale conclusione si giunge anche in considerazione del fatto che rappresenta una peculiarità dell’ordinamento giuridico italiano, che non si ritrova in un altro sistema di civil law, la duplicità del sistema pubblicitario immobiliare e che in realtà il termine “iscrizione” deriva da una mera traduzione letterale del termine francese. Come noto, infatti, il sistema pubblicitario francese prevede che il titolo che costituisce l’ipoteca si renda pubblico per gli stessi effetti per cui si rendono pubblici i titoli costitutivi e traslativi di qualsiasi altro diritto reale: nessuna differenza secondo detto diritto, vi è fra iscrizione e trascrizione. Sempre con riferimento al presunto carattere incompatibile del sistema di iscrizione di cui all’art. 12 della Convenzione con l’ordinamento giuridico italiano in relazione all’iscrizione di un trust estero, si pone in evidenza il caso particolare del trust c.d. occulto.
Nel dibattito apertosi dopo la Convenzione vi, è tuttavia anche chi ritiene che i trusts occulti, vadano contrastati e Quindi che sia necessaria l’evidenziazione del beneficiario per la trascrivibiltà del trust, contrariamente a Quanto sostenuto fin qui. Ma a sostegno della trascrivibilità anche di questo genere di trust, si può ricordare che il presupposto per la tutela dell’affidamento dei terzi è la rilevabilità della destinazione particolare dei beni che risulta immediata dalla qualifica di trustee del titolare[106]. D’altra parte in ordine ai poteri di disposizione spettanti al trustee in relazione ai beni intestati in suo nome, va ricordato che nella prassi dei paesi di common law è del tutto usuale, se non codificato dalla legge concedere ai trustees il potere di alienare il bene a fronte di un corrispettivo adeguato. Lo stesso precedente giurisprudenziale del Tribunale di Casale Monferrato ha deciso proprio nel senso di declinare la competenza a concedere l’autorizzazione ad alienare beni immobili siti in Italia, in quanto il trustee non necessitava di alcuna autorizzazione per alienare i beni in questione[107].
2.10 Le condizioni per l’iscrizione del trust
L’art, 12 della Convenzione; regola la questione della “registrazione” o “iscrizione” dei beni del trust da parte del trustee in tale sua qualità (od in qualsiasi altro modo che riveli l’esistenza del trust); benché n. 218/ 95[108]), acquista preminenza nelle ipotesi che implicitamente o espressamente vieti l’iscrizione idonea a rilevare l’esistenza del trust[109].
L’art. 12 è destinato ad assicurare la protezione del beneficiary e dei terzi[110], in mancanza della quale la Convenzione rischia di rimanere. priva di effettività pratica per quanto riguarda il sistema italiano. Occorre subito premettere che, nell’attuale mancanza di una disciplina “domestica” del trust[111], la rilevanza applicativa della norma si ha con riguardo a trusts costituiti all’estero su beni situati in Italia. In questa prospettiva, tra concreto recepimento degli effetti di trusts “stranieri” e quantità e qualità delle limitazioni derivanti dall’ordinamento del paese “importatore” si sta giocando la sorte dell’applicazione della Convenzione.
L’art. 12 della Convenzione attribuisce al trustee la facoltà di far accedere i beni mobili, immobili o i documenti attinenti, alla pubblicità prevista dai rispettivi ordinamenti in cui opera il trust, la quale pubblicità dovrà aver luogo in modo tale da rendere nota la qualità di trustee del disponente ovvero la presenza del trust Questa facoltà è però subordinata all1nesistenza di un divieto in tal senso nella stessa legislazione oppure alla constatazione della incompatibilità di tale pubblicità conia configurazione attribuitale dallo stesso sistema. Sennonché, è stato anche rilevato che in buona parte la Convenzione costituisce diritto sostanziale, laddove contiene il riconoscimento di uno strumento giuridico anche se non disciplinato dall’ordinamento di accoglienza[112]. Insomma potrebbe esservi una contraddizione di non poco momento fra il riconoscimento di un istituto che, nella sua essenza, contiene la distinzione fra il “patrimonio personale del trustee e quello del trust e l’inesistenza di strumenti che facciano valere questa distinzione.
Così, al fine di una migliore comprensione dell’art. 12 della Convenzione, si rende opportuno e necessario svolgere alcune considerazione relative al diverso atteggiarsi della pubblicità del trust nei sistemi di Common law e in quelli di civil law.
Nel sistema inglese l’esistenza di un trust non risulta da alcuna formalità pubblicitaria[113]; anzi, la legge fa espressamente divieto di menzionare nel libro dei soci che azioni sono di proprietà di un soggetto in quanto trustee[114]; con qualche eccezione, analogamente è disposto in materia di beni immobili[115]. Neanche la prassi di intestare conti bancari al nome del trust o al trustee nella sua qualità è universale[116]. Le ragioni di questa prassi dipendono dal diritto inglese che non solo ha privilegiato la facile circolazione dei beni, ma pure i diritti e le obbligazioni scaturenti da un trust all’interno delle regole di Equity, mentre i registri fondiari e le altre forme di pubblicità appartengono al sistema della Common law[117].
Gli ordinamenti civilisti non distinguono, come in diritto inglese, fra negozio istitutivo e negozio di trasferimento[118], tanto che un negozio istitutivo “nudo”, cioè senza un contemporaneo trasferimento di proprietà, non è normalmente concepito[119]. Di qui le norme che subordinano l’efficacia del negozio verso i terzi, e quindi la sua opponibilità, all’effettuazione delle forme di pubblicità afferenti il trasferimento. Alcuni ordinamenti, che hanno regolarmente rapporti tendenzialmente rivolti verso beni che circolano senza un regime pubblicitario (per esempio obbligazioni o altri titoli al portatore), hanno previsto l’annotazione in un registro dei trusts, eventualmente rendendo quest’ultima annotazione alternativa rispetto alla prima[120]. Un altro orientamento è stato seguito dal Liechtenstein, Mauritius[121] e Israele[122], che non hanno registri fiduciari. Gli ordinamenti civilisti, posti dinnanzi al tema della tutela contro atti di disposizione abusiva del fiduciario, non rifuggono del fare ricorso ai medesimi concetti. Il trasferimento al fiduciario, non compare invece nella legge dell’Etiopia[123] e del Quebec[124].
Nel trust di modello inglese, dunque, non è prevista, anzi è espressamente vietata, alcuna forma di pubblicità, immobiliare o in altri registri (come i libri dei soci[125]); ma anche nei Paesi non di Common law le forme di pubblicità del trust sono facoltative. La formalità degli adempimenti pubblicitari fu sostenuta alla Conferenza dell’Aja[126]; innanzitutto fu sottolineato che l’atto istitutivo dei trust fosse redatto, e non soltanto provato, per iscritto[127].
La prescrizione formale dell’art. 2 (“provati per iscritto”), riguarda il negozio istitutivo del trust, mentre l’art. 12 riguarda il negozio di trasferimento; fra le due norme non esistono contatti. Restando alla seconda, si rileva che anche qui gli esperti civilisti sono stati preda del timore irrazionale. Infatti, una volta che la Convenzione impone il riconoscimento dei trusts, non si veda migliore garanzia che quella della pubblicità. Invece, essi si sono rifugiati nell’ art. 15, 1 comma lett. f), sulla protezione dei terzi di buona fede, e si è introdotto un ulteriore elemento di incertezza. La soluzione accolta dalla Convenzione fu invece nel senso. di riconoscere il diritto del trustee di compiere le formalità pubblicitarie nella qualità di trustee o ” de telle facon que l’exsistence du trust apparisse” a meno che ciò sia vietato o incompatibile con la lex loci.
