Vana diffida ad adempiere e (controversa) disponibilità dell’effetto risolutorio fra giurisprudenza e dottrina
La sentenza che si annota (1) pubblicata su Diritto&Giustizia del 10 novembre 2007 affronta una delicata questione ovvero se pur dopo la scadenza del termine ad adempiere stabilito nella diffida la parte adempiente conservi il potere di chiedere l’adempimento. Il fatto che ha originato la controversia di cui ci si occupa può essere molto sinteticamente riassunto.
Parte attrice dopo aver eseguito un sequestro conservativo conveniva in giudizio la parte inadempiente per la convalida e la condanna all’esecuzione in forma specifica di un contratto preliminare che tenesse luogo del contratto definitivo avente ad oggetto il trasferimento delle quote della s.r.l. Radioguide, il pagamento del prezzo residuo e del valore dei titoli depositati presso la Banca Toscana e da questa venduta.
Il convenuto si opponeva alla domanda ritenendo che non si era proceduto alla stipula del contratto definitivo per il fatto che l’altro promettente venditore non si era presentato innanzi al notaio e che il preliminare si era risolto a seguito di diffida ad adempiere. Mentre il Tribunale accoglieva la domanda dell’attore ad opposta conclusione perveniva la Corte di appello di Firenze.
In particolare la Corte di appello statuiva che risultava erroneo ritenere che pure dopo la scadenza del termine stabilito nella diffida ad adempiere la parte contraente conservi il potere di chiedere l’adempimento, sul presupposto che l’effetto risolutorio sia rimasto nella sua disponibilità.
Al contrario verificatosi l’inadempimento, la parte adempiente ha la duplice facoltà di chiedere sentenza risolutiva del contratto avente natura costitutiva o di intimare diffida ad adempiere.
In questa seconda ipotesi va da se che l’effetto risolutorio si verifica per l’inutile decorso del tempo fissato nella diffida e la sentenza ha natura dichiarativa.
Poste queste premesse, la Corte rilevava che la diffida ad adempiere nel caso in esame corrisponde al tipo astratto di cui all’art. 1454 c.c.
Considerato che la condizione stabilita nella lettere f) del contratto preliminare non si è avverata, l’inadempimento non può ritenersi di scarsa importanza posto che la liberazione dei titoli dal vincolo pignoratizio avrebbe consentito ai promettenti venditori di rientrare in possesso di una somma cospicua.
Parte attrice legittimamente quindi si è avvalso dello strumento della risoluzione di diritto tuttavia appare evidente che si è preclusa la possibilità di proporre domanda di adempimento in forma specifica.
Avverso tale sentenza proponeva ricorso parte attrice. La Corte investita della questione ragionevolmente motivava ed accoglieva le doglianze del ricorrente.
LA RISOLUZIONE EX ART. 1453 C.C. E LA DIFFIDA AD ADEMPIERE EX ART. 1454 C.C.
L’art. 1453 c.c. dispone che nei contratti a prestazioni corrispettive a fronte di un inadempimento di non scarsa importanza di una delle parti, l’altra può chiedere la risoluzione.
Alla parte adempiente, il nostro Legislatore all’art. 1453 comma 1, c.c., accorda alcuni rimedi di tutela nel caso di inadempimento della controparte.
In primo luogo, l’azione in giudizio per l’inadempimento, mediante richiesta al giudice di condannare l’inadempiente a eseguire la prestazione, oltre al risarcimento dei danni. In alternativa, è concessa la domanda di risoluzione, mediante richiesta al giudice di sciogliere il contratto.
La norma pone a disposizione della parte adempiente due discipline alternative: può infatti scegliere di avvalersi dell’azione di adempimento o della risoluzione del contratto, con diritto in entrambi i casi al risarcimento dei danni.
Va rilevato però che poiché la risoluzione svolge essenzialmente la funzione di rimedio alle anomalie del rapporto sinallagmatico, il diritto di far cadere il vincolo contrattuale sorge solo nel momento in cui si rompe l’equilibrio negoziale.
La risoluzione rappresenta l’estinzione del contratto per un rapporto impeditivo del rapporto è dunque lo scioglimento del rapporto contrattuale.