2.11 Soggetto onerato dell’iscrizione ed effetti.
Come si evince dall’art. 12 il soggetto in capo al quale risiede l’onere dell’iscrizione è il trustee. Del resto anche il legislatore italiano che sta discutendo la già ricordata proposta di legge n. 6457 recante “La disciplina del trust ha ribadito l’onere dell’iscrizione in capo al trustee, se vuole conseguire l’effetto della segregazione patrimoniale tra i beni del trust ed i propri, statuendolo all’art. 2 (Separazione patrimoniale), 2 comma.
Quindi, l’esigenza del trustee che agisca in Italia di rendere nota la propria qualità di trustee, lo condurrà, come del resto è prescritto in tutte le legislazioni, a tenere i beni in trust distinti dai propri.
Effetto dell’iscrizione sarà la segregazione giuridica. Effetto della segregazione giuridica è certamente il riconoscimento di effetti giuridici alla segregazione di fatto. Trattandosi di beni le cui vicende di circolazione siano attestate in registri, il trustee vorrà naturalmente accedere ad essi e far ivi risultare il diritto che gli compete quale trustee (proprietà o altro diritto reale, ma anche i nuovi diritti trascrivibili, come la vendita ad effetti obbligatori); così facendo, egli si avvale della disposizione dell’art. 12 della Convenzione del!’ Aja[128]. Ora il rinvio alla legge applicabile al trust, non sta a significare che la lex rei sitae abbia perso ogni rilievo a proposito del riconoscimento degli effetti del trust, quanto meno con riferimento ad alcuni di essi. Anzitutto, sono sottratti alla legge regolatrice del trust i diritti dei terzi sui beni del trust che restano disciplinati esclusivamente dalla lex rei sitae[129]. Ma sono, soprattutto gli effetti prodotti dalla legge regolatrice del trust sui beni ad esso conferiti che sono in grado di essere concretamente operanti solamente nella misura in cui essi siano opponibili ai terzi in coerenza con le modalità previste dalla legge dello Stato in cui essi devono essere a tal fine iscritti, trascritti o annotati; e cioè, con la legge dello Stato in cui la pubblicità del trust tali beni deve essere attuata[130]. Quanto ora indicato non intende ridurre in alcun modo la rilevanza, anche ai fini internazional privatistici, che, proprio grazie al sistema convenzionale, assume la non scomponibilità degli effetti reali e personali ricof1ducibili al trust, l’unitarietà della disciplina di tale istituto e la sua prevalenza rispetto a qualsiasi altra (anche in senso conflittuale) nel determinare situazione di carattere assoluto che ne deriva. Tanto che non è stato neppure posto in dubbio che deve essere proprio la legge regolatrice del trust a determinare sia il contenuto e le caratteristiche dei diritti del trustee sui beni che gli sono trasferiti sia l’idoneità dell’atto, pur sottoposto a diversa legge, a trasferire il rilevante diritto sul bene ai fini della sua costituzione in trust Ed a maggior ragione altrettanta certezza è stata manifestata a proposito dell’applicazione della legge regolatrice del trust con riguardo ai diritti dei beneficiari ed ai corrispondenti doveri del trustee relativamente ai beni conferiti in trust[131]. Ciò che si è inteso porre in rilievo è l’essenzialità di una corretta e compiuta attuazione del trust nell’ambito dell’ordinamento in cui si trovano i beni al fine di renderne concretamente opponibili gli effetti nei confronti di terzi. E tale attuazione, naturalmente, dovrà essere resa operante in coerenza con quanto dispone la legge dello Stato in cui la pubblicità deve concretamente avvenire. Sarà, quindi, tale legge a regolare le iscrizioni, trascrizioni, annotazioni in registri pubblici e privati sui beni conferiti in trust Ed in tal senso, sappiamo che la stessa normativa della Convenzione dell’Aja riconosce al trustee il diritto di ottenerle “a meno che ciò non sia vietato dalla legge dello Stato nel quale l’iscrizione deve aver luogo o sia incompatibile con tale legge” art. 12[132]. Tale disposizione, peraltro, non può essere intesa nel senso di affermare la prevalenza della disciplina della lex rei sitae anche con riguardo agli effetti del trust che la stessa normativa di diritto uniforme legittima ed attribuisce alla competenza della legge regolatrice del trust[133]. In tal senso, quindi, non appare condivisibile l’obiter dictum (peraltro, contrario ad una ormai consolidata pratica degli Uffici del Registro) espresso dal Giudice del registro delle imprese del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere allorché precisa che l’iscrizione di un trust “risulta incompatibile con il principio di tipicità che presiede alla pubblicità nel registro delle imprese poiché nessuna norma dispone la relativa iscrizione[134]. Se così fosse, invero, l’effetto utile della normativa uniforme sarebbe completamente disatteso[135] e si tornerebbe alla disciplina di diritto comune dei conflitti di legge. Ed in tale prospettiva, non sarebbero registrabili, inscrivibili e trascrivibili trusts regolati e costituiti da diritti stranieri sui beni appartenenti ad ordinamenti che non disciplinano il trust. La norma in esame deve essere, quindi, anzitutto, interpretata ed attuata nel senso che gli effetti conseguiti attraverso la disciplina applica bile al trust dovranno essere resi concretamente operativi tenendo conto, e nel rispetto di quanto, previsto dall’ordinamento in cui si trovano, i beni, proprio al fine di garantire l’opponibilità di tali effetti nei confronti dei terzi. Naturalmente, qualora la disciplina della lex rei sitae non preveda specifici atti per pubblicizzare gli effetti reali conseguenti alla particolare disciplina del trust[136], dovrà quanto meno nelle sue concrete modalità di applicazione, essere adeguata, nella misura consentita all’interprete in difetto di specifici interventi legislativi, alle peculiarità dell’istituto. In proposito l’esperienza vissuta dall’ordinamento italiano appare senz’altro istruttiva nell’indicare modalità ed accorgimenti adeguati a pubblicizzare le peculiarità degli effetti traslativi che, volta a volta, caratterizzano lo specifico trust relativo a beni siti in Italia pur in mancanza di una normativa ad hoc al riguardo[137].
La Convenzione dell’Aja dello luglio 1985 prevede, come si è gia sostenuto, insieme alle norme uniformi di diritto internazionale privato anche una norma di diritto sostanziale uniforme enunciata nell’art. 11 par. 1 da interpretarsi in stretto collegamento con l’art. 2 in virtù della quale è indicato il contenuto minimo del riconoscimento degli effetti del trust in funzione di quanto disposto dalla sua legge regolatrice. In essa, infatti, si disciplinano direttamente ed immediatamente gli effetti minimi che, in modo uniforme, deve produrre il riconoscimento del trust in ogni ordinamento degli Stati contraenti. Pertanto, al contenuto di tale disciplina sostanziale uniforme, caratterizzata dall’obbligo di riconoscere effetti segregativi al trust relativamente ai beni in esso ricompresi rispetto alla residua parte del patrimonio del settlor ed agli altri beni del trustee, gli Stati contraenti vincolati e da tale contenuto possono prescindere nel solo eccezionale caso previsto all’art. 13: e cioè con le modalità ed i criteri in tale norma previsti, allorché si tratti di un c.d. trust interno ad uno Stato il cui ordinamento non prevede tali effetti.
Alle considerazioni ora svolte si è opposta una parte della dottrina[138] rilevando che, in realtà, è l’art.5 della stessa Convenzione che, di per sé, esclude l’immediatezza e la diretta operatività di effetti uniformi relativi alla segregazione del patrimonio attribuito al trust Infatti, secondo la dottrina in esame, poiché tale norma esclude l’applicazione della Convenzione “nella misura in cui la legge determinata dal capitolo II non conosce l’istituto del trust o la categoria di trust in questione”, non sussiste l’obbligo di riconoscimento del trust relativamente ad un rapporto che abbia, in un ordinamento in cui tale istituto è sconosciuto, il suo centro di gravità perché ivi sono localizzati in misura preponderante i beni, perché ivi ha residenza il fiduciario o perché ivi ha sede l’amministrazione dei beni[139].
Né a tal fine potrebbe soccorrere nel caso ora indicato la scèlta di una legge straniera che conosca e regolamenti l’istituto del trust in quanto il potere delle parti di designazione della legge applica bile al trust dovrebbe essere limitato ai soli casi in cui sussistano “elementi oggettivi di transnazionalità[140] e, comunque, non sarebbe destinato ad operare ove confligga con “norme inderogabili” (art. 15) o con “norme di applicazione necessaria” (art. 16) tra cui, ad esempio, la norma contraria all’effetto segregativo del patrimonio di cui all’art. 2740 cod. civ. In realtà, tali obiezioni, anche se autorevoli e sicuramente ben motivate, non sembrano convincenti[141]. Anzitutto, allorché ci si trovi innanzi ad una convenzione di diritto uniforme relativa a norme di diritto internazionale privato riferite ad obbligazioni contrattuali (anche nei casi in cui siano produttive di effetti reali), la scelta della legge applica bile è normalmente consentita a prescindere dalla c.d. internazionalità del rapporto[142]. Si tratterà, eventualmente, di prevedere i limiti entro cui tale scelta è possibile, come, ad esempio, chiaramente si esprime l’art. 3, par. 3 della Convenzione di Roma sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali e come, d’altronde, altrettanto chiaramente si esprime l’art. 13 della Convenzione in esame[143]. Si può, quindi, al riguardo rilevare eventualmente un’opposta tendenza rivolta a favorire la scelta e l’applicazione di norme di ordinamenti statali in funzione della coerenza della disciplina nel loro ambito prevista con il piano contrattuale per il quale la scelta è operata piuttosto che in funzione dei loro collegamenti con esso.
L’evoluzione della giurisprudenza e della più recente normativa nazionale e di diritto uniforme è tutta nel senso di favorire la più ampia libertà delle parti nella designazione della legge applicabile ai loro rapporti contrattuali[144]. Né in senso contrario, può essere invocato l’art. 5 della Convenzione del 1985. Tale norma, infatti, è solamente rivolta ad impedire che gli effetti minimi di diritto uniforme sostanziale in essa previsti direttamente con specifico riguardo al riconoscimento degli effetti del trust possano realizzarsi sulla base del solo esercizio dell’autonomia privata sostanziale delle parti interessate alla costituzione di un trust allorché tale esercizio avvenga senza un suo adeguato inquadramento nell’ambito di uno specifico ordinamento in cui il trust trovi anche una compiuta disciplina[145]. In altri termini, proprio perché la Convenzione in esame, nonostante abbia inteso prevedere direttamente l’obbligo degli Stati di riconoscere gli effetti segregativi del patrimonio del costituente propri del trust, resta una Convenzione di diritto internazionale privato uniforme, si è voluto evitare che essa potesse divenire uno strumento rivolto a conferire “effettività giuridica” a tale istituto in un ordinamento che non conosce il trust allorché le parti interessate, o i collegamento oggettivi ad esso relativi, non ne permettono l’inquadramento nell’ambito di un ordinamento che lo regola compiuta mente. Tanto più che, in difetto di tale inquadramento, il trust si verrebbe a collocare in un “vuoto normativo” con effetti contrari a quanto gli Stati contraenti hanno ripetuta mente affermato nel corso dei lavori preparativi della Convenzione in esame ed alla stessa funzione che questi ultimi le hanno assegnato[146]. Essa, infatti, pur prendendo atto della rilevanza pratica e dell’utilità della costituzione di patrimoni separati con specifica destinazione di scopo e riconoscendone la maggiore funzionalità rispetto alla creazione al riguardo di nuovi soggetti giuridici ha voluto, comunque, escludere il riconoscimento di tali effetti (indicati agli artt. 2 e 11) per il tramite di un trust volontario in difetto di un loro preciso inquadramento nell’ambito di un ordinamento che ne offra una compiuta disciplina. In tal senso, ed entro questi limiti, quindi, si può affermare che non è possibile procedere alla valida costituzione di un trust allorché nazionalità delle parti, luogo dei beni e legge applica bile (scelta dalle parti o, in difetto, determinata in virtù dei criteri di collegamento indicati dall’art. 7) conducono ad un ordinamento che non riconosce espressamente e non disciplina l’istituto del trust.
[1] M. LUPOI, Introduzione ai trusts. Diritto inglese, Convenzione dell’Aia, Diritto italiano, Milano, 1994; Si veda il saggio del prof. LUPOI, Trust: temi generali e impostazioni applicative, § 6, in questa pubblicazione. Cfr. PICCOLI – RAITI, Atto di costituzione di un .Trust., in Not., 1996, p. 265.
[2] Anche se letteralmente il termine trust andrebbe tradotto con la parola .fiducia-. Si preferisce utilizzare il termine .affidamento-, poiché questo esprime in maniera più compiuta il connotato fiduciario che sta alla base del rapporto giuridico che si instaura con il trust. Si veda il saggio del prof. LUPOI, Trust: temi generali e impostazioni applicative, § 1, in questa pubblicazione, dove l’A. afferma che la fiducia – questa fiducia – è fondata sull’affidamento-. In Inghilterra” il trust è affidamento.
[3] Cfr. A. TRABUCCHI, Istituzioni di diritto privato, Padova, 1998, p. 151 ss., afferma che per un chiarimento di natura teminologica, va detto che non va confuso il trust di cui sopra con il trust a cui si fa riferimento quando si utilizza l’espressione antitrust con la quale si indicano tutti gli organismi e i sistemi posti a tutela della libertà di mercato nei grandi affari che coinvolgono il mondo moderno.
[4] Cfr. G. ALPA, Istituzioni di diritto privato,Torino, 1997, p. 620.
[5] Sul concetto di affidamento si rinvia al saggio del prof. LUPOI, Trust: temi generali e impostazioni applicative, § 2, in questa pubblicazione.
[6] Altro elemento che si potrebbe individuare è, dunque, l’esistenze di uno scopo del trust che può o meno riguardare soggetti beneficiari.
[7] Sul concetto di segregazione si rinvia al saggio del prof. LUPOI, Trust: temi generali e impostazioni applicative, § 7, in questa pubblicazione.
[8] Conseguenza, appunto, del trasferimento che comporta il distacco totale e definitivo del bene dal disponente al trustee per la durata del trust.
[9] Cfr. R. DI VIRGILIO, Appunti in materia di trusts, in Vita not., 1997, p. 1070; A. G. PATON, R. GROSSO, The Hague convention on the law applicable to trusts and on their recognition: implementation in Italy, in Riv. Not., 1995, p. 563.
[10] R. DI VIRGILIO, Appunti [supra, nota 9].
[11] Secondo la dottrina dominante rappresentata dal prof. Maurizio Lupoi, in termini civilistici la fiducia fra il soggetto che istituisce un trust, detto «disponente«, e il trustee è solo un motivo dell’atto e non reagisce né sulla ricostruzione causale del negozio né sulle sue regole operative: essa non sopravvive all’istituzione del trust, perché il disponente non ha azione contro il trustee. La fiducia fra beneficiari e trustee è un mero accidente. L’affidamento è l’essenza del trust. Affidamento ha due valenze: la prima indica che nessun meccanismo operativo del trasferimento di un diritto può produrre l’effetto di far venire in esistenza un trust se l’oggetto di quel trasferimento non è «affidato« al trustee e, dunque, posto sotto controllo; la seconda che il beneficiario di un trust ha diritto di fare «affidamento« che il trustee si comporterà secondo quanto la legge prescrive; il beneficiario non ha alcuna ragione di riporre fiducia nel trustee, ma ha diritto di attendersi (ha cioè una aspettativa) che egli operi per il raggiungimento delle finalità che il disponente (o la legge) gli ha commesso di realizzare. Sul punto di veda il saggio del Prof. LUPOI, Trnst: temi generali e impostazioni applicative, ai § 2 e 7, in questa pubblicazione.