Possiamo poi distinguere tra risoluzione volontaria e risoluzione legale.
Nell’ambito della risoluzione volontaria si colloca la risoluzione negoziale, ovvero l’estinzione del contratto decisa dal soggetto nell’esercizio della sua autonomia negoziale e la risoluzione per giusta causa o inadempimento che costituisce esercizio di un potere di autotutela del soggetto, cioè un rimedio accordato per l’ipotesi d’intollerabilità della prosecuzione del rapporto o di in esecuzione del contratto (2).
Nel caso di ritardo nell’adempimento dell’obbligo di stipulare il contratto definitivo l’altra parte può avvalersi del rimedio dell’esecuzione in forma specifica, ovvero può chiedere una sentenza produttiva degli effetti del contratto definitivo non concluso.
Va peraltro esaminato l’art. 1454 c.c. rubricato “diffida ad adempiere” in forza del quale il contraente inadempiente può avvantaggiarsi di una rimessione in termini a opera dell’altra che gli intima di adempiere in un congruo termine pena la risoluzione di diritto del contratto.
La parte adempiente dunque anziché chiedere giudizialmente la risoluzione può fissare al debitore un termine per adempiere, trascorso invano il quale il contratto s’intenderà risolto. La dichiarazione di diffida ad adempiere ha carattere negoziale nel senso che si sostanzia in un negozio unilaterale recettizio a forma scritta.
La diffida ad adempiere è pertanto un negozio unilaterale, ricettizio, espressione di un diritto potestativo attribuito “ex lege” al creditore, destinato perciò a produrre il suo effetto sostanziale (risoluzione “de iure” del contratto) indipendentemente dall’adesione o da un qualsiasi comportamento di collaborazione del soggetto obbligato, il quale, di fronte alla diffida, si trova in quella situazione di soggezione, che tipicamente si contrappone al diritto potestativo, e, ove non possa fondatamente contestare in fatto i presupposti o le condizioni di efficacia dell’atto, non ha alcun mezzo per scongiurare l’effetto proprio di esso : il predetto effetto – a prescindere da ipotesi negoziali estranee al “thema decidendum” è impedito soltanto dall’accoglimento, in sede giudiziale, delle contestazioni in fatto, da parte del contraente diffidato, dei presupposti o delle condizioni di efficacia dell’atto di diffida, cioè dal riconoscimento giudiziale della insussistenza di tali presupposti o condizioni (3).
La diffida ad adempiere deve quindi contenere la fissazione di un termine per l’adempimento che sia adeguato in relazione alla prestazione da effettuare e che in ogni caso sia almeno di quindici giorni salva diversa pattuizione delle parti e salvo che per la natura del contratto o secondo gli usi risulti appropriato un termine inferiore. Il termine decorre dal momento della ricezione della diffida. La parte adempiente deve peraltro intimare l’adempimento di modo che non sarà sufficiente un generico invito o una generica espressione di desiderio.
Ed invero la legge impone che la diffida contenga l’avvertenza espressa che, in caso di mancato adempimento entro il termine, il contratto s’intenderà risolto.
Solo in tal modo, infatti, l’altro contraente viene reso perfettamente edotto delle conseguenze di un’eventuale inosservanza del nuovo termine fissatogli. Peraltro è pacifico che l’intimazione della diffida e l’inutile decorso del termine in essa contenuto non eliminano la necessità dell’accertamento giudiziale in ordine alla “non scarsa importanza” dell’inadempimento (art. 1455 c.c.) e che dall’esito positivo di tale verifica (rapportata al momento in cui scade il termine fissato nella diffida) dipende l’idoneità a produrre l’effetto risolutorio.
Una simile funzione postula quindi che, una volta che il termine assegnato con la diffida abbia iniziato a decorrere, per esigenze di certezza la parte non inadempiente non può più revocarlo o modificarlo unilateralmente, in quanto tale comportamento avrebbe l’effetto di “rimettere il debitore in una situazione di obbligo da cui egli stesso lo ha liberato” (4).