[12] Tale Convenzione è entrata in vigore, ai sensi del suo ano 30, il 10 gennaio 1992 a seguito del deposito delle ratifiche di Regno Unito, Italia e Australia. La ratifica italiana è avvenuta il 21 febbraio 1990 (Gazz. Uff, n. 285 del 5 dicembre 1991) in virtù dell’attuazione di quanto disposto nella l. 16 ottobre 1989, n. 364, relativa all’autorizzazione alla ratifica ed all’ordine di esecuzione della Convenzione in esame. In merito all’attuale stato delle ratifiche cfr. POCAR, TREVES, CLERICI, DE CESARI, TROMBETTA-PANIGADI (a cura di), Codice delle Convenzioni di diritto internazionale privato e processuale, 3° ed., Milano, 1999, pp. 2362-2363.
[13] Trust, in Enciclopedia del diritto Garzanti, 1995, p. 1210 ss. Storicamente il trust trova le sue radici nel diritto inglese di epoca medioevale dove in molti, soprattutto coloro che appartenevano ad un censo elevato, ed al fine di soddisfare esigenze temporanee (come, ad esempio, la partecipazione ad una crociata) presero ad affidare la gestione dei propri beni ad una persona di fiducia, affinché li detenesse e li amministrasse durante la loro assenza; era inteso che i beni medesimi dovevano essere ritrasferiti all’affidante nel caso di suo ritorno o agli eredi di lui in caso di sua morte. Evidentemente, un accordo del genere era esclusivamente fondato “sulla parola».
[14] Cfr. M. LUPOI, La Convenzione dell’Aia sul riconoscimento dei trusts e i suoi effetti nel diritto italiano, in V. Rizzo (a cura di), Diritto privato comunitario, Napoli, 1997, I, p. 271 ss.
[15] F. W. MAITLAND (Londra 1850 – Gran Canaria 1906) giurista e storico inglese. Professore a Cambridge, fondò nel 1877 la “Selden Society» che diede grande impulso agli studi della storia del diritto anglosassone, autore fra l’altro di Storia del diritto inglese con F. POLLOK (1895), in Enciclopedia del diritto Garzanti, 1995, p. 744.
[16] O. GIERKE (Stettino 1841- Berlino 1921), giurista tedesco. Professore a Breslavia, Heidelberg e Berlino, durante l’elaborazione del BGB si batte perché gli istituti giuridici della tradizione germanica vi fossero accolti. Resta fondamentale il suo contributo alle moderne teorie del diritto privato in Germania, in parziale dissonanza rispetto alla tendenza della pandettistica.’Fra le sue opere: Manuale di diritto privato tedesco (1895-1917), in Enciclopedia del diritto Garzanti, 1995, p. 567.
[17] Cfr. M. LUPOI, La Convenzione dell’Aia [supra, nota 14], p. 271 ss.
[18] Cfr. M. LUPOI, La Convenzione dell’Aia [supra, nota 14], p. 274.
[19] Cfr. M. LUPOI, Trusts 1) Profili generali e diritto straniero, in Enc. Giur. Treccani, vol. XXXI, 1995, 1.
[20] Convenzione concernente la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale (Bruxelles, 27 settembre 1968) nel testo modificato della convenzione di adesione di Lussemburgo del 25 ottobre 1982 e della convenzione di adesione di Donostia San Sebastian del 26 maggio 1989 e Protocollo, in R. CLERICI, F. MOSCONI, F. POCAR, Legge di Riforma del diritto internazionale privato e testi collegati, Milano, 1995, p. 63 ss. L’art. 3 della Convenzione dell’Aia statuisce che -La Convenzione si applica ai soli trust costituiti volontariamente e comprovati per iscritto,; M. LUPOI, Introduzione ai trusts [supra, nota 1], p. 134 ss., nota che fra la Convenzione dell’Aia e quella di Bruxelles del 1968 sul riconoscimento delle sentenze e la competenza giurisdizionale nella D.E. esiste un rapporto assai stretto perché l’esclusione dei cosiddetti trust giudiziali dall’ambito della prima Convenzione è dovuto alla Convenzione di Bruxelles, che si applica anche al riconoscimento di sentenze straniere in materia di trust. Il trust della Convenzione di Bruxelles è senza dubbio quello anglo-sassone e soltanto esso. Quello della Convenzione dell’Aia è il trust c.d. -amorfo-, che si riscontra agevolmente in ordinamenti non di common law. Le sentenze riguardanti il primo modello di trust, quello anglo-sassone, circoleranno liberamente grazie alla norma di Bruxelles; quelle riguardanti il secondo saranno invece paralizzate per la mancanza di una corrispondente disposizione nella Convenzione dell’Aia. L’A. afferma che, peraltro, al momento dell’adesione alla Convenzione dell’Aia uno Stato può dichiarare di estendere il riconoscimento anche ai trust -giudiziali.; infatti, l’art. 20, lo comma, della Convenzione dell’Aia, prevede che -Ogni Stato contraente può in ogni momento dichiarare che le disposizioni della Convenzione saranno estese ai trust dichiarati da provvedimenti giudiziale.
[21] Convenzione sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (Roma, 19 giugno 1980), in R. CLERI CI, F. MOSCONI, F. POCAR, Legge di Riforma del diritto internazionale privato [supra, nota 20], p. 125 ss.
[22] M. LUPOI, Introduzione ai trusts [supra, nota 1], p. 134 ss.
[23] Cfr. C. CASTRONOVO, Il trust e sostiene Lupoi, in Eur. dir. priv., 1998, p. 443.
[24] Cfr. C. CASTRONOVO, Trust e diritto civile italiano, in Vita not., 1998, II, p. 1323.
[25] Cfr. M. LUPOI, Riflessioni comparatistiche sui trusts, in Eur. dir. priv., Milano,1998, p. 437.
[26] M. LUPOI, La Convenzione dell’Aja [supra, nota 14], p. 274.
[27] Cfr. M. LUPOI, La Convenzione dell’Aia [supra, nota 14], p. 275.
[28] Legge 16 ottobre 1989, n. 364 (in suppl. ordinario alla Gazzetta Ufficiale n. 261, dell’ 8 novembre 1989), Ratifica ed esecuzione della Convenzione sulla legge applica bile ai trusts ed alloro riconoscimento, adottata a l’Aja il 10 luglio 1985.
[29] R. LUZZATTO, op. cit. p. 5: “le ragioni di tale rapidità del tutto inusuali se si pensa ai tempi normalmente necessari perché entrino in vigore gli accordi internazionali stipulati dall’ Italia cfr. LIBRANDO, MOSCONI, RINOLDI, (a cura di) Tempi biblici per la ratifica dei trattati, Padova, 1993, pp. 10 ss., 69 ss., sono probabilmente da ricercare nel!’ idea che il riconoscimento di trusts e il loro operare in Italia porti ad un incremento dei flussi di investimento (v. sul punto A. GAMBARO, Il trust in Italia, in Nuove leggi civil. Comm., 1993, p. 1214 ss.: ma v. le osservazioni di PONZANELLI, Le annotazioni del comparatista, ivi, a p. 1228).
[30] R. LUZZATTO, Legge applicabile e riconoscimento di trusts secondo la Convenzione dell’Ala del 10 Luglio 1985, in Rivista di diritto internazionale privato e processuale, 1999, p. 5, alla data del 5 marzo 1999 essa è in vigore fra altri quattro Stati, ossia Canada, Cina (per il territorio di Hong Kong), Malta e Paesi Bassi.
[31] A. BUSATO, Convenzione relativa alla legge sui Trusts ed alloro riconoscimento (Convenzione firmata a l’Aja il 10 luglio 1985, resa esecutiva con L. 16 ottobre 1989, n. 364): Capitolo 1 – Campo di applicazione. Commento all’art. 2, in Le nuove leggi civili commentate, 1993, p. 1229.
[32] M. LUPOI, op. cit., p. 416, cfr. Actes, op. cit., p. 141 ss.
[33] Ibidem, cfr. Report, op. cit., n. 21, in Actes, op. cit, p.141 s.
[34] M. LUPOI, op. cit, p. 416: in particolare l’Olanda, in Actes op. cit., p. 144, p. 212, p. 216.
[35] Ibidem, op. cit., p. 416: in particolare l’Olanda, in Actes op. cit., p. 159 (Unione internazionale del notariato latino); p. 206 (Germania).
[36] Ibidem, op. cit, p. 416: in particolare l’Olanda, in Actes, op. cit, p. 230 (Egitto); P. 232 (Lussemburgo, Argentina, Giappone, Quèbec); p. 233 (Cecoslovacchia); e cfr le osservazioni del presidente a p. 233; la discussione generale a p. 251 – 252 e LA RELAZIONE, n. 23.
[37] Ibidem, op. cit, p. 416, Report, op. cit., n. 26, in Actes op. cit.
[38] M. LUPOI propone per la prima volta questa nozione in Introduzione ai trust e diritto inglese, Convenzione dell’Ala, Milano,1994, cap. IV.
[39] M. LUPOI, op. cit., p. 418, Documento di lavoro n. 58 dell’l – l0 – 1984, in Actes op. cit, p. 312, la conferenza chiuse i lavori il 19 mattina.
[40] Sul punto è illuminante A. GAMBARO, Problemi in materia di riconoscimento degli effetti dei trusts nei paesi di civil law, in Rivista di diritto civile, 1984, I, p. 93: ” Sin dai primi alberi della comparazione giuridica il trust è stato uno dei luoghi privilegiati del dialogo tra civil law e common law. Classici studi sono stati dedicati a questo tema e la conclusione ultima cui si è pervenuti, è racchiusa nella sentenza che la nozione di trust è intraducibile nei linguaggi giuridici dell’Europa continentale. L’uso migliore che il comparatista può fame è quello di utilizzarlo come esempio didattico per mostrare la diversità di struttura che intercorrono tra diritto continentale e diritto inglese”.
[41] R. LUZZATTO, op. cit , p. 7, dove sul punto, e sulle conseguenze che ne sono derivate quanto alle particolarità della Convenzione, cfr. L. FUMAGALLI, La Convenzione dell’Aja sul “trust” e il diritto internazionale privato italiano, in Diritto del commercio internazionale, 1992, p. 533 ss.
[42] A. GIARDINA, op. cit, p. 1212, cfr. REYMOND, Reflection de droit comparè sur la convention de la Have sur le trust, in Reveu de droit intemational et de droit comparè, 1991, p. 13 ss.
[43] A. GIARDINA,op. cit, cfr. VON OVERBECK, La Convention de La Haye du premier juillet 1985 relativa à la loiapplicable au trust et à sa reiconnaissance, in Annuaire suisse de droit international, 1985, spec. P. 32; DYER, Introductory Note on the Hague Convention on the law applicable to trusts and on their recognition , in Reveu de droit uniforme 1985, p. 279.
[44] M. LUPOI, Trust, Milano, 1997, p. 419, nota 37): “Per esempio, il blind trust non è un trust ai sensi della Convenzione, perché esso non prevede l’obbligo del trustee di rendere conto della gestione. Infatti, il requisito posto dal 2° comma dell’ art. 2 della Convenzione, non è soddisfatto dal rendiconto presentato dal trustee al termine del trust, dato che un trust di questo genere, può durare molti anni ed il solo rendiconto finale non consente il controllo sulla gestione (per essere efficace, il controllo deve avvenire durante la gestione).
[45] R. LUZZATTO, op. cit., p. 12 ss.
[46] L. FUMAGALLI, op. cit., p. 533 s.
[47] R. LUZZATTO, op. cit., p. 12 ss.
[48] R. LUZZATIO, op. cit., p. 13; sul punto cfr. VON OVERBECK, Rapport esplicatif, in Actes et documentes de la quinzième session (8 – 20 October), 56 II, la Hague; L. FUMAGALLI, La Convenzione dell’Aja sul “trustee il diritto internazionale privato italiano, in Diritto del commercio internazionale,1992, p. 543; M. G. MALAGUTI, Il futuro del trust in Italia, in Contratto e impresa, 1990, p. 992.
[49] M. G. MALAGUTI, Il futuro del trust in Italia, in Contratto e impresa, 1990, p. 992.
[50] M. LUPOI, Introduzione ai trust, op. cit, p. 128.
[51] M. LUPOI, Effects of the Hague Convention in a civil law country, in Wta notarile, 1998, n. 1, p. 21.
[52] M. LUPOI, The shapeless trust. Il trust amorfo, in Vita notarile, 1995, p. 51 ss.
[53] M. LUPOI, Effects of the Hague Convention in a civil law country, in Vita notarile, 1998, n. 1, p. 22.
[54] M. LUPOI, The shapeless trust. Il trust amorfo, in Vita notarile, 1995, p. 54
[55] M. LUPOI, op. cit, p. 55.
[56] M. LUPOI, Effects, op. cit., p. 22.
[57] M. LUPOI, The shapeless trust. Il trust amorfo, in Vita notarile, 1995, p. 55.
[58] M. LUPOI, Trusts, op. cit, p. 426.
[59] M. LUPOI, The shapeless ,op. cit, p. 55.
[60] A. BUSATO, Convenzione relativa alla legge sui Trusts ed al loro riconoscimento (Convenzione firmata a l’Aja il 1° luglio 1985, resa esecutiva con L. 16 ottobre 1989, n. 364): Capitolo 1 – Campo di applicazione. Commento all’art. 2, in Le nuove leggi civili commentate, 1993, p. 1229 ss.
[61] A. BUSATO, op. cit, p.1229; cfr. VON OVERBECK, Explanatory Report, in Actes et documentescit, L’Aja, 1985, p. 360.
[62] A. BUSATO, op. cit., p. 1229 s.; cfr. FRATCHER, International Enciclopedia of comparative law, VI, Property and trust; Essen, 1973.
[63] Ibidem, op. cit, p. 1230.
[64] M. LUPOI, Trust, Milano, 1997, p. 422.
[65] Ibidem, p. 422, nota 57: “afferma la COMMISSIONE, n. 40: il disponente è stato incluso perchè lo hanno preteso i civilisti, ma gli elementi essenziali di un trust sono tre: disponente, beni e beneficiari.
[66] M. LUPOI, Trusts II) Convenzione dell’Aja e diritto italiano, in Enc. Giur. Treccani vol. XXXI, 1995, p. 3.
[67] ABUSATO, op. cit, p. 1230.
[68] L. FUMAGALLI, La Convenzione dell’Aja sul “trust e il diritto internazionale privato italiano, in Diritto del commercio internazionale, 1992, p. 552 s.
[69] M. LUPOI, Trust, Milano, 1997, p. 443 s., in nota 135 L’A. fa riferimento al delegato olandese che propose la soluzione corretta, cioè di parlare non di riconoscimento, ma di “effetti” dei trusts istituti secondo le previsioni della Convenzione(documento di lavoro n. 14), ma senza raccogliere consensi.
[70] M. LUPOI, op. cit, p. 443, in nota 136, l’A. riferisce che la nozione di trust “straniero” fu espressamente contestata, senza opposizione sia di alcuni esperti (Francia e Danimarca), che dal relatore (in Actes op. cit, p. 290 – 291) e venne omessa dal testo finale dell’art. 13 (cfr,. Relazione n. 132).
[71] M. LUPOI, Effects or the Hague Convention in a civil law country, in Vita notarile, 1998, n. l, p. 20.
[72] M. LUPOI, Introduzione ai trust e diritto inglese, Convenzione dell’Aja, Milano, 1994, p. 133.
[73] M. LUPOI, Trusts II) Convenzione dell’Aja e diritto italiano, in Enc. Giur. Treccani vol. XXXI, 1995, p. 4.
[74] M. LUPOI, Trust, Milano, 1997, p. 443.