Ciò posto, giova sottolineare che non varrebbe come diffida la dichiarazione che, in caso di inadempimento, si agirà per vie legali. Ciò detto, appare pertanto condivisibile parte della dottrina (5) che qualifica la diffida ad adempiere alla stregua di un rimedio sinallagamatico apprestato dall’ordinamento a favore del contraente, affinché quest’ultimo non subisca le conseguenze negative derivanti per l’appunto dall’inadempimento altrui.
Si tratta quindi di uno strumento che consente alla parte adempiente di ottenere la risoluzione del contratto senza necessità di adire l’autorità giudiziaria e per tale motivo s’inquadra tra le forme di tutela stragiudiziale del contratto ovvero come risoluzione di diritto.
Si osservi però che quando alla diffida ad adempiere non segua l’inerzia del diffidato ma una reazione dello stesso attraverso un’azione giudiziale proposta in pendenza del termine, la diffida medesima rimane improduttiva degli effetti risolutivi di diritto previsti dall’art. 1454 c.c., perché l’accertamento chiesto dall’intimato in ordine all’inadempimento contestato travolge “ogni attività stragiudiziale pregressa e devolve alla valutazione del giudice i termini della contesa”.
Parte della dottrina (6) sostiene che in pendenza del termine di adempimento fissato con la diffida, il creditore non può chiedere ne l’adempimento, ne la risoluzione, ne può procedere ad esecuzione forzata salvo che il debitore dichiari per iscritto di non volere adempiere.
Scaduto invano tale termine il contratto quindi s’intende automaticamente risolto, sempre che l’inadempimento sia grave ex art. 1455 c.c.
Ed infatti si osservi che ai fini dell’accertamento della risoluzione di diritto, conseguente alla diffida ad adempiere senza esito, intimata dalla parte adempiente, il giudice è tenuto a verificare in ogni caso la sussistenza degli estremi, soggettivi ed oggettivi dell’inadempimento, in particolare dovrà verificare sotto il profilo oggettivo che l’inadempimento sia di non scarsa importanza, alla stregua del criterio indicato dall’art. 1455 c.c., e sotto il profilo soggettivo, l’operatività della presunzione di responsabilità del debitore inadempiente fissata dall’art. 1218 c.c., la quale pur dettata in riferimento alla responsabilità per il risarcimento del danno, rappresenta un principio di carattere generale.
E pur vero che l’adempimento effettuato dopo la domanda di risoluzione del contratto, pur non arrestando gli effetti di tale domanda, deve essere, tuttavia, preso in esame dal giudice al fine della valutazione dell’importanza dell’inadempimento, potendo esso costituire circostanza decisiva a rendere l’inadempimento di scarsa importanza con diretta influenza sulla risolubilità del contratto, ai sensi dell’art. 1455 c.c (7).
Vi è dunque chi (8) sostiene che una volta notificata la diffida, il creditore non può più revocarla, ne modificarla nemmeno rinnovando il termine, cosicché l’effetto risolutorio in caso di inadempimento, è bensì inevitabile, ma egli può anche rinunziarvi.
Si discute però in relazione al momento in cui il contratto deve ritenersi risolto. Da una parte si evidenzia infatti l’importanza della regola posta dall’art. 1453 c.c e dunque la necessità che in ogni caso al creditore sia offerta l’opportunità di esercitare la scelta tra adempimento e risoluzione.
Ciò posto, ulteriore questione dibattuta in dottrina che appare in netto contrasto con le posizioni invece assunte sul punto dalla giurisprudenza attiene ai profili della rinuncia alla risoluzione di diritto. Posto che nel nostro ordinamento i rapporti di diritto privato sono governati dal principio dell’autonomia dei privati si ammette che il diffidante possa rinunciare alla risoluzione di diritto dopo la scadenza del termine intimato, laddove ciò risulti maggiormente conforme ai propri interessi. Si badi il tutto potrà avvenire tanto esplicitamente quanto implicitamente purché si sostanzi in atti univoci.
La dottrina in senso nettamente contrario ha affermato invece che nella diffida ad adempiere l’effetto risolutorio non è nella disponibilità dell’intimante che dopo aver azionato il meccanismo risolutorio non può rinunciarvi. Pertanto se il contratto è risolto il creditore ed il debitore sono liberati dall’obbligazione non ancora adempiuta o sono creditori della restituzione se hanno in tutto o in parte adempiuto.