[75] Ibidem, L’A. in nota afferma che la delegazione Italiana preconizzo che altrimenti la ratifica sarebbe stata impensabile, cfr. Actes op. cit, p. 304
[76] Ibidem, si veda la discussione ed il voto in Actes op. cit, pp. 303 – 305; si veda anche Commissione n. 88, la proposta della Germania (documento di lavoro n. 62) e la relativa discussione, in Actes, op. cit., p. 336.
[77] M. LUPOI, Effects of the Hague Convention in a civil law country, in Vita notarile, 1998, n. l, p.21.
[78] Ad avallare tale interpretazione più ampia vi è la traduzione francese della relazione di VAN OVERBECK, nella quale è chiaramente indicato che il termine si riferisce anche ad una persona “morale” Cfr. ABUSATO, op. cit, p. 1230 s.
[79] A. BUSATO, op. cit, 1230 5; cfr. FRATCHER, Trust, cit, p. 29 55.: In proposito da un’ analisi dei principali statutes si può ricavare che solo le trust companies alcune banche e compagnie di assicurazioni hanno la capacità generale di essere trustee.
[80] M. LUPOI, Trust, Milano, 1997, p. 422: nota 49) cfr. Actes p. 237 (Regno Unito).
[81] M. LUPOI, Trust, Milano, 1997, p. 425.
[82] E. CALO’, Dal probate al family trust: riflessi e ipotesi applicative nel diritto italiano, Milano, 1996, p. 82:richiama quanto affermato 51 punto da Lupoi, Introduzione al trust, op. cit, p. 125 ss, ID, The shapeless trust, op. cit., p. 57.
[83] A. BUSATO, op. cit., p. 1230 s.
[84] A. BUSATO, op. cit, p.1232; cfr. SCOTT, The law of the Trust, 1 VI, Boston III, ed., 1967.
[85] A. BUSATO, op. cit.; cfr. FRATCHER, Trust cit, p. 51
[86] Ibidem.
[87] Sul punto si vedano le decisioni del Tribunale di Oristano, sentenza 15 marzo 1956, in Foro it, 1956, P. I, c. 1019 ss., e quella del Tribunale di 67 Casale Monferrato, sentenza 13 aprile 1984, in Giurisprudenza italiana, 1986, P. I, sez. II, c. 753 ss.
[88] G. CONDO’, Forma dell’atto istitutivo e degli atti modificativi, in WWW.il-trust-in italiia.it, voce contributi.
[89] Ibidem, cfr. Guida Normativa de ‘1/ Sole 24 Ore” – ottobre 1997 pag. 37.
[90] Ibidem.
[91] Delibera del Comitato di controllo del Se. C. I. T. n.38/98 dell’11 maggio 1998 sul tema “La circolazione dei Trust esteri in Italia”, in Il fisco, 1998, p. 11148ss.
[92] G. CONDO’, op. cit, afferma che questa e’ anche l’indicazione data dalla Scuola di trust, in Atti del corso avanzato della scuola di trust, sessione del 7 novembre 1998, Milano.
[93] R. LUZZATO, Legge applicabile e riconoscimento di trusts secondo la Convenzione dell’Aja dello Luglio 1985, in Rivista di diritto internazionale privato e processuale, 1999, p17.
[94] G. BROGGINI, Trust e fiducia nel diritto internazionale privato, in Europa e diritto privato, Milano, 1998, p.414.
[95] G. BROGGINI,op. cit. ; cfr. O. HAYTON, Liber amicorum G. A. I. Droz, 121; cfr. ID., A little is better than nothing but why so little?, Journal of international trust and corporate planning, 1994, 23.
[96] P. RESCIGNO, Notazioni a chiusura di un seminario sul Trust, in Europa e diritto privato, Milano,1998, p. 458.
[97] C. CASTRONOVO, Trust e diritto civile italiano,in Vita notarile, 1998, II, p. 1327 s.; I. D., Il trust e “sostiene Lupoi in Europa e diritto privato, Milano,1998, p. 448 s.
[98] Art. 2740 c. c. “Responsabilità patrimoniale” : “Il debitore risponde del!’ adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri. Le limitazioni della responsabilità non sono ammesse se non nei casi stabiliti dalla legge”.
[99] Vedi allegata a questa tesi la Versione ufficiale della Convenzione dell’Aia dello luglio 1985.
[100] F. MOSCONI, Diritto internazionale privato e processuale, Torino, 1997, p. 16
[101] Si veda la “Traduzione non ufficiale”riportata in allegato insieme alla Legge 16 ottobre 1989, n. 364 (in suppl. ordinario alla Gazzetta Ufficiale n.261, del!’ 8 novembre 1989), Ratifica ed esecuzione della Convenzione sulla legge applicabile ai trusts ed alloro riconoscimento, adottata a l’Aja il 1 luglio 1985.
[102] Si veda l’art. 12 della traduzione ufficiale francese.
[103] PICCOU-CORSI-DOLZANI, La trascrizione degli atti riguardanti “trusts” in Riv. Not, 1995, p. 1395 s.; gli A. insistono sul concetto che la Convenzione non ha introdotto nel nostro ordinamento una nuova forma di pubblicità immobiliare, essendo ovvio ché 11scrizione nel nostro ordinamento non può che riferirsi che alla trascrizione.
[104] Ibidem, p. 1395 351 Ibidem, p. 1396
[106] PICCOLI-CORSI-DOLZANI, La trascrizione degli atti riguardanti trusts; in Riv. Not., 1995, p.1401; cfr. PAGNI, op. cit; A. BU5ATO, La figura del trust negli ordinamento di common law e di diritto continentale, in Rivista del diritto civile, 1992, p.346 55.
[107] Tribunale di Casale Monferrato, sentenza 13 aprile 1984, in Giurisprudenza italiana; 1986, P. I, sez. II, c. 754
[108] Sul punto si veda, il commento all’art. 55 della legge n. 218/95 di R. LUZZATO, in AA. W. Commentario del nuovo diritto internazionale privato e processuale, Padova, 1996,p. 262.
[109] R. LUZZATIO, Legge applicabile e riconoscimento, op. cit. , p. 15, in nota 27); l’A. fa notare, come è già stato osservato, l’atteggiamento dei vari sistemi sul punto varia dal divieto delle misure pubblicitarie (come in diritto inglese all’obbligo di pubblicità del diritto del trasferimento: si veda sul punto, M. LUPOI, Trusts, op. cito, pp. 224 s., 385 55.
[110] M. C. PAGNI, op. cit., p. 1274; l’A. afferma che i terzi, acquirenti dal trustee e i suoi creditori personali procedenti esecutiva mente prevarranno nei confronti del beneficiary e dei suoi creditori ove rispettivamente abbiano trascritto l’atto di acquisto o abbiano proceduto a pignoramento immobiliare prima della trascrizione dei registri immobiliari della situazione giuridica sia del trustee, sia del beneficiary con riguardo ai beni oggetto del trust. Sotto altro profilo, in mancanza di trascrizione che descriva in modo adeguato la situazione dei beni oggetto del trust. Sotto altro profilo, in mancanza. di trascrizione che descriva in modo adeguato la situazione dei beni oggetto del trust, i terzi sarebbero indotti a fare affidamento sulla “piena” titolarità del trustee e quindi su una consistenza patrimoniale (art.2740 c. c.) di quest’ultimo che non corrisponde a quella reale. Il che in particolare sembra presentarsi come il risultato del venir meno della coincidenza tra detenzione della ricchezza, potere di gestione e responsabilità.
[111] Cfr. arti. 6 e 7 della Convenzione; ma è doveroso ricordare, inoltre, onde evidare di cedere alla tentazione di svolgere considerazione che potrebbero rilevarsi ormai anacronistiche, che è stato presentato alla Camera dei deputati 1’11 novembre 1999, la proposta di legge n. 6547 recante il nome “Disciplina del trust”, al cui Capo I (disposizioni generali), art. 2 (separazione patrimoniale), 2°comma si afferma che “Il trustee è legittimato a richiedere iscrizione trascrizioni e intestazioni di beni immobili di beni mobili registrati e di strumenti finanziari del trust o dati a garanzia del trust. Da tali atti deve risultare, mediante riferimento alle disposizioni della presente legge, la qualità di trustee”, mentre l’art. 3 (trustee) statuisce: al 3° com ma che “Al numero1 del primo comma dell’articolo 2659 del codice civile, sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: se una parte abbia agito nella qualità di trustee, la denominazione del trust, la data della sua istituzione e la sua sede amministrativa, nonché il numero di codice fiscale e le generalità del o dei trustee mentre al 4° comma che “Al numero 1) del secondo comma dell’articolo 2660 del codice civile, sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: “ove il bene sia istituito in trust, devono essere indicate le generalità del defunto e la denominazione, la data di istituzione e la sede amministrativa del trust, nonché il numero di codice fiscale e le generalità dei o dei trustee. O ancora l’art. 4 (vigilanza), al 3° comma prevede che il commissario di cui al comma 2 e il nuovo trustee di cui al medesimo comma possono compiere gli atti di cui all’articolo 3 comma 2. Ma importante è anche il Capo II relativa alle “Disposizioni tributarie”.
[112] E. CALO’, Dal probate al family trust: riflessi e ipotesi applicative nel diritto italiano, Milano, 1996, p. 87 s.,in nota 46), cfr. M. C. PAGNI, op. cit, p. 1274, l’A. riporta la metafora ricorrente a proposito della Convenzione in parola, che distingue fra la pietra (il trust disciplinato dalla Convenzione) e la fionda(gli ordinamenti nazionali). Calò sostiene che se la fionda dipendesse dal!’ ordinamento italiano, “Golia godrebbe di ottima salute”, proponendo agli operatori del diritto di recuperare capacità propositiva, come si conviene alla dignità della nostra tradizione.
[113] M. LUPOI, Trust, Milano, 1997, p. 224 ss.; in generale sulla pubblicità del trust si veda M. LUPOI, Trusts II) Convenzione dell’Aja e diritto italiano, in Enc. Giur. Treccani vol. XXXI, 1995, p. 4.
[114] lbidem, dr. Companies Act 1985, setto 360.
[115] lbidem, p. 225, dr. Law of property Act 1995, segt. 74.
[116] lbidem, p. 225, in nota 421) Il trustee che lo desideri (o che sia obbligato dall’atto istitutivo del trust) può aprire conti bancari intestati a se medesimo nella qualità o direttamente al trust.
[117] lbidem, in nota 422), l’A. afferma che la Law society of England and Walles, si stupì molto quando osservò che la Conferenza pensava di introdurre una norma sulla pubblicità dei trusts (sarebbe stata poi inclusa nell’ art. 12 della Convenzione).
[118] M. LUPOI, Trust, Milano, 1997, p. 385, in nota 232, l’A. fa l’esempio del: Venezuela, Ley de fideicomisos, art. 2; Panama, Legge n. 1 del 1984, art. 2; Mauritius, Trust ad 1989, sect. 4 (così modificato del 1990) per i Charitable trusts; Quebec, Code Civil, art. 1293; Russia, decreto 24 dico 1993, art. 8; Argentina, Ley 24441, art. 4 b).
[119] lbidem. L’A. afferma che solo Panama disciplina quella fattispecie che, nell’ordinamento italiano, è denominata “Fiducia statica”.
[120] Ibidem, p. 386. L’A. afferma che tipico dell’orientamento più diffuso è il predetto-Venezuelano , in Ley de fideicomisos, art. 5 per i diritti reali su immobili. Eguale la prescrizione di Panama, Legge n. 1 del 1984, art. 13, e in Argentina, Ley 24441, art. 12. Tale orientamento, più generalmente è espresso nella legge del Perù, , Ley generai de Bancos, art. 319, 20 comma, e Giappone, Trust law 1922 (trad. ingl.), art. 3.
[121] Ibidem, in nota 236), cfr. Liechtenstein, Personem- un Gesellshaftsrecht, art. 912: obbligo generale di pubblicità per i beni iscritti; art. 901: premesso l’obbligo di far annotare i trusts nel pubblico registro; art. 900: si può fare a meno dell’ annotazione. Quella dell’ annotazione del Registro è condivisa con Mauritius (Trusts Act 1989, sect. 7) e in entrambi i casi non rileva quale sia l’oggetto del trust. Notare che in Liechtenstein l’annotazione può essere omessa(art. 902) se il trust viene sottoposto a registrazione.
[122] Ibidem, p. 387, cfr. Israele, Trust law (trad. Inglese), sect. 5.
[123] Etiopia, codice civile (ed. frane.), art. 516. Si noti che per fideicommisaire si intende il fiduciario e non, come per il fideicomisario delle leggi in lingua delle leggi di lingua spagnola, il beneficiario.
[124] Quebec, Code Civil, art. 1260.
[125] 405 M. LUPOI, Trust, Milano, 1997, p. 446 s.; cfr. Actes, op. cito p. 160(Law Society of England and Wales).
[126] Ibidem, p. 447, cfr. Actes, op. cit., p. 138.
[127] Si ricorda, quanto alla forma, che vengono riconosciuti solo i trust costituiti volontariamente e che siano stati redatti per iscritto(art. 3). Da ciò discende che possono essere riconosciuti in Italia sia i trusts derivanti da manifestazioni di volontà erronee o insufficienti, tali comunque da far presumere la volontà di costituire un trust (resulting trust), sia i trust costituiti verbalmente che possano essere provati per iscritto. Cfr. R. DI VIRGILIO, Appunti in materia di trusts, in Vita notari/e, 1997, p.1069 ss.
[128] Ibidem, “Il trustee (…) avrà facoltà d richiedere la iscrizione nella sua qualità di trustee o in qualsiasi altro modo che riveli l’esistenza del trust. Il compimento delle formalità è condizionato: “a meno che ciò non sia vietato o sia incompatibile a norma della legislazione dello Stato nel quale la registrazione deve aver luogo”. La condizione riguarda il modello inglese, che, lo ripetiamo, proibisce l’iscrizione del vincolo del trust nei registri immobiliari e nei libri dei soci, mentre i trusts degli ordinamenti civilisti dotati di leggi speciali hanno accolto la soluzione opposta e concordemente fanno della trascrizione o dell’iscrizione una condizione dell’opponibilità del trust ai terzi. In nota 102), l’A. afferma che gli interpreti sono unanimi nel ritenere che la condizione dell’art.12 non comporti alcuna preclusione, in diritto italiano, derivante dalla mancanza di una normativa interna sui trust; è stato osservato, M. P. 408 PAGNI, op. cit., 1280, che la legge di ratifica della Convenzione, se si vuole che abbia effetto, è da ritenere modificativa della preesistente disciplina della pubblicità immobiliare. D’altronde, non sarebbe da approvare l’erezione di una barriera contro i trust quando numerosi negozi non previsti dalla tipologia del codice sono ritenuti oggi trascrivibili; dr. F. GAZZONI, La trascrizione immobiliare, I, Milano, 1991, pp. 113-140, 638- 685; G. GABRIELLI, Pubblicità legale, p. 432- 441. L’opinione negativa espressa dal Dipartimento del territorio, Direzione compartimentale per la Lombardia, ha incontrato solo critiche in dottrina; v. P. PICCOLI, Troppi timori in tema di trascrivibilità del”Trust” in Italia, in Notariato,1995, p.616 ss., il quale osserva che la legge di ratifica della Convenzione costituisce “legge speciale” ai sensi dell’ art. 2672 c. c. (così rispondendo ali’ opinione manifestata dal delegato italiano alla Conferenza dell’Aja, secondo la quale sarebbe stato necessario emanare una legge speciale (Actes, op. cit, p. 210) PICCOLI-CORSI-DOLZANI, La traschzione degli atti riguardanti trusts; in Riv. Not, 1995, p.1389 ss.; R. LENZI, Operatività del trust in Italia, in
Rivista del notariato, 1995, P.1379, a pp. 1385- 1386.