Opinare diversamente porterebbe alla conclusione che la risoluzione di diritto rappresenterebbe un vantaggio unilaterale in favore del creditore.
Del resto, domandando la risoluzione il creditore mostra l’inequivoca volontà di travolgere il contratto, e quindi la mancanza di interesse a riceversi la prestazione, sicché il convenuto non solo non può più adempiere ma è anche esonerato dall’effettuare la prestazione a suo carico senza che ciò possa essere valutato ai fini dell’accertamento della fondatezza della domanda.
Tale principio è in evidente contraddizione se si osserva che la risoluzione di diritto non costituisce un privilegio per il contraente adempiente e rappresenta un’alternativa alla risoluzione giudiziale senza peraltro privare la parte inadempiente delle garanzie accordate dal processo.
LA POSIZIONE ACCOLTA DALLA SENTENZA
Secondo parte della giurisprudenza non può rinunciare all’effetto risolutorio del contratto che ha provocato con la diffida ad adempiere e pretendere l’adempimento.
Al contrario va rilevato che la giurisprudenza maggioritaria ha affermato che la diffida ad adempiere non può produrre effetti oltre alla volontà del suo autore, il quale può sempre rinunciare ad avvalersi della risoluzione già verificatasi per l’inutile decorso del termine fissato nella diffida o dichiarato giudizialmente, ripristinando l’obbligazione rimasta inadempiuta.
Non può condividersi il principio secondo cui l’effetto risolutorio del contratto per inadempimento non sia nella libera disponibilità del creditore diffidante.
Ed in proposito afferma la sentenza di cui in parola (9) “il termine fissato nella diffida ha carattere essenziale, ma l’essenzialità è posta nell’interesse del creditore il quale è l’unico arbitro della convenienza di fare valere l’inutile decorso del termine. Il creditore legittimamente quindi può cambiare idea dopo avere intimato la disdetta ed in questo risiede la ratio dell’art. 1454 c.c.”.
La diffida ad adempiere infatti ha la finalità di fissare con chiarezza la posizione delle parti nell’esecuzione del contratto mettendo sull’avviso l’inadempiente che l’altra parte non è disposta a sopportare un ulteriore ritardo.
La parte adempiente può dunque rinunciare a posteriori all’effetto risolutorio che rimane nella disponibilità del creditore che può agire per l’adempimento.
Pertanto l’espressione “risoluto di diritto” dell’art. 1454 c.c. significa soltanto che la pronuncia giudiziale relativa ha carattere meramente dichiarativo della risoluzione stessa, e non che ad essa il giudice possa provvedere d’ufficio.
Osserva peraltro la giurisprudenza che il contraente non inadempiente, infatti, così come può rinunziare ad eccepire l’inadempimento, che potrebbe dar causa alla pronunzia di risoluzione, può, allo stesso modo, rinunciare ad avvalersi della risoluzione già avveratasi per effetto o della clausola risolutiva espressa o dello spirare del termine essenziale o della diffida ad adempiere, e può anche rinunziare ad avvalersi della risoluzione già dichiarata giudizialmente, ripristinando contestualmente l’obbligazione contrattuale ed accettandone l’adempimento.
Alla luce di tale ricostruzione a mio avviso pare condivisibile il principio affermato secondo cui è riconosciuto un assoluto potere dispositivo al contraente adempiente ed ammette la ritrattazione da parte dello stesso anche dopo l’inutile decorso del termine stabilito nella diffida ad adempiere che viene posto nel suo esclusivo interesse. La diffida ad adempiere costituisce infatti una facoltà che si esprime a priori nella libertà di scegliere questo mezzo di risoluzione del contratto a preferenza di altri ed a posteriori nella possibilità di rinunciare agli effetti risolutori già prodottosi (10). Vale a dire che la diffida costituirebbe una facoltà e non un obbligo di intimare alla controparte inadempiente di onorare il proprio impegno entro un congruo termine, nel senso che rimarrebbe nella facoltà di chi ha intimato la diffida, dopo l’inutile decorso del termine fissato, proporre apposita domanda per fare accertare e dichiarare dal giudice la risoluzione del contratto. La facoltà dell’intimante quindi consisterebbe non solo nello scegliere a priori se effettuare o meno la diffida, ma anche nel rinunciare a posteriori al relativo effetto.