[129] S. M. CARBONE, Autonomia privata, scelta della legge regolatrice del trust e riconoscimento dei suoi effetti nella Convenzione dell’Aja del 1985, par. 6, in Atti del Congresso Nazionale Associazione, Il trust in Italia, Roma -19-20 novembre 1999 , in www.iI-trust-in-italiia.it. Cfr. per tutti FUMAGALLI, La Convenzione dell’Aja cit, spet. p. 553.
[130] Ibidem, l’A. afferma che si tratta di aspetti sui quali converge il consenso della dottrina. Vedi, comunque, PAGNI, Commento all’art. 12, loc. cit, 1993, spec. pp. 1281-1282; LUPOI, Trusts cit., p. 446 cito; TONDO, Ambientazione del trust nel nostro ordinamento e controllo notarile sul trustee, in I trusts cito, p. 190 55. e LEBANO, Esperienze notarili nell’evoluzione di trusts: il trust Mevio. I trusts cit, p. 205 55.
[131] Cfr.per tutti, FUMAGALLI, La Convenzione dell’Aja cito, spec. pp. 556 e 558.
[132] Ibidem. In merito alla portata di tale norma vedi, per tutti, PAGNI, Commento all’art. 12 cito, p. 1274 ss.
[133] Ibidem, l’A. afferma che sembra, comunque, del tutto condivisi bile l’affermazione di LUPOI (Aspetti gestori e dominicali cito, spec. 3393) ove precisa che “gli Stati firmatari della Convenzione per il solo fatto di averla sottoscritta (in realtà, ratificata, n.d.r.) e di essersi quindi obbligati a riconoscere i trusts ricadenti nelle previsioni convenzionali dimostrano di considerare I1stituto non incompatibile con gli ordinamenti interni”.
[134] S. M. CARBONE ,op. cit, Cfr. il decreto del Giudice del registro delle imprese del Trib. Santa Maria Capua Vetere, 5 marzo 1999, si veda Rifiuto di iscrizione di trasferimento di Quote sociali al trustee (Tribunale di Santa Maria Capua Vetere), in Atti del Congresso Nazionale dell’associazione:Il trust, in Italia Roma, 19-20 novembre 1999, p. 123 ss., e si veda inoltre in www.il-trust-in-italiia.it,voce giurisprudenza.
[135] Ibidem; l’A. afferma che con riferimento all’importanza dell’interpretazione funzionale nell’applicazione della normativa di diritto uniforme al fine di evitare da un Iato che non si realizzi “l’effetto utile” da esso perseguito e dall’altro che esso subisca al momento del suo impiego condiziona menti nazionali conseguenti all’applicazione dei principi propri ad uno specifico ordinamento statale, si veda, per tutti, GIARDINA, Le Convenzioni internazionali di diritto uniforme nell’ordinamento interno, in Riv. dir. int, 1973, p. 715 55., spec. p. 730; CARBONE, L’ambito di applicazione ed i criteri interpretativi della convenzione di Vienna sulla
vendita internazionale, in Riv. dir. int, 1980, p. 514 ss., spec. p. 530 ss.; BARIAM, L’interpretazione delle convenzioni internazionali di diritto uniforme, Padova, 1986, p. 150 ss. e, da ultimo, POCAR, TREVES, CARBONE, GIARDINA, LUZZATO, MOSCONI, CLERIO, Commento all’art. 2, in Commentario del nuovo diritto internazionale privato, Padova, 1996, spec. p. 14 ss. e BARIAM, Commento all’art. 2, in Nuove leggi civ. comm., 1996, spec. pp. 901-903.
[136] S. M. CARBONE, Autonomia privata scelta della legge regolatrice del trust e riconoscimento dei suoi effetti nella Convenzione dell’Aja del 1985, par. 6, in Atti del Congresso Nazionale Associazione: Il trust in Italia; Roma 19-20 novembre 1999, in www-il-trust-in-italiia-it.
[137] Ibidem, si veda sul punto le esperienze della pratica riportate da PAGNI, Commento all’art. 12 cito, spec. p. 1281; PICCOLI, Possibilità operative cito, spec. p. 62 ss e TONDO, Ambientazione del trust cit. p. 190ss.
[138] Cfr. S. M. CARBONE, Autonomia privata, scelta della legge regolatrice del trust e riconoscimento dei suoi effetti nella Convenzione dell’Aja del 1985, par. 3, in Atti del Congresso Nazionale Associazione “Il trust in Italia’; Roma 19-20 novembre 1999, in www.iI-trust-in-italiia.it. L’A. afferma che, nell’ambito della dottrina, l’esponente che ha formulato al riguardo gli argomenti più convincenti e con metodo scientificamente pregevole è BROGGINI, Il trust nel diritto internazionale privato italiano, in I trusts in Italia oggi Milano, 1996, p. 11 ss; ID, Trust e fiducia nel diritto internazionale privato, in Europa e diritto privato, Milano, 1998, p. 413s.
[139] Cfr. BROGGINI, Il trustcit, spec. p. 21.
[140] Cfr. BROGGINI, Il trustcit, spec. p. 22.
[141] S. M. Carbone, op. cit, par.3. Nella letteratura italiana, a favore del riconoscimento del c.d. trust interno in virtù della scelta della legge applicabile, vedi, da ultimo, LUPOI, La legittimità dei trusts interno in I trusts cit., p. 29 ss.; POCAR, La libertà di scelta della legge regolatrice del trust, ibidem, p. 3 ss., spec. p.8 e LUZZATTO, “Legge applicabile” e “riconoscimento” cit. p. 5 ss., spec. pp. 1820.
[142] S. M. Carbone, op. cit par.3. L’A. afferma che in realtà, anche nel vigore dell’abrogato art. 25 disp. prel. cod. civ. il prevalente orientamento di dottrina e giurisprudenza era nel senso che la scelta della legge applica bile fosse, di per sé, elemento sufficiente a giustificare l’applicazione di un ordinamento straniero ad un rapporto contrattuale pur in difetto di altri collegamenti oggettivi e/o soggettivi dotati dei caratteri della intemazionalità. In merito a tale problematica dr., per tutte, Cass., 2 dicembre 1960, n. 3173, in Giust. civ., 1961, I, p. 643 e, in dottrina, CARBONE, LUZZATTO, Obbligazione. VI) Diritto internazionale privato e processuale: obbligazioni da contratto, in Enc. giur. XXI, Roma, 1990, spec. par. 2 e 3.
[143] Ibidern; a favore del parallelismo tra le norme ricordate nel testo dr. POCAR, La libertà di scelta cit., p. 8.
[144] Ibidem. L’A. afferma che la tendenza accennata nel testo si riscontra non soltanto nell’ambito della normativa di diritto internazionale privato in senso stretto, ma anche con riferimento agli altri profili giuridicamente rilevanti al fine di determinare la disciplina effettivamente rilevante nei riguardi dei “contratti internazionali”: vedi al riguardo, CARBONE, Autonomia privata e contratti internazionale in Nuova giuro civ. comm., 1992, II, p. 28255.; CARBONE, LUZZATTO, Il contratto internazionale, Torino, 1994, spec. p. 41 s., e nella dottrina non internazionalistica, FRIGNANI, Il contratto internazionale. Padova, 1990 e BORTOLOTTI, Diritto dei contratti internazionale Padova, 1997.
[145] Cfr. i cenni al riguardo di FUMAGALLI, Commento all’art 5, in Nuove leggi civ. comm., 1993, spec. p. 1216 e LUPOI, Legittimità dei trusts cit., spec. pp. 32-33.
[146] Si veda, per tutti, GAMBARO, Il trust in Italia, in Nuove leggi civ. comm., 1993, p.1216 e FUMAGALLI, Commento all’art 5cit., spec. p. 1216.