Il fine della diffida è infatti di produrre gli effetti che si ricollegano ad una clausola risolutiva espressa ovvero la rapida risoluzione del rapporto mediante la fissazione di un termine che si ribadisce ha carattere essenziale nell’interesse della parte adempiente alla quale è rimessa la valutazione della convenienza di farne valere la decorrenza.
Orbene la risoluzione si produce di diritto indipendentemente dalla volontà dell’intimato, rimanendo nella disponibilità dell’intimante che può successivamente rinunciare ad avvalersene.
Di conseguenza occorre la domanda dell’intimante posto che la diffida è un negozio giuridico che non può produrre effetti oltre la volontà del suo autore, perché il giudice possa dichiarare la risoluzione e la conferma che lo stesso intimato invece di avvalersi dell’effetto risolutorio può ricorrere ad altri mezzi di tutela.
Conclusivamente afferma la sentenza in commento che “rinunciare all’effetto risolutorio già verificatosi rientra nell’ambito delle facoltà connesse all’esercizio dell’autonomia privata al pari della rinuncia al potere di ricorrere al congegno risolutorio predisposto dall’art. 1454 c.c.”
Pertanto la diffida ad adempiere ha la sola funzione di determinare lo scioglimento di diritto del rapporto, sicché in caso contratto preliminare, non condiziona in alcun modo l’esercizio dell’azione prevista dall’art. 2932 c.c. intesa ad ottenere l’esecuzione specifica dell’obbligazione di concludere il contratto promesso e non stipulato. La sentenza annotata ribadisce quindi sostanzialmente l’orientamento ormai consolidato della giurisprudenza, la quale, a dire il vero, contrariamente alla dottrina, ammette che dopo la scadenza del termine stabilito nella diffida ad adempiere parte adempiente può chiedere l’adempimento essendo l’effetto risolutorio rimasto nella sua disponibilità.
1 Cass. sez. III 8 novembre 2007, n. 23315.
2 BIANCA C.M. Diritto Civile, Il Contratto, Milano 2000, p. 733.
3 NATOLI L., voce Diffida ad adempiere, in Enc. Dir., XII, Milano 1964, 509; COSTANZA M., Della risoluzione per inadempimento, Com. S.B., Bologna-Roma 1990, 433
4 ROSSELLO C., Diffida ad adempiere e congruità del termine, in Il Corriere Giuridico, 1991, 2 p. 194.
5 Si parla di rimedi sinallagatici poiché le disposizioni di cui all’art. 1453 c.c. e 1454 c.c. vengono dettate con specifico riferimento ai contratti con prestazioni corrispettive, mediante un richiamo talvolta implicito, talvolta esplicito a tale categoria. Cfr. GIUFFRIDA A., GIUFFRIDA A., Diffida ad adempiere: requisiti formali e sostanziali, in Ventiquattrore Avvocato Contratti, 1 marzo 2007 n. 1 p. 63.
6 GAZZONI F., Manuale di diritto privato, Napoli 2004, p. 996 ss.
7 In contrapposizione a siffatto indirizzo, altre pronunce hanno però più convincentemente affermato che,
una volta proposta la domanda giudiziale di risoluzione, e sino a che non intervenga il giudicato, il convenuto non può più adempiere la propria obbligazione (vedi Cass. sent. n. 627/60; n. 267/61; n. 2057/80; 5050/86; 2145/87; 6880/91; 7085/92; 6121/93).
8 GAZZONI F., op. cit. p. 999.
9 Cass. sez. III 8 novembre 2007, n. 23315.
10 La diffida ad adempiere prevista dall’art. 1454 C.C. costituisce una facoltà, e non già un onere, del contraente non inadempiente, il quale, pertanto, indipendentemente dalla diffida, può sempre chiedere ed ottenere dal giudice, che venga dichiarata la risoluzione del contratto, ai sensi dell’art. 1453 C.C. (cfr. Cass. (aprile 1987, n. 3446; Cass. 12 gennaio 1982, n. 132; Cass. 22 luglio 1981, n. 4717